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scarpinato-roberto-web0Prefazione di Roberto Scarpinato al libroLe ultime parole di Falcone e Borsellino”*
Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico venga epurato da ogni sconveniente riferimento alle travagliate vicende che segnarono le vite di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, preparandone lentamente la morte.
Relegando nel fuori scena della storia quelle vicende, questa forma di autocensura consegna così alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché con il loro lavoro di integerrimi magistrati, culminato nelle condanne inflitte con il maxiprocesso, erano il simbolo di uno Stato che aveva sferrato un colpo mortale a Cosa nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati.
Hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Totò Riina, Bernardo Provenzano e altri personaggi di tal fatta; per lo più ex villici che si esprimono in un italiano maldigerito, i cui tratti fisiognomici, duri e sprezzanti, quasi appaiono lombrosianamente rivelatori della loro intima natura crudele.
Secondo questa rappresentazione, la mafia è costituita da una minoranza di criminali che, come si usa ripetere, costituisce una sorta di fungo malefico, di tumore all’interno di una società costituita da un’assoluta maggioranza di onesti: una netta linea di confine separa la città dell’ombra, abitata dai portatori del male di mafia, dalla città della luce, popolata dagli innocenti.
Il male, dunque, è fuori di noi e può essere catarticamente proiettato sul monstrum (colui che viene messo in mostra).
A volte qualcuno tra gli oratori si spinge ai limiti dell’arditezza, alludendo anche alla corresponsabilità di colletti bianchi che si muovono ambiguamente lungo quella linea di confine. E, tuttavia, quasi a voler rassicurare se stesso oltre che l’uditorio, l’oratore provvede subitaneamente a ridimensionare quest’ardita digressione – che rischierebbe di incrinare le serene certezze di tanti – specificando che nella maggior parte dei casi si tratta di «semplice» responsabilità morale e, per il residuo, di singole mele marce nel paniere delle mele buone. Del resto, in quale buona famiglia non esiste qualche pecora nera?
Fine della cerimonia e saluti delle autorità, tra le quali purtroppo siedono, talora in prima fila, anche personaggi dai dubbi trascorsi, ai quali si è costretti a stringere la mano per dovere di ruolo.
Si ritorna quindi a casa e coloro che, come me e pochi altri, hanno vissuto queste vicende in prima persona, portandone dentro segni indelebili, vengono colti da un senso di spaesamento per l’impossibilità di riconoscersi in una simile narrazione degli eventi.
Il peso del rimosso, della parte della storia relegata nel fuori scena, è infatti tale da stravolgerne completamente la chiave di lettura e il senso globale.
La realtà che abbiamo vissuto e sofferto con Giovanni e Paolo racconta che, diversamente da quanto si ripete nelle cerimonie ufficiali, il male di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche «tra noi».
Racconta che gli assassini e i loro complici non hanno solo i volti truci e crudeli di coloro che sulla scena dei delitti si sono sporcati le mani di sangue, ma anche i volti di tanti, di troppi sepolcri imbiancati. Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri.
Tutte responsabilità penali certificate da sentenze definitive, costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illuminano a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto.
Mediante tale selettività a senso unico dei materiali utilizzati per la costruzione del sapere sociale sulla mafia, si pone così in essere un riduzionismo della storia globale che realizza una sorta di amnistia permanente della memoria per amnesia collettiva.
In realtà il gorgo che ha inghiottito migliaia di vite chiama in causa quello che lucidamente Giovanni Falcone definiva «il gioco grande» del potere, di cui il sistema mafioso sin dall’Unità d’Italia è sempre stato importante coprotagonista, come dimostrano la lezione della storia, gli esiti di tanti processi, e come confermano, da ultimo, anche le indagini sulle stragi del 1992.
Indagini segnate da inquietanti depistaggi (falsi collaboratori introdotti nel processo per la strage di via D’Amelio), dalla sparizione di documenti cruciali (l’agenda rossa di Paolo Borsellino e, prima ancora, i documenti custoditi nell’abitazione di Salvatore Riina). Indagini che, come quella sulla trattativa tra alcuni esponenti dello Stato e la mafia per porre fine alle stragi, hanno anche innescato una sorta di triste sagra di Stato degli smemorati di Collegno, intessuta di tanti «non ricordo», di reciproche smentite, di rivelazioni parziali. Frammenti di verità che emergono solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel fuori scena della storia da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali. La delegittimazione di Falcone e Borsellino Questo libro raccoglie alcuni degli scritti e degli interventi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma il lettore immemore delle vicende di quegli anni difficilmente potrebbe intravedere attraverso il prisma delle loro parole, sofferte ma sempre doverosamente misurate, il vero volto dell’immane sistema di potere con il quale essi dovettero misurarsi, rischiando sempre di soccombere. La vera chiave di lettura dei testi sta nel fuori testo, nel non detto e nel non dicibile.
Giovanni e Paolo dovevano fare un attento governo delle parole nella comunicazione pubblica, non solo per il senso di responsabilità proprio dei delicati ruoli istituzionali ricoperti, ma anche per la consapevolezza che le loro parole potevano essere strumentalizzate e ritorte contro di loro da un variegato mondo di potenti che li viveva come variabili indipendenti dagli equilibri esistenti e, dunque, pericolosamente incontrollabili. Quel mondo che li lavorava ai fianchi tentando di isolarli all’interno dei loro stessi uffici con occulte manovre di potere, che incessantemente rovesciava loro addosso un impressionante volume di fuoco di parole per delegittimarli e neutralizzarli, li attendeva proprio al varco delle loro parole di risposta, per isolarli e travolgerli definitivamente.
Ne fece diretta esperienza Paolo Borsellino quando, in due interviste rilasciate nel luglio 1988 ai giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, lanciò in campo nazionale l’allarme sulla silenziosa opera di smobilitazione del pool antimafia posta in essere dal consigliere Antonino Meli, nuovo capo dell’Ufficio istruzione che aveva preso il posto di Antonino Caponnetto e che era stato preferito dal Consiglio superiore della magistratura a Giovanni Falcone, da tutti ritenuto invece il suo successore naturale: Vogliono smantellare il pool antimafia. Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, venivano fortemente centralizzate nel pool della Procura e dell’Ufficio istruzione.
Oggi invece i processi vengono dispersi in mille rivoli. Tutti si devono occupare di tutto, è questa la spiegazione ufficiale, ma è una spiegazione che non convince. La verità è che Giovanni Falcone purtroppo non è più il punto di riferimento principale [...] Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa nostra si è riorganizzata, come prima e più di prima.
Una rigorosa ispezione ministeriale disposta dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli avrebbe accertato poco tempo dopo che i fatti denunciati da Paolo Borsellino rispondevano a verità. Eppure Paolo per quell’intervista fu trascinato dinanzi al Consiglio superiore della magistratura rischiando
il procedimento disciplinare, da cui scampò solo perché Giovanni Falcone venne in suo soccorso, comunicando il 30 luglio la sua richiesta di essere trasferito ad altro ufficio con parole che nel loro rompere gli argini denunciavano che la sconfitta del pool si era ormai consumata: Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro.
Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle fun zioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie
cui io ho collaborato erano sta te condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del con sigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avan zato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio pre zioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio.
È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività. Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio
impegno professionale. Anche in quella occasione però ho dovuto registrare in fami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere.
Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatis simo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto anti mafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo
Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha di mostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti.
Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magi strati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà pro fessionale e  con maggiore incisività, condurrebbero le in dagini in tema di mafia. Tuttavia, essendo prevedibile che mi saranno chiesti chiarimenti sulle questioni poste sul tappeto dal procura tore di Marsala,  ritengo di non poterlo fare se non a con dizione che non vi sia nemmeno il sospetto di tentativi da parte mia di sostenere pretese situazioni di privilegio (ciò, inevitabilmente, si dice adesso a proposito dei titolari di indagini in tema di mafia).
E allora, dopo lunga riflessione, mi sono reso conto che l’unica via praticabile a tal fine è quella di cambiare imme diatamente ufficio. E questa scelta, a mio avviso, è resa an cora più opportuna dal fatto che i miei convincimenti sui criteri di gestione delle istruttorie divergono radicalmente da quelle del consigliere istruttore divenuto titolare, per sua precisa scelta, di tutte le istruttorie in tema di mafia.
Mi rivolgo pertanto alla sensibilità del presidente del Tribunale affinché, nel modo che riterrà più opportuno, mi assegni ad altro ufficio nel più breve tempo possibile; per intanto chiedo di poter iniziare a usufruire delle ferie con decorrenza immediata. Prego vivamente, inoltre, l’onore vole Consiglio superiore della magistratura di voler rinvia re la mia eventuale audizione a epoca successiva alla mia assegnazione ad altro ufficio.
Mi auguro che queste mie istanze, profondamente senti te, non vengano interpretate come un gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è co stretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio pensiero senza condizionamenti di sorta.
Le dimissioni di Falcone furono respinte, l’allarme di Borsellino venne ignorato, il pool antimafia venne smobilitato e le inchieste su Cosa nostra, prima centralizzate nell’Ufficio istruzione, furono disseminate in una molteplicità di uffici giudiziari siciliani, determinando così l’esito infausto di molte indagini.
A rileggerla a distanza di quasi un quarto di secolo, tutta questa vicenda ha quasi dell’incredibile. Borsellino e Falcone, artefici della straordinaria riscossa dello Stato contro la mafia grazie al nuovo metodo di indagine inaugurato con Antonino Caponnetto, sollevano un problema reale e drammatico. Il Csm, invece di prestare loro attento ascolto, mette sotto inchiesta Borsellino e alla fine assiste con vigile indifferenza al compimento della smobilitazione del pool e all’arretramento dell’impegno dello Stato in una fase cruciale.
La chiave di comprensione di questa e di altre complesse vicende – come quella che in precedenza, grazie a una accorta regia, aveva impedito che Falcone venisse nominato capo dell’Ufficio istruzione di Palermo – non si trova all’interno della «città dell’ombra» abitata dai semianalfabeti Riina e
Provenzano, ma nei recessi della «città della luce» popolata dagli onesti nonché da una folla di piccoli e grandi Don Rodrigo, senza i quali quelli come Riina, eredi dei «bravi» di manzoniana memoria, sarebbero stati archiviati da tempo come relitti di un passato premoderno o si sarebbero acconciati a pagare in silenzio il prezzo della galera per i loro crimini, senza poter contare su protezioni eccellenti e senza mai osare sfidare lo Stato.
Il pool antimafia viene in realtà smobilitato perché era divenuto il terreno di manovra di un war game in cui la vera posta in gioco era la sopravvivenza stessa del sistema di potere siciliano, una delle architravi portanti di quello nazionale.
Per tentare di comprendere nel breve spazio di una prefazione come e perché ciò fosse avvenuto bisogna riavvolgere velocemente all’indietro il nastro della memoria fermandolo a qualche anno prima che iniziasse l’avventura del pool antimafia.
Gli anni Ottanta e il sacrificio di Costa e Chinnici. È l’agosto del 1980. In una chiesa di Palermo si celebrano i funerali di Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo assassinato a colpi di pistola il giorno 6 di quel mese dai killer della mafia. Ad assistere al rito funebre sono presenti solo parenti, amici e le autorità. È assente l’establishment di Palermo, quel gotha di politici, imprenditori, finanzieri che signoreggia sulla Sicilia e che non fa mai mancare la propria presenza ai funerali dei potenti. Assenza significativa ove si tenga conto che il procuratore della Repubblica di Palermo è sempre stato considerato uno degli uomini più potenti della città e del paese. Mancano molti, troppi magistrati del Palazzo di giustizia. Manca, soprattutto, la gente comune, quella folla sterminata di persone che nel 1992, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, riempirà le chiese, le piazze e le vie della città.
Cosa significa quell’assenza, segno tangibile di una solitudine tanto più rimarchevole ove si consideri la statura dell’uomo di Stato di cui si celebrano le esequie: ex partigiano e magistrato integerrimo, precursore, già quando in precedenza aveva ricoperto l’incarico di procuratore di Caltanissetta, delle prime indagini bancarie sul riciclaggio mafioso?
È la stessa solitudine, consegnata solo al segreto dei propri diari o a pochi intimi, che avrebbe attanagliato anche Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, assassinato con un’autobomba il 29 luglio 1983, Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, assassinato il 3 settembre 1982, e altri uomini accomunati dall’essere avanguardie isolate di un’antimafia che stava iniziando la sua travagliata e sanguinosa marcia, facendosi strada tra l’indifferenza popolare e l’occhiuta insofferenza dei potenti. È la stessa solitudine che faceva dire in quegli anni a Falcone che talora gli sembrava che la gente assistesse alla lotta contro la mafia come il pubblico che sugli spalti assiste a una corrida. Taluni tifavano per il torero, altri per il toro, ma tutti erano comunque spettatori passivi di uno spettacolo gladiatorio il cui epilogo, la morte violenta, emozionava per un attimo per poi dileguarsi nell’oblio.
Negli scritti raccolti in questo volume si trovano alcuni passaggi che rievocano quel clima e che indicano alcune possibili spiegazioni dell’indifferenza della società civile.
Una motivazione andava certamente ricercata nella generalizzata ignoranza della realtà della mafia di cui per decenni si era voluta pervicacemente negare l’esistenza, riducendola a semplice fenomeno di costume, a invenzione dei comunisti per screditare il buon nome dell’isola o a semplice criminalità comune, nonostante l’inesauribile stillicidio di omicidi e di stragi che sin dall’Unità d’Italia aveva lasciato sul terreno centinaia di vittime.
A questo riguardo, nello scritto La mafia come Antistato, Falcone afferma: Mi sembra di rileggere un copione già scritto perché tante altre volte sono stati assunti questi atteggiamenti e tante altre volte sono stati contestati, in quanto espressione della sostanziale indifferenza della società italiana rispetto al problema, o peggio, della assuefazione rispetto al triste rito delle morti che scandisce le dinamiche mafiose. [...] Debbo purtroppo registrare che questi problemi suscitano l’attenzione dell’opinione pubblica solo in presenza di fatti eclatanti e, malgrado l’importanza del fenomeno, non trovano approfondimento scientifico se non da parte di studiosi stranieri, tranne qualche lodevole eccezione; [...] Mi ha stupito sentir dire da un noto sociologo che la cosiddetta organizzazione mafiosa è un’accozzaglia di bande in perenne lotta l’una contro l’altra e che se i mafiosi si ammazzano tra loro non è un grosso problema. Se così si ritiene dagli studiosi del fenomeno non ci si può meravigliare se in certe sentenze si sostiene qualcosa di analogo che sicuramente non risponde alla realtà criminale.
Sul punto ritorna anche nello scritto La mafia non è invincibile: Anche fra i rappresentanti della legge c’era chi dubitava perfino dell’esistenza della mafia come organizzazione criminale. Ricordo la domanda che mi rivolse un collega dell’Ufficio istruzione, con un’esperienza pluriennale: «Ma tu credi veramente che esista la mafia?». [...] Era il periodo in cui nei quotidiani locali si aveva ritegno a nominare la mafia, tanto che gli omicidi mafiosi venivano quasi sempre etichettati come opera di una «bieca mano assassina» e in cui le indagini [...] erano ormai avviate verso il totale insuccesso. [...] Il disinteresse dello Stato nei confronti della mafia era pressoché totale [...]. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se i fenomeni criminali della mafia, della camorra, della ’ndrangheta venivano vissuti dall’opinione pubblica nazionale in maniera disattenta e svogliata [...].
A proposito della manipolazione mistificatoria che ha sempre contrassegnato la costruzione sociale del sapere sulla mafia – prima negata sic et simpliciter, poi ridotta ad «accozzaglia di bande in perenne lotta l’una contro l’altra» e, infine, a storia di bassa macelleria criminale di cui sarebbero protagonisti solo personaggi come Riina e Provenzano – va ricordato come ancora nel 1982 il sindaco di Palermo Nello Martellucci, esponente di punta della corrente andreottiana, si fosse opposto pubblicamente alla concessione di poteri speciali al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa per coordinare la lotta alla mafia, dichiarando che la mafia lui non l’aveva mai vista e che quella di Palermo era solo criminalità comune, come ve ne era in tutto il paese. E ciò, si badi bene, avveniva dopo l’impressionante catena di omicidi mafiosi che aveva lasciato sul terreno Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana (9 marzo 1979), Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo (21 luglio 1979), Cesare Terranova, già capo dell’Ufficio istruzione di Palermo (25 settembre 1979), Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana (6 gennaio 1980), Emanuele Basile, capitano dei carabinieri (4 maggio 1980), Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo (6 agosto 1980), Pio La Torre, segretario regionale del Pci (30 aprile 1982).
Ma a parte l’ignoranza, in buona misura indotta, vi era un’altra ragione ancora più profonda che alimentava l’indifferenza della società civile: la gente non riusciva a identificarsi nello Stato.
Questo è uno dei leitmotiv che attraversa dolosamente le riflessioni che Borsellino affida ai suoi scritti e ai suoi interventi.
Così in Una lezione su mafia e legalità, un discorso tenuto agli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989, affermava: [...] il cittadino del Meridione si è sentito lontano, si è sentito estraneo allo Stato. [...] lo Stato non si presenta con la faccia pulita [...]. Che cosa si è fatto per dare allo Stato, in queste regioni e comunque dappertutto in Italia, un’immagine credibile?
[...] la vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni.
A uno studente che gli chiedeva se si sentisse protetto dallo Stato e se avesse fiducia nello Stato, risponde: Io non mi sento protetto dallo Stato perché oggi la lotta alla criminalità mafiosa viene sostanzialmente delegata soltanto alla magistratura e alle forze dell’ordine. [...] non si incide sulle cause a fondo di questo particolare fenomeno criminale.
Spiega quindi come questa delega – tra l’altro compromessa da mille difficoltà frapposte a magistrati e poliziotti ai quali venivano fatte mancare risorse e solidarietà – determinasse la loro sostanziale sovraesposizione, rendendoli quasi vittime sacrificali. A questo proposito cita, tra gli altri, l’esempio di Gaetano Costa e di Rocco Chinnici, ricordando come «coloro che cominciarono a interessarsi di questi problemi non è che raccolsero grossa solidarietà all’interno del Palazzo di giustizia».
Lo Stato non è credibile Riprendendo il filo di queste riflessioni e attingendo all’inesauribile riserva di fatti confinati nella sfera del fuori scena, sebbene accertati con sentenze definitive, si può aggiungere che la gente non riusciva a identificarsi con istituzioni che non apparivano credibili perché si manifestavano con i volti impresentabili di personaggi come Salvo Lima e Vito Ciancimino, uomini simbolo di una sterminata fauna politica che annoverava migliaia di esponenti, maschere e replica seriale di un potere corrotto, in larga misura connivente o «convivente» con la mafia e interessato solo alla propria autoriproduzione. Lo Stato non appariva credibile neanche a Roma, dove uno di coloro che nell’immaginario collettivo ne costituiva quasi la personificazione, Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, ventidue volte ministro, vertice nazionale di una corrente il cui plenipotenziario in Sicilia era proprio Salvo Lima (per questo motivo definito «il viceré»), aveva allora rapporti organici con la mafia, come è stato definitivamente accertato con sentenza della Corte di appello di Palermo del 2 maggio 2003, confermata in Cassazione il 15 ottobre 2004, nella cui motivazione si legge tra l’altro: E i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono che il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza.
Come la Corte ha ritenuto provato in altre pagine della motivazione, proprio nello stesso anno in cui era stato assassinato Gaetano Costa, Giulio Andreotti era volato segretamente in Sicilia per partecipare a un summit mafioso che aveva come oggetto un affare scottante: l’omicidio di Piersanti Mattarella, anomalo presidente democristiano della Regione siciliana, assassinato perché aveva osato mettere in pericolo gli interessi economici del sistema di potere mafioso, promuovendo un’incisiva azione di moralizzazione della politica regionale.
Presenti a quella riunione erano alcuni dei più importanti capi della mafia militare che aveva eseguito l’omicidio, Salvo Lima e i potentissimi cugini Nino e Ignazio Salvo, esponenti apicali della borghesia mafiosa a capo di una holding imprenditoriale tra le più rilevanti del Meridione.
Ma non basta. Lo Stato non era credibile anche perché prefetti, questori e alti magistrati partecipavano alle feste, alle cerimonie di inaugurazione di nuove imprese, alle battute di caccia di personaggi che tutti sapevano essere mafiosi: come Benedetto Santapaola, capo della mafia corleonese a Catania, più volte fotografato sorridente insieme al prefetto e ad altre autorità. Come Michele Greco, capo della Commissione, organo di vertice di Cosa nostra, il quale, a guisa di criptico messaggio, prima di iniziare un interrogatorio, ricordò a Giovanni Falcone che aveva avuto il piacere di ospitare nella sua tenuta tanti alti magistrati. Come i predetti cugini Salvo, le cui feste, documentate dalle foto del tempo, erano affollate da rappresentanti di uno Stato che, anche per questo motivo, appariva non credibile.
Ma non basta ancora. Lo Stato non era credibile neppure in quella articolazione dalla quale sarebbe partita la sua riscossa: la magistratura. E qui conviene ricordare le parole con le quali Giovanni Falcone, nel difendersi dall’accusa di essere un «giudice sceriffo» perché cercava attivamente le prove invece di limitarsi a vagliare quelle raccolte dalle forze di polizia, tratteggia nello scritto Emergenza e Stato di diritto il ritratto della magistratura di quegli anni, ristagnante in una tranquilla routine burocratica mentre venivano falcidiati uno dopo l’altro in tragica successione temporale alcuni tra i più importanti vertici delle istituzioni: Qualcuno, forse, potrà rimpiangere i «bei tempi andati» in cui il pubblico ministero si limitava a dare una prima scrematura degli elementi di prova forniti dalla polizia giudiziaria, e il giudice istruttore soleva compiere un’ulteriore verifica delle prove, spesso con effetto di ulteriore ridimensionamento dei rapporti di denunzia. E io ricordo ancora quell’alto magistrato che mi diceva che il giudice istruttore non ha mai scoperto niente e occorre lasciare che la polizia svolga tranquillamente le indagini. Ciò del resto – per fortuna in settori sempre meno estesi – è talora l’atteggiamento di alcuni ufficiali di polizia  giudiziaria, che mal sopportano e ritengono essere una indebita ingerenza il diretto coordinamento delle indagini da parte del magistrato istruttore. In realtà, bisogna che tutti si rendano conto che il modello di magistrato inerte e privo di spirito di iniziativa, se poteva essere rispondente alle esigenze di un determinato periodo storico e funzionale a un determinato equilibrio socio-politico, non è mai stato fondato su un uso legittimo dei poteri istituzionali.
I «bei tempi andati», espressione di quell’equilibrio sociopolitico al quale Falcone accenna, erano anche quelli nei quali, alcuni anni prima, il procuratore generale presso la Suprema corte di cassazione – il magistrato più alto in grado di tutta la magistratura inquirente – si era complimentato pubblicamente con Genco Russo, divenuto capo della mafia siciliana dopo la morte del suo predecessore, Don Calogero Vizzini, scrivendo su una rivista giuridica: Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nelle persecuzioni ai banditi e ai fuorilegge... ha affiancato addirittura le forze dell’ordine [...] Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività.
Nel Palazzo di giustizia, c’era qualcosa di ancora più inquietante dei ritardi culturali e delle passività burocratiche: qualcosa con cui Falcone e Borsellino avrebbero dovuto misurarsi negli anni seguenti, risultando alla fine perdenti.
A quel qualcosa di inquietante aveva osato fare riferimento proprio Gaetano Costa, l’uomo lasciato solo a morire dopo essere stato vissuto come un corpo estraneo, quando il 10 luglio 1978, insediatosi nel suo nuovo ufficio di procuratore capo a Palermo, aveva dichiarato: «Non accetterò spinte o pressioni, agirò con spirito di indipendenza». Frase che aveva suscitato scandalizzati commenti negativi e che lo aveva connotato da subito come un non allineato, destinato a essere isolato, perché equivaleva a dire: «So bene che in questo palazzo vi sono magistrati che subiscono spinte e pressioni. Ma vi avverto, non provateci con me, perché sono di un’altra razza».

Veleni al Palazzo di giustizia di Palermo
Ma quali erano le pressioni alle quali faceva riferimento Gaetano Costa di cui non vi era traccia nei documenti pubblici e alle quali nessuno aveva mai osato fare aperto riferimento?
Erano, ad esempio, quelle ripetutamente e invano esercitate su Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, altro magistrato non allineato: colui che aveva il merito di avere reclutato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel suo Ufficio e che gettò i primi semi della nascita della straordinaria stagione dell’antimafia palermitana decollata negli anni successivi. A testimonianza del clima di assedio vissuto in quegli anni da Costa e Chinnici in quel Palazzo di giustizia dove i giovani Falcone e Borsellino iniziavano a lavorare, va ricordato che i due, quando dovevano parlare di argomenti delicati, si vedevano costretti, per sottrarsi all’ascolto di orecchie indiscrete, a rinchiudersi nell’ascensore riservato di servizio, facendo su e giù per i piani per tutto il tempo necessario.
Nessuno sa cosa si siano detti. Si può ipotizzare che Chinnici abbia confidato a Costa anche qualcuno degli episodi di «spinte e pressioni» esercitate in quel Palazzo per pilotare l’esito di indagini che coinvolgevano i potenti. Episodi che egli ebbe cura di annotare in un diario, ritrovato dopo il suo tragico assassinio e di cui vale la pena di ricordare alcuni frammenti: Così, alla pagina del 18 settembre 1980, Chinnici scrive: Il procuratore generale [...] mi raccomanda caldamente il proc. contro Cuccio Giuseppe imputato di frode valutaria. Lo stesso mi ha raccomandato il processo contro il di lui genero imputato di falsità in titolo di credito. Alla pagina del 14 luglio 1981 si legge: ore 13. G. Falcone mi comunica che il Primo Presidente della Corte gli ha caldamente raccomandato il cavaliere del lavoro Graci implicato nella faccenda Sindona; dopo averlo convocato nel suo ufficio.
Di episodi simili Chinnici ne annota diversi, ma ve ne è uno particolarmente emblematico. Si tratta di un incontro avvenuto il 18 maggio 1982 con il presidente della Corte di appello, di cui Chinnici fa un analitico resoconto: ore 12 – [Il Presidente] Mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini e accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che «cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla».
[...] Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà a ispezionare l’ufficio (e io lo invito a farlo); è indignato perché [non è stata archiviata] la sporca faccenda dei contributi (miliardi per la elettrificazione delle loro aziende agricole); l’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia [...] non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche. Quante volte sarà accaduto che nel segreto di quelle stanze siano state esercitate pressioni su magistrati? E quante volte sarà accaduto che schiene meno dritte di quelle di Chinnici e Costa si siano piegate, per timore reverenziale, per quieto vivere, per umana debolezza? Come vedremo più avanti, anche Falcone alla fine degli anni Ottanta annoterà nel suo diario episodi simili da lui constatati alla Procura della Repubblica di Palermo, dove sarebbe divenuto procuratore aggiunto, a testimonianza della persistenza nel tempo di un fuori scena che costituisce il pezzo mancante e insieme una imprescindibile chiave di lettura per comprendere perché l’avvento di magistrati come Costa, Chinnici, Falcone, Borsellino avesse determinato l’apertura di una interna linea di frattura tra due diverse anime della magistratura. L’una che viveva se stessa e il Palazzo di giustizia come componente organica del «Palazzo» di pasoliniana memoria, attenta dunque a esercitare una giurisdizione che si faceva carico delle compatibilità generali di sistema all’insegna del motto aureo del quieta non movere et mota quietare. L’altra che voleva invece inverare nella prassi quotidiana il principio costituzionale dell’indipendenza e dell’autonomia dell’Ordine giudiziario dal «Palazzo», premessa indispensabile per realizzare il valore dell’uguaglianza di tutti i cittadini – potenti e impotenti – dinanzi alla legge, sancito dall’articolo 3 della Costituzione: vera e propria rivoluzione democratica in un paese come l’Italia dove per troppo secoli – come aveva scritto Gaetano Salvemini – la legge non era stata ritenuta rispettabile perché vissuta come la «voce del padrone» e l’incarnazione di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti.
Poiché le pressioni interne al Palazzo di giustizia per non svolgere più indagini sui rapporti mafia-economia che coinvolgevano i potenti del tempo si erano rivelate inefficaci, Chinnici riceve un altro avvertimento. Ne riferisce Paolo Borsellino in una testimonianza resa il 4 agosto 1983 nel processo per l’omicidio di Chinnici: dopo che l’Ufficio istruzione aveva emesso un mandato di cattura contro il cavaliere del lavoro Costanzo, imprenditore catanese ritenuto contiguo alla mafia, e contro Di Fresco, uomo politico democristiano, Chinnici era stato sollecitato da un senatore, ex magistrato, a recarsi nella sua abitazione di Palermo. Qui aveva incontrato l’onorevole Lima – vertice del potere politico mafioso in Sicilia – il quale gli aveva fatto presente che le iniziative giudiziarie del suo ufficio venivano considerate una forma di persecuzione politica per la Dc.
Il 29 luglio 1983 il testardo e non allineato Chinnici viene massacrato sotto casa insieme agli agenti della sua scorta con un’auto bomba imbottita di tritolo.
A ucciderlo saranno gli uomini della mafia militare ma, come riferirà in udienza uno degli esecutori materiali, Giovanni Brusca, la richiesta di assassinarlo era venuta dal mondo dei colletti bianchi. A volerne la morte erano stati i potentissimi cugini Salvo, sui quali Chinnici si era ostinato a indagare sino alla fine.
Gli stessi cugini Salvo che avevano partecipato con Lima, Andreotti e i quadri militari della mafia al summit sull’omicidio di Piersanti Mattarella. Gli stessi cugini Salvo che ospitavano nelle loro feste tanti esponenti dello Stato. Gli stessi «intoccabili» il cui arresto a seguito del mandato di cattura emesso negli anni seguenti da Falcone e Borsellino segnerà l’inizio della fine del pool antimafia di Palermo.
Carlo Alberto dalla Chiesa, vittima predestinata Che lo Stato non fosse credibile perché una sua parte era a vario titolo compromessa con il sistema di potere mafioso e altre sue componenti avevano scelto il quieto vivere era sofferta consapevolezza, oltre che dei magistrati appena ricordati, anche di altri uomini i quali, per i loro trascorsi, venivano riconosciuti dalla pubblica opinione come simboli, seppure isolati, di uno Stato credibile: tra questi il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, altra vittima predestinata del «gioco grande».
Ecco cosa scrive il generale dalla Chiesa nel suo diario alla pagina del 30 aprile 1982, giorno in cui era stato assassinato l’onorevole Pio La Torre, segretario regionale del Pci, e in cui era stato catapultato a Palermo con l’incarico di prefetto e la promessa di superpoteri di coordinamento che non gli saranno concessi mai per l’opposizione di quel potentissimo mondo politico legato alla mafia che lui conosceva benissimo: L’Italia è stata scossa dall’episodio [l’omicidio mafioso dell’onorevole Pio La Torre avvenuto quel giorno, ndr] specie alla vigilia del congresso di una Dc che su Palermo vive con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che di potere politico. E io, che sono certamente il depositario più informato di tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo a essere richiesto di un compito davvero improbo [...] Promesse, garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano. [...] Mi sono trovato al centro[...] di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma all’uso e allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti [...] pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi [...].
Il generale dalla Chiesa subisce la stessa strategia dell’isolamento che sarà riservata dopo di lui a Chinnici, a Falcone e a Borsellino. Gli specialisti della violenza, i «rifinitori», arrivano sulla scena del delitto il 3 settembre 1982, dopo che il terreno di morte era stato preparato dai colletti bianchi con un profluvio di parole, sussurrate nei corridoi del potere e talora «sparate» sulla stampa e sui media televisivi, destinate a indebolire la vittima predestinata, appannandone la credibilità agli occhi della pubblica opinione.
Consapevole di essere stato abbandonato al suo destino, in una intervista a Giorgio Bocca rilasciata poco prima di essere assassinato, Carlo Alberto dalla Chiesa dichiarerà: «Credo di avere capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché isolato».
Sul luogo dell’eccidio di via Carini qualcuno deporrà un cartello con la scritta: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti», il cui significato profondo era da intendere come la speranza in uno Stato credibile, quale era appunto quello incarnato dal generale dalla Chiesa, assurto a eroe popolare dopo che aveva contribuito a debellare il terrorismo rosso.

La criminalità del potere: un’unica grande e terribile storia
Questi telegrafici accenni a quella parte della storia relegata nel fuori scena lumeggiano alcuni contorni dell’immane sistema di potere contro cui si scontrarono Falcone e Borsellino. Ma ancora non basta. Perché questa parte della storia che si è venuta sin qui tratteggiando è a sua volta contenuta, come all’interno di una matrioska, in una storia ancora più grande che coincide con quel gioco del potere a cui fa accenno Carlo Alberto dalla Chiesa («le regole del gioco») e a cui si riferisce esplicitamente Falcone con l’espressione «gioco grande».
Lo Stato, infatti, non era privo di credibilità solo in Sicilia per i motivi dei quali si è detto. Lo Stato non era credibile in tutto il paese, perché significative componenti delle classi dirigenti che ne occupavano i centri nevralgici utilizzavano il potere pubblico in modo illegale e talora violento.
Come è stato accertato con sentenza definitiva, erano uomini dello Stato, che per questo motivo sono stati condannati, quelli che negli stessi anni avevano depistato le indagini della magistratura sulla strage alla stazione di Bologna consumata il 2 agosto 1980 e avevano coperto i reali esecutori materiali, alimentando una strategia della tensione che metterà in ginocchio la democrazia nel paese. Strategia della tensione che, non a caso, aveva avuto il suo incipit proprio in Sicilia con la strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, anche quella contrassegnata da altri depistaggi di Stato, secondo un copione che sarà replicato poi nella strage di piazza Fontana e in altre ancora.
Lo Stato non era credibile perché centinaia dei suoi vertici facevano parte di una loggia massonica denominata P2, un centro di potere che costituiva una sorta di Stato segreto dentro quello ufficiale, e che gestiva leve fondamentali del potere pubblico.
Lo Stato non era credibile perché in quegli stessi anni nei quali Falcone e Borsellino iniziavano la loro marcia, il cancro di Tangentopoli stava corrodendo dall’interno le fondamenta stesse della vita pubblica. Costituisce a mio parere una ingenuità culturale e un grave errore epistemologico ritenere che ciascuna di queste storie sia separata dalle altre, e che sia dunque improprio farne accenno all’interno di una vicenda che riguarda la mafia siciliana.
In realtà tutte queste storie sono declinazioni particolari di un’unica, grande storia che ha visto come protagonista la criminalità del potere, le cui varie componenti hanno spesso interagito tra loro sui diversi terreni della corruzione sistemica, della mafia e dello stragismo, tramite una miriade di vasi comunicanti che hanno fatto circolare lo stesso sangue infetto all’interno di un unico corpo malato.
Alla luce di questa visione di insieme, si comprende come e perché tanti personaggi di alcune storie attraversino costantemente tante altre storie, apparentemente diverse, in un gioco di specchi che alla fine restituisce il segreto e impresentabile ritratto di Dorian Gray di una parte consistente della classe dirigente nazionale.
Esemplari tra le tante che si potrebbero narrare – ma non basterebbe un’intera enciclopedia – le vicende del finanziere Michele Sindona e del banchiere Roberto Calvi, entrambi componenti della P2 in diretto contatto con Licio Gelli (condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna e trait d’union di mille affari sporchi della Prima repubblica, rimasto sempre potente nonostante le condanne). Entrambi portati in palma di mano da vertici dello Stato, inseriti nel gotha della finanza internazionale e addetti a gestire nel contempo miliardi di tangenti destinate a uomini e partiti politici e i capitali della mafia, utilizzando gli stessi canali, tra i quali lo Ior, la banca del Vaticano, il cui presidente, l’arcivescovo Marcinkus, sarà fatto riparare all’estero con passaporto diplomatico vaticano per sottrarlo al mandato di cattura emesso dalla magistratura italiana. Capitali mafiosi che venivano poi investiti anche nell’acquisto di partecipazioni in alcuni di principali gruppi imprenditoriali del paese, come la Calcestruzzi Spa, società capofila del gruppo Ferruzzi, facente capo a Raul Gardini, trovato suicida il 23 luglio 1993, artefice della scalata alla Montedison e regista della maxitangente Enimont di 150 miliardi di lire, definita la madre di tutte le tangenti, i cui rivoli finirono pure nelle tasche di Salvo Lima.
Quando Falcone aveva scoperto che la mafia aveva investito nel gruppo Ferruzzi, aveva dichiarato nel 1991, in occasione di un pubblico convegno, che la mafia era entrata in Borsa.
Una storia, tra le tante, circolare e globale, nella quale i confini tra i vari mondi – quello della politica, della finanza e della mafia – sfumano in un corrosivo, unico magma splendidamente rappresentato da Leonardo Sciascia in romanzi come Il contesto e Todo modo, vere e proprie messe in scena dell’oscenità del «gioco grande» del potere in un paese così descritto nella nota conclusiva del romanzo Il contesto:  [...] un paese dove non hanno più corso le idee, dove i principi vengono quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducono in politica a pure denominazioni nel gioco delle parti che il potere si assegna, dove soltanto il potere per il potere conta [...] un potere che sempre più degrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo definire mafiosa.
Ecco, ora ci siamo. Se per un attimo proviamo a ricomporre nella nostra mente le tessere sparse di questo infinito mosaico, vediamo finalmente delinearsi alcuni contorni del «gioco grande»: quell’intreccio tra storia ufficiale, visibile sulla scena pubblica, e storia svoltasi nel fuori scena (ob scenum), che segna purtroppo l’anomalia della storia italiana rispetto a quella di altri paesi europei di democrazia avanzata. Solo alla luce di questa chiave di lettura globale possiamo avere esatta misura della statura di giganti di questi uomini che, compiendo il loro dovere in piena e totale aderenza al dettato costituzionale, si trovarono risucchiati in un vortice in cui girava il vento possente della grande storia del paese. Consegnati tragicamente alla Storia con la esse maiuscola perché in realtà con essa si misurarono, e non già, come si ripete nelle cerimonie ufficiali, solo con quella con la esse minuscola di cui sono stati protagonisti gli specialisti della violenza materiale, additati come esclusivi portatori del «male di mafia» e del «male dello stragismo».
Per dare concretezza a quanto si va delineando, va ricordato che la prima inchiesta che Rocco Chinnici affidò al giovane Falcone, appena arruolato all’Ufficio istruzione, fu quella sul clan mafioso Spatola-Inzerillo, subito ribattezzata dagli avvocati come il processo Spatola-Sindona.
Così Giovanni ricorda quell’incipit nello scritto La mafia non è invincibile: Avendo avuto la sorte di dovermi occupare, non appena arrivato all’Ufficio istruzione di Palermo, del primo processo di mafia di grande rilievo (quello con tro Rosario Spatola e altri, nel quale erano confluite, tra l’altro, le vicende del falso sequestro di Michele Sindona e di un vasto traffico di eroina tra l’Italia e gli Usa), ebbi modo di constatare personalmente come non fosse rimasta alcuna memoria storica delle conoscenze giudiziarie acquisite sul fenomeno mafioso; come gli organismi di polizia giudiziaria, provati da gravissimi omicidi (Boris Giuliano, il tenente colon nello dei carabinieri Giuseppe Russo, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile), avessero perso vivaci tà e spirito di iniziativa; come, invece, la mafia faces se mostra di sicurezza e di arroganza. Comincio così, nell’indifferenza generale, ma con l’aiuto generoso del capo dell’Ufficio, Rocco Chinnici, e di qualche collega e ufficiale di polizia giudiziaria, una paziente opera di intelligence, diretta a individuare e fissare le coordinate del fenomeno mafioso: vennero riesumati obsoleti rapporti di polizia e studiati vecchi processi di mafia finiti  ingloriosamente; vennero faticosamente avviati in Italia e all’estero contatti di collaborazione con magistrati e funzionari impegnati in indagini analoghe; venne battuta per la prima volta la strada degli accertamenti bancari e patrimoniali, che si rivelò una fonte preziosa di notizie. I risultati non tardarono ad arrivare. Vennero scoperti i primi laboratori di eroina; vennero redatti i primi importanti rapporti di polizia giudiziaria; vennero finalmente celebrati i primi processi di mafia con buoni risultati. Cominciò, soprattutto, a intravedersi, grazie agli sforzi generosi di funzionari di polizia e di ufficiali dell’Arma, la trama di un’organizzazione mafiosa, Cosa nostra, di dimensioni e di potenza inusitate, con notevoli capacità di infiltrazione nelle istituzioni e nel tessuto sociale. Questo rinnovato impegno, duro, silenzioso e di lungo periodo, fu scandito da un susseguirsi di fatti criminali di gravità inaudita. Già il 6 gennaio 1980 era stato ucciso il presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella; il 30 aprile 1982 venne il turno di Pio La Torre, generoso segretario regionale del Pci; il 3 settembre dello stesso anno Carlo Alberto dal la Chiesa, inviato in terra di Sicilia per combattere la mafia come un generale senza esercito, venne bie camente trucidato unitamente alla giovane moglie. Nello stesso periodo infuriò una guerra di mafia che, per durata e intensità, non aveva precedenti. Il 29 luglio 1983, in un sanguinario attentato, perse la vita il consigliere istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, unitamente alla scorta e a ignari cittadini. Faticosamente – e grazie soprattutto alla abnegazione e alla modernità di idee del nuovo capo dell’Ufficio istruzione, Antonino Caponnetto – si riuscì a organizzare finalmente un serio lavoro di gruppo e a tirare le fila di un impegno ormai pluriennale. Erano comparsi i primi «pentiti» di mafia, incoraggiati dalla maggio re credibilità acquisita dallo Stato anche agli occhi delle organizzazioni criminali, i quali avevano con sentito di inquadrare nella giusta luce gli squarci già aperti dalle indagini fino ad allora condotte. Vennero, così, conferme ai risultati del lavoro investigativo e di ipotesi di lavoro e si poterono, soprattutto, porre le basi per un’ulteriore avanzata grazie alle conoscenze, ormai sufficientemente precise, delle strutture e delle dinamiche di Cosa nostra.
Seguendo in tutto il mondo il filo di Arianna del riciclaggio del denaro sporco, Falcone si ritrovò, insieme ai colleghi milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagavano sulla P2, al centro di quella mostruosa connection di potere alla quale si è fatto cenno e che avrebbe falciato tante vite, approdando poi alla Commissione parlamentare sulla P2 la cui presidente, Tina Anselmi, avrebbe pagato con l’emarginazione dalla vita politica il rigore con il quale aveva condotto i lavori. Il 21 luglio 1979 era stato assassinato a Palermo Boris Giuliano, straordinario capo della Squadra mobile che, indagando sul riciclaggio dei capitali mafiosi, si era tra l’altro imbattuto in un libretto al portatore appartenente a Michele Sindona, il quale in quel periodo si trovava in Sicilia sotto falsa identità. Dopo l’omicidio di Giuliano era stato nominato capo della Mobile Giuseppe Impallomeni, titolare della tessera P2 n. 2213, mentre contemporaneamente questore del capoluogo palermitano era Giuseppe Nicolicchia, iscritto alla loggia segreta Ompam, fondata da Gelli a Rio de Janeiro. Dieci giorni prima, l’11 luglio, quell’inarrestabile macchina di morte aveva falciato l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della sindoniana Banca privata italiana, il quale aveva incontrato poco tempo prima Giuliano e – come è stato processualmente accertato – non si era voluto piegare alle richieste di insabbiamento né alle minacce di morte che gli erano state fatte pervenire dal capomafia Stefano Bontate, grado 33 della massoneria. Si tratta di quello stesso Stefano Bontate che nel 1980 avrebbe partecipato a Palermo al summit con Giulio Andreotti, Salvo Lima, i cugini Salvo e altri per discutere dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Lo stesso Bontate che aveva gestito il falso rapimento di Sindona e che lo custodiva in Sicilia, aderendo entusiasticamente ai progetti di colpo di Stato che il finanziere coltivava unitamente ad alcuni esponenti dell’ala oltranzista dell’amministrazione americana, fermamente ostile alle aperture politiche al Partito comunista in Italia.
Su incarico di Bontate, il cognato di questi, Giacomo  Vitale, mafioso e massone, aveva detto ad Ambrosoli – il quale aveva registrato segretamente quelle minacce con segnando le bobine alla magistratura – che doveva salvare le banche di Sindona perché questa era l’indicazione che veniva da Giulio Andreotti. Miglior sorte fu destinata al governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e al suo vice, Mario Sarcinelli, i quali pure si erano opposti al salvataggio delle banche sindoniane con il denaro pubblico. Il primo venne incriminato per favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio, il secondo fu addirittura tratto agli arresti nell’ambito di inchieste promosse da quella parte della magistratura che, a Roma come a Palermo, annoverava tra i propri esponenti molti che avevano assidue frequentazioni con il «Palazzo» e taluni che poi erano ospiti a Palermo dei cugini Salvo (anche questo processualmente accertato).
Il 17 giugno 1982 Roberto Calvi veniva impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, simulando un suicidio che solo dopo molti anni si scoprirà essere una messinscena. Il 22 marzo 1986 Michele Sindona, depositario di scottanti segreti, moriva avvelenato nel carcere di Voghera.
Circa un mese prima, il 10 febbraio 1986, era iniziato a Palermo il cosiddetto maxiprocesso, capolavoro di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, che portò sul banco degli accusati 474 imputati, capovolgendo l’immagine internazionale dell’Italia, che da allora non sarà più solo la capitale della mafia, ma anche e soprattutto capitale dell’antimafia. Antonino Caponnetto e il pool antimafia Il big bang dell’antimafia palermitana in quella prima metà degli anni Ottanta era il frutto di una combinazione particolare tra risorse personali – l’eccezionale statura umana e professionale di alcuni magistrati (tra i quali vanno ricordati anche Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello) – e risorse istituzionali.
Proprio questo particolare mix riesce a emancipare quel settore strategico della giurisdizione dalle maglie del sistema di potere che attraversava anche il Palazzo di giustizia.
Essenziali si rivelano le risorse istituzionali. Bisogna ricordare, infatti, che i giudici istruttori godevano di uno statuto di indipendenza ben superiore a quello dei sostituti procuratori della Repubblica. Questi erano inseriti in uffici gerarchici, i cui vertici, i procuratori della Repubblica e i procuratori generali, si ricollegavano spesso – anche a causa di perduranti vischiosità culturali – ai vertici ministeriali.
Non è un caso, dunque, che il motore di quella nuova stagione sia stato l’Ufficio istruzione il cui nuovo capo, Antonino Caponnetto, dando vita al pool antimafia, aveva avviato una profonda trasformazione di un ufficio di giudici che sino ad allora avevano operato come monadi solitarie: ciascuno inconsapevole delle indagini condotte dal collega della porta accanto e tutti privi di una visione globale del fenomeno che operasse una reductio ad unum di fatti altrimenti apparentemente privi di collegamento.
Il pool – di cui Falcone e Borsellino furono l’anima e le prime cellule germinative – trasforma l’impotenza solitaria dei singoli giudici, terminali pressoché inerti di indagini monopolizzate dalla polizia, nella potenza di un collettivo che, mettendo in sinergia tutte le informazioni disseminate nei vari processi, ricostruisce, tessera dopo tessera, quadri probatori globali di estrema complessità, pianifica i tempi e i modi di sofisticate strategie processuali e, soprattutto, si riappropria di quella funzione di direzione delle indagini che sino ad allora erano state passivamente delegate alla polizia.
In questo modo il pool antimafia si decentra rispetto a quell’invisibile filiera di comando che – dipanandosi dai vertici politici a quelli ministeriali, e da questi ultimi alle forze di polizia nonché, tramite le procure generali, sino alle procure della Repubblica – era potenzialmente in grado di condizionare tutta la magistratura inquirente.
Da qui la ricorrente accusa rivolta al pool di essersi costituito in «autonomo centro di potere», che, quasi freudianamente, declinava la vera e sottostante accusa di essersi sottratto al controllo del potere.
Da qui l’esigenza di Falcone di rispondere all’accusa di avere snaturato la terzietà del ruolo del giudice istruttore e di avere dato vita a una aberrante figura di giudice sceriffo.
I suoi interventi sull’argomento, come quello affidato allo scritto dal titolo Controllo sociale nel Mezzogiorno. Il ruolo della magistratura, di cui qui si riportano alcuni passi salienti, potranno forse apparire ai lettori solo come episodi di una datata querelle tra giuristi del tempo. Alla luce di quanto si è venuti sin qui esponendo, appaiono invece come una discesa in campo sul terreno di quella «guerra delle parole» mossa contro il pool da un sistema di potere sempre più insofferente nei confronti di una articolazione istituzionale che appariva fuori controllo e indifferente alle compatibilità macrosistemiche.
Sono fioccate, quindi, critiche e perplessità sull’operato della magistratura: sempre più frequentemente, si è parlato dello stravolgimento del ruolo istituzionale della magistratura a opera di magistrati che hanno violato il principio della «terzietà » del giudice, improvvisandosi investigatori e usurpando le funzioni specifiche della polizia giudiziaria. Da taluni settori si è affermato anche che l’eccessivo impegno degli inquirenti nella repressione delle varie forme di criminalità organizzata ha distolto l’attenzione dalla delinquenza comune, la cosiddetta microcriminalità, con la conseguente recrudescenza di reati contro il patrimonio, come le rapine e gli scippi, che destano tanto allarme nella società. E la stessa instaurazione dei maxiprocessi è spesso attribuita a colpa del protagonismo dei giudici e a un’asserita volontà di conculcare e sopprimere il diritto di difesa degli imputati. Non si è mancato, poi, di sottolineare che iniziative della magistratura nel settore economico hanno determinato gravi guasti all’economia meridionale, e siciliana in particolare, provocando il peggioramento del fenomeno, di per sé gravissimo, della disoccupazione. Tali proteste sono talora esplose in forme eclatanti come quando, a Palermo, in un corteo di disoccupati, sono stati inalberati cartelli in cui si rimpiangevano noti amministratori locali arrestati con l’accusa di appartenenza a Cosa nostra, e si sottolineava che la mafia dà posti di lavoro mentre la repressione del fenomeno produce disoccupazione. In sostanza, si sostiene da taluni che è giunto il momento di rientrare nella normalità con l’applicazione dei principi di civiltà giuridica stravolti e calpestati dalla «cultura dell’emergenza».
Tali critiche meriterebbero una analisi ben più ampia di quella che è possibile compiere in questa sede. Mi sforzerò, comunque, di riassumere i termini essenziali delle questioni. [...] Ma spesso si dimentica che, per quanto concerne la criminalità organizzata, l’intervento della magistratura riguarda  l’individuazione dei responsabili di gravissimi crimini, e che l’esercizio dell’azione penale, nel nostro ordinamento giuridico, è costituzionalmente previsto come obbligatorio (art. 112 della Costituzione). Sarebbe, dunque, responsabile di colpevole inerzia quel magistrato che si astenesse dal tentare di accertare gli autori di reati sol perché la mafia e le altre organizzazioni similari costituiscono un problema che non è risolvibile, come spesso stancamentesi ripete, con l’intervento repressivo statuale.
Non credo che qualcuno voglia sostenere che le centinaia di assassinii provocati, negli anni ’81-83, dalla cosiddetta guerra di mafia debbano essere archiviati per essere rimasti a opera di ignoti senza nessun serio tentativo per scoprire i colpevoli. E quando, di fronte a omicidi gravissimi di uomini politici e di pubblici funzionari, si intuisce che le causali e i mandanti sono, le prime, particolarmente complesse e, i secondi, annidati all’interno delle pubbliche strutture, non credo che qualcuno voglia sostenere una sostanziale impunità per tali crimini, che sono obiettivamente destabilizzanti e minano le basi della società e dell’ordine democratico. E allora, se non si vuole affermare che la gravità e complessità del fenomeno criminale comporti l’astensione dall’attività repressiva da parte della magistratura, deve necessariamente convenirsi che la risposta degli organi repressivi statuali alla consumazione di delitti particolarmente complessi e numerosi non solo è doverosa e rientra nei limiti dell’attività istituzionale della magistratura, ma non può che essere articolata e impegnare in modo eccezionale le strutture statuali. Se, poi, col richiamo, a mio avviso improprio, alla cosiddetta supplenza della magistratura si intende dire che, a fronte degli interventi repressivi, non sono stati tuttora posti in essere quegli altri interventi necessari per rimuovere le radici e le cause del fenomeno mafioso, si pone un ben diverso problema: tali considerazioni possono essere o meno condivise, ma deve essere ben chiaro che, nell’attività diretta alla repressione dei reati, la magistratura adempie semplicemente i propri doveri istituzionali senza alcun margine di discrezionalità e senza alcun straripamento nei campi di intervento riservati agli altri pubblici poteri. [...] Meritano, invece, seria riflessione quelle critiche che, facendo riferimento alla «terzietà» del giudice come valore insopprimibile del suo ruolo istituzionale, sostengono che la stessa sia stata stravolta dallo svolgimento diretto delle indagini da parte del pubblico ministero e del giudice istruttore che, in siffatta maniera, si sarebbero trasformati in superinvestigatori, determinando un’assoluta confusione dei ruoli con la polizia giudiziaria. Al riguardo, giova, anzitutto, premettere che, in un processo penale di tipo inquisitorio qual è quello vigente, il concetto di «terzietà» del giudice istruttore rischia di non far comprendere, se malamente inteso, i termini esatti del problema. Certamente, il magistrato non può avere confidenti, né eseguire materialmente i pedinamenti o intercettazioni telefoniche, né, in genere, compiere quelle attività che sono squisitamente di polizia giudiziaria. Ma è contraria al ruolo del magistrato inquirente, sia esso pubblico ministero o giudice istruttore, qual è disegnato dal vigente codice di rito penale, quell’opinione che lo vorrebbe inerte organo di semplice verifica della prova raccolta dalla polizia giudiziaria.
In un processo come quello penale italiano, diretto all’accertamento della verità materiale o storica, il magistrato inquirente deve compiere ogni atto diretto all’accertamento della verità, indipendentemente dall’iniziativa della polizia giudiziaria. In proposito, diverse norme sono esplicite in tale senso. L’art. 1 del codice di procedura penale prevede che l’azione penale è iniziata dal procuratore della Repubblica o dal pretore in seguito a rapporto, a referto, a denunzia o ad altra notizia di reato. L’art. 232 stabilisce che il procuratore della Repubblica, prima di iniziare l’istruttoria sommaria o richiedere l’istruzione formale, può procedere ad atti di polizia sia per mezzo di ufficiali di polizia giudiziaria, sia direttamente. E, per quanto riguarda il giudice istruttore, l’art. 299 stabilisce che il medesimo ha l’obbligo di compiere tutti gli atti che appaiono necessari per l’accertamento della verità, e l’art. 220 che la polizia giudiziaria deve eseguire gli ordini del giudice istruttore. E non si dimentichi che, perfino nel dibattimento, proprio perché nel processo penale di tipo inquisitorio si mira all’accertamento della verità storica o materiale, sussistono profili di disponibilità della prova di ufficio, da parte dello stesso organo giudicante (art. 457 del codice di procedura penale).
Non si nega che, soprattutto nel passato, la prassi giudiziaria aveva abituato un po’ tutti alla figura del magistrato privo di iniziativa, ma va ribadito che questo modello di magistrato, se poteva essere funzionale, in un determinato momento storico, a un certo tipo di equilibri socio-politici, certamente non è mai stato rispondente al ruolo dell’inquirente previsto dalla normativa vigente. Non credo, dunque, che il salto qualitativo che si registra nella più recente attività della magistratura sia stato ottenuto a scapito della identità del magistrato e con un travisamento del suo ruolo istituzionale.

L’inizio della fine

L’allarme rosso era scattato quando il pool, dopo avere tratto in arresto centinaia di esponenti dei quadri intermedi e di comando della mafia militare, aveva attinto con le indagini anche ai livelli superiori che coinvolgevano il mondo politico ed economico, varcando così le colonne d’Ercole che presidiavano un confine invisibile ma tacitamente ritenuto invalicabile: il 3 novembre 1984 era stato arrestato Vito Ciancimino, il successivo 12 novembre le manette si erano strette ai polsi dei cugini Ignazio e Nino Salvo, terminali regionali di un ramificato sistema di potere nazionale. La stagione degli intoccabili sembrava volgere alla fine. Molti a Palermo e a Roma cominciano a temere il peggio. A chi sarebbe toccato dopo i Salvo e Ciancimino? Per di più si stava verificando un fenomeno inedito e, se possibile, ancor più preoccupante.
Una parte della società civile – quella che non si ingras sava grazie all’indotto del sistema di potere mafioso, quella che non accettava di «farsi i fatti propri», quella di coloro che non rinunciavano al proprio statuto di cittadinanza per divenire clienti, sudditi di padrini politici e mafiosi – per la prima volta trovava in quei magistrati la possibilità di identificarsi con uno Stato dal volto presentabile. Falcone e Borsellino stavano divenendo le icone collettive di questa Italia alternativa.
È l’inizio della fine. Sugli uomini dell’Ufficio istruzione si scatena una campagna politica mediatica micidiale, che li sommerge quotidianamente sotto una coltre di accuse infamanti, di calunnie: comunisti, ammalati di potere e di voglia di protagonismo, sceriffi, Torquemada eccetera...
La loro delegittimazione tende a distruggere la possibilità della gente di identificarsi con uno Stato finalmente credibile. In tanti fanno di tutto per disinnescare il pericolo che quote sempre più consistenti di società civile inizino a credere nello Stato, scrollandosi di dosso l’apatia e la rassegnazione
fatalistica all’esistente. Il sistema di potere politico mafioso, del resto, ha sempre fatto un uso magistrale della tecnica della delegittimazione. Nel secondo dopoguerra, subito dopo ogni omicidio di sindacalisti contadini, veniva messa in giro ad arte la voce che dietro quell’omicidio vi fossero questioni di donne. La voce non era solo finalizzata a depistare le indagini, ma anche a impedire che la vittima potesse divenire un simbolo della volontà di riscatto e di coraggio civile. Chi poteva infatti identificarsi con uno che era stato ucciso perché aveva dato fastidio alle donne d’altri?
Allo stesso modo, come elevare a simbolo uomini che – come si voleva far credere alla pubblica opinione con martellanti campagne di stampa – erano solo strumenti di deteriori interessi politici di parte e tessevano oscure trame di potere?
Negli anni seguenti, gli specialisti della delegittimazione, dopo avere infangato Falcone da vivo, tenteranno di utilizzarlo da morto contro quei magistrati che, in seguito alle stragi del 1992 proseguiranno la sua attività e quella di Borsellino anche sul terreno sul quale essi erano stati fermati: quello del rapporto mafia-politica-economia. Così il Falcone vituperato come Torquemada, come comunista, ammalato di protagonismo, verrà improvvisamente riscoperto come maestro di garantismo e di professionalità e brandito come una clava contro i magistrati del pool antimafia della Procura diretta da Caselli, definiti, nel migliore dei casi, come epigoni incapaci e politicamente pilotati. Ritornando agli anni Ottanta, l’attacco esterno, pur nella sua virulenza, non riesce tuttavia a espugnare la cittadella dell’Ufficio istruzione.
Dove aveva fallito l’attacco frontale, vincerà il cavallo di Troia introdotto all’interno del Palazzo di giustizia. Sarà infatti una parte della magistratura che – in un mix micidiale di malafede di alcuni, ingenuità strumentalizzata di altri, cecità culturale e opportunismi di bassa lega – provvederà a strangolare il pool, a ridurlo all’impotenza. Così quando Caponnetto decide di trasferirsi, si farà di tutto e di più a Palermo e a Roma per impedire che Falcone possa subentrargli nella direzione dell’Ufficio istruzione. Gli «specialisti delle carte a posto» concludono felicemente l’operazione portando al vertice di quell’Ufficio strategico un anziano magistrato tradizionalista assolutamente ostile ai metodi innovativi del pool, Antonino Meli. L’Ufficio istruzione torna così a impantanarsi nella palude della solita gestione burocratica dei processi.
Come ricorderà Paolo Borsellino in un accorato e memorabile discorso tenuto alla Biblioteca comunale di Palermo il 25 giugno 1992, fu a quel punto che Falcone cominciò a morire: Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto [...] perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988 [...] quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio superiore della magistratura, con motivazioni risibili, gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, che lo convincemmo, lui riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche «giuda» si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Csm, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio privilegiato – perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione –, mi resi subito conto che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia di Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio, il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto, perché ero convinto che l’avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Csm a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi.
La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione insiste sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a far morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare.

L’omicidio mediatico di Giovanni Falcone
Gli echi mediatici della vicenda Meli-Falcone si spensero nell’arco di pochi mesi. Di lì a poco le prime pagine dei giornali saranno occupate dalla cosiddetta vicenda del «corvo», una sequenza di lettere anonime che nella sostanza accusavano Falcone di aver dato licenza di uccidere al collaboratore di giustizia Salvatore Contorno, autorizzandolo a tornare segretamente in Sicilia per eliminare i propri avversari dell’avverso schieramento corleonese. Ennesimo tentativo di omicidio «mediatico» di Falcone che, in un gioco al rialzo, prepara il terreno della sua soppressione fisica con l’attentato dell’Addaura, messo a punto il 21 giugno 1989 da menti raffinatissime, come lo stesso Giovanni commenterà a caldo. Falcone si era intanto trasferito alla Procura della Repubblica, dove quella stessa magistratura che lo aveva «espulso» dall’Ufficio istruzione continuerà a rendergli la vita impossibile, mettendolo ai margini, riducendolo a una foglia di fico che serviva a celare l’inazione della Procura della Repubblica proprio sul fronte cruciale dei rapporti mafiapotere-economia. Gli viene impedito di indagare sui possibili rapporti tra i servizi deviati e la mafia, gli vengono tenute nascoste le indagini che scottano. Se vuole, può occuparsi solo della mafia militare.
Alle pagine del suo diario Falcone affida il ricordo di alcuni di quegli episodi: 7 dicembre 1990: [Giammanco, ndr] ha preteso che Rosario Priore [giudice istruttore di Roma, ndr] gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui.
Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea [Ugo Giudiceandrea, procuratore di Roma, ndr] per la Gladio prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.
10 dicembre 1990: [Giammanco, ndr] sollecitato la definizione di indagini riguardanti la Regione al capitano De Donno [procedimento affidato a Enza Sabatino, ndr], assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei Cc in tale previsione. 13 dicembre 1990: Nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella [Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, ndr] mi invita in maniera inurbana a non interrompere  colleghi infastidito per il fatto che io e Lo Forte [Guido Lo Forte, pm di Palermo, ndr] ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte. 18 dicembre 1990: Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina [Michele Reina, segretario provinciale della Dc, ndr], Mattarella e La Torre [Pio La Torre, segretario regionale del Pci, ndr], stamattina gli [a Giammanco, ndr] ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al gi [giudice istruttore, ndr] di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece sia egli sia Pignatone [Giuseppe Pignatone, pm di Palermo, ndr] insistono per richiedere al gi soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo. 19 dicembre 1990: [...] [Giammanco, ndr] non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio. [...] 10 gennaio 1990: I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del gi Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati [il 16 marzo 1988, ndr] per ordine di Curti Giardina [Salvatore Curti Giardina, ndr] tre anni addietro con imputazione di peculato [per la pubblicazione dei verbali del pentito Antonio Calderone, su mafia-politica-imprenditoria, ndr]. Il gi ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il pm Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una «ardita» ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca. [...]
26 gennaio 1991: Apprendo oggi da Pignatone, alla presenza del capo [Giammanco, ndr], che egli e Lo Forte si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito, nel processo Mattarella, da Lazzarini Nara [segretaria di Licio Gelli, ndr]. Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego ma che, se si vuole mantenermi il coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta. Dell’emarginazione e dell’angoscia di Falcone in quegli anni sono stato diretto e partecipe testimone. Mi confidò che doveva andar via perché, restando in quella procura, il suo nome rischiava di perdere credibilità giorno dopo giorno.
Così alla fine decise di accettare l’offerta di trasferirsi a Roma, assumendo l’incarico di direttore generale presso il ministero di Grazia e giustizia. Ero presente quando Giovanni, congedandosi dall’imperterrito procuratore capo, gli disse: «È penoso quello che ho dovuto ascoltare nei corridoi di questo palazzo, constatare che, tranne pochi, tutti sono contenti per il fatto che me ne sto andando».
Ancora una volta, così come era accaduto in passato all’Ufficio istruzione, il vero punctum dolens non era il Falcone che indagava sulla mafia militare. Il punto di rottura, il trasformarsi dell’insofferenza in aperta crisi di rigetto, si verifica quando ci si rende conto che, nonostante gli inequivocabili segnali che gli erano stati dati, Giovanni non era disponibile a fermarsi solo a quel versante del pianeta mafioso.
Così come il suo destino era stato segnato quando all’Ufficio istruzione si era avventurato nei piani alti della piramide del potere prima con le indagini sulla vicenda Spatola-Sindona e poi con l’arresto dei Salvo, così ora alla Procura della Repubblica viene fermato e messo all’angolo quando vuole indagare sul possibile coinvolgimento della Gladio nell’esecuzione dei delitti politico-mafiosi, sui rapporti tra mafia e P2, nonché sul putrido intreccio di interessi tra politica, imprese e mafia nel settore degli appalti pubblici.
Dopo che Falcone fu costretto ad andare via da Palermo, lo stesso trattamento fu riservato a Paolo Borsellino chenel frattempo si era trasferito a Palermo come procuratore aggiunto. Tenuto fuori dalle indagini che scottavano, gli fu a lungo impedito di interrogare il collaboratore Gaspare Mutolo il quale, dopo la strage di Capaci, si era dichiarato disponibile a rivelare tutto quel che sapeva, a condizione che fosse interrogato da Borsellino. Mutolo, come altri mafiosi di rango, non si fidava dello Stato, perché nella sua lunga carriera di mafioso aveva conosciuto troppi esponenti dello Stato che erano complici della mafia e che lui si apprestava ad accusare: tra gli altri il dottor Bruno Contrada, numero tre dei servizi segreti, il quale sarebbe stato poi condannato a dieci anni di reclusione. L’indicibile di Paolo Borsellino Il procuratore capo arrivò al punto di tenere all’oscuro Paolo anche di una informativa che annunciava i progetti di morte che lo riguardavano e che si sarebbero concretizzati di lì a poco. All’esterrefatto Borsellino, che aveva appreso tale notizia solo casualmente e che gli chiedeva conto del perché non fosse stato messo al corrente, fu risposto che l’informativa era stata doverosamente trasmessa a chi di competenza.
Risposta che nella sua palesata sufficienza equivaleva a dire: «Tu qui non conti niente e di te non ci importa nulla». Non sappiamo se Paolo negli ultimi tumultuosi giorni della sua vita annotò anche questi episodi sull’agenda rossa dalla quale non si separava mai e che riempiva di appunti riservati.
Annotazioni che non si sentiva di trascrivere nell’agenda destinata invece agli appuntamenti e agli impegni ufficiali. Così come prima di lui era accaduto a Chinnici, al generale dalla Chiesa e a Falcone, anch’egli affidava al segreto del suo diario una sorta di promemoria sull’«indicibile». E forse fu proprio quell’«indicibile» a fargli esclamare, parlando con la moglie poco prima di essere massacrato: «Ho visto la mafia in diretta». Frase che, detta da uno come lui che la mafia l’aveva ininterrottamente vista in diretta sin dagli inizi dal 1980, quando aveva iniziato a occuparsene insieme a Falcone nell’Ufficio istruzione, appare rivelatrice di un improvviso e  traumatico disvelamento, come se per la prima volta avesse visto il vero volto della mafia, cioè il volto orribile del potere che si cela dietro la maschera degli assassini. Erano i giorni nei quali fervevano febbrili e segrete trattative, giorni nei quali Riina diede ordine di soprassedere agli omicidi in fase avanzata di esecuzione di alcuni politici della Prima repubblica che dovevano essere puniti perché avevano voltato le spalle. Improvvisamente diviene assolutamente prioritario uccidere Borsellino. Ai magistrati di Caltanissetta, Agnese Borsellino, ricordando quella frase e quei giorni del giugno del 1992, ha dichiarato che Paolo, turbatissimo, le aveva confidato: «C’è una trattativa tra la mafia e lo Stato dopo la strage di Capaci, c’è un colloquio tra la mafia e alcuni pezzi infedeli dello Stato, mi dice che c’è questa contiguità tra mafia e pezzi deviati dello Stato [...]. Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno [...]. Mi fa stare a dormire con la serranda abbassata nella stanza da letto e c’era tanto caldo perché, mi dice, a Castel Utveggio con un cannocchiale potentissimo ci possono vedere dentro casa...».
Il promemoria sull’«indicibile» affidato da Paolo al segreto della sua agenda rossa non lo potremo mai leggere. Pochi secondi dopo la terribile esplosione di via D’Amelio quel 19 luglio 1992, mentre la polvere e il fumo annebbiavano la vista e ammorbavano i polmoni, mentre tutti erano colti dal panico, viene dato ordine di prelevare la borsa nella quale si trovava l’agenda. Quella borsa, tempo dopo, sarà consegnata alla magistratura, ma l’agenda rossa nel frattempo è sparita.
Il fuori scena così scompare dalla scena, riemergendo solo a tratti dopo due decenni di indagini. Paolo diviene l’ennesima vittima sacrificale di un paese che non ha ancora acquisito la maturità democratica per guardarsi allo specchio e raccontarsi la sua vera e tragica storia. Così il 2 agosto, anniversario della strage di Bologna, il 23 maggio e il 19 luglio, anniversari delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, si suole raccontare storie semplici e pacificate il cui canovaccio è sempre il medesimo: il male è fuori di noi, non è tra noi e dentro di noi.
Non è questo il modo di rendere onore a chi attese a piè fermo la morte guardandola negli occhi mentre si avvicinava. Paolo sapeva di dovere morire. Indicando le bare di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo esposte nell’atrio del Palazzo di giustizia, disse a me e ad altri del pool che dopo di loro sarebbe toccato a noi e che lui era il primo della lista. Aggiunse che lui non poteva andare via, ma noi, che eravamo giovani, avevamo il diritto di scegliere. Paolo non andò via perché non poteva lasciare a metà l’opera che tanti anni prima aveva intrapreso con Giovanni e che, come abbiamo già ricordato, chiamava la «vera soluzione»: «La vera soluzione sta nel lavorare perché uno Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni».
Dopo la morte di Falcone, era come se fosse consapevole che agli occhi di tanti egli incarnava la residua credibilità di uno Stato che rischiava di cadere a pezzi, inghiottendo la democrazia.
Glielo avevano espressamente detto, con parole semplici e accorate, il 4 luglio 1992 i sostituti della Procura della Repubblica di Marsala di cui, sino a poco tempo prima, Paolo era stato il capo, i quali gli avevano consegnato una lettera la cui parte finale era la seguente: [...] la morte di Giovanni e di  Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetuti anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è  contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato (firmato: i tuoi sostituti). Attraverso le parole di quei giovani era come se parlasse un intero popolo che aveva cominciato a credere nello Stato solo grazie a uomini come Falcone e Borsellino e che non voleva ripiombare in quella condizione di eterna orfanezza istituzionale nella quale aveva sempre vissuto.
Dopo la strage di via D’Amelio fu come se quel popolo si fosse sentito improvvisamente defraudato per sempre della speranza di una possibile rinascita e, per la prima volta dopo una lunga assenza, si riversò nelle chiese, nelle piazze, nelle vie, gridando il proprio dolore e il proprio sdegno contro il mondo politico: un mondo in parte inane e vile allora, e inane e vile dopo, se si dimostrerà mai che, mentre il sangue di Giovanni non si era ancora asciugato, qualcuno patteggiava segretamente la resa dello Stato agli stragisti. Quell’urlo, quel pianto sommesso di un intero popolo sembrava quasi traversare magicamente a ritroso il tempo ed essere una sorta di postuma riparazione per tutti coloro che prima di Giovanni e Paolo per troppi anni erano stati lasciati soli a morire.
Affido la conclusione di questa introduzione alle parole che Borsellino il 23 giugno 1992 dedicò a Giovanni Falcone, a Francesca Morvillo e ai tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, trucidati nella strage di Capaci del 23 maggio 1992.
Parole che noi oggi possiamo idealmente dedicare anche a Paolo: mentre le pronunciava sapeva bene, in fondo, di rivolgerle anche a se stesso, giustificando la propria decisione di attendere la morte come una scelta fatta «per amore»: Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa appartiene.
Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare nella stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno.
La lotta alla mafia (primo problema morale da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice.
Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa.
Questa stagione del «tifo per noi» sembrò durare poco perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che alla lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità.
Insofferenza che finì per invocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su una ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsene.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Cercò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le ottimali condizioni del suo lavoro. Per poter continuare a «dare». Per poter continuare ad «amare». Venne accusato di essersi troppo avvicinato al potere politico. Menzogna! Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il suo lavoro di dieci anni. E come lo fece! Lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come sempre lo era stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore e tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita. Anche coloro che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato, hanno perso il diritto di parlare! Nessuno tuttavia ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi. La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio. Dal sacrificio della sua donna. Dal sacrificio della sua scorta.
Molti cittadini, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia. Il potere politico trova il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupide scuse accademiche. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro. Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo.

*Estratto da “Le ultime parole di Falcone e Borsellino” a cura di Antonella Mascali
Chiarelettere 2012


Le ultime parole di Falcone e Borsellino
Copertina del libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino
Genere: Mafia
Editore: Chiarelettere
Pagine: 192
Prezzo: € 12,90
Anno publicazione: 2012
Recensione

"Il vero pericolo è la pigrizia morale. L'intransigenza costa troppa fatica."
Piero Calamandrei

In questo libro gli interventi, le interviste, le parole di Giovanni Falcone (1939-1992) e Paolo Borsellino (1940-1992), due servitori dello Stato, a vent'anni dalla loro morte. Un omaggio doveroso e un necessario ritorno alle fonti, a ciò che veramente hanno detto e scritto, ora che stanno venendo alla luce quelle verità per le quali entrambi hanno sacrificato la vita.
"La realtà che abbiamo vissuto e sofferto con Giovanni e Paolo racconta che, diversamente da quanto si ripete nelle cerimonie ufficiali, il male di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche 'tra noi'. Racconta che gli assassini e i loro complici non hanno solo i volti truci e crudeli di coloro che sulla scena dei delitti si sono sporcati le mani di sangue, ma anche i volti di tanti, di troppi sepolcri imbiancati. Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d'oro, personaggi apicali dell'economia e della finanza e molti altri. Tutte responsabilità penali certificate da sentenze definitive, costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illumina a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto."

Giovanni Falcone (1939-1992), dopo il concorso in magistratura nel 1964, diventa pretore a Lentini, per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani. Dal 1978 fino al 1991 è giudice istruttore e procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo. Durante questo periodo lavora nel pool antimafia di Antonino Caponnetto le cui indagini sfociano nel maxiprocesso a Cosa nostra (1986-1987). Il 21 giugno 1989, Falcone è oggetto di un attentato presso la villa al mare affittata per le vacanze (attentato dell’Addaura) su cui ancora oggi non è stata fatta piena luce. In seguito ai troppi veleni e alle opposizioni all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo, ormai isolato, lascia la procura e nel 1991 viene nominato direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e giustizia. Giovanni Falcone viene ucciso a Capaci il 23 maggio 1992, mentre dall’aeroporto di Punta Raisi stava andando a Palermo. Il tritolo piazzato lungo l’autostrada uccise anche la moglie, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro (capo scorta), Rocco Dicillo e Vito Schifani. L’autista di Falcone, Giuseppe Costanza, rimase ferito come altri agenti di scorta e passeggeri di altre macchine. Tra i suoi libri, oltre alle pubblicazioni giuridiche e ai numerosi articoli apparsi su varie riviste, da ricordare l’intervista di Marcelle Padovani in Cose di Cosa nostra (Bur-Rizzoli) e La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia. Presentazione di Giuseppe D’Avanzo, prefazione di Maria Falcone (Bur-Rizzoli).

Paolo Borsellino (1940-1992) nel 1963 è il più giovane magistrato d’Italia. Pretore a Mazara del Vallo e poi a Monreale, nel 1975 viene trasferito a Palermo, dove entra nell’Ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici, coordinatore del primo pool antimafia. Nel 1986 lascia Palermo e diventa procuratore della Repubblica di Marsala. Nel 1988, dopo la mancata nomina di Falcone a capo del pool (in seguito alle dimissioni di Caponnetto), denuncia l’arretramento della lotta alla mafia e per questo viene messo sotto inchiesta dal Csm. Nel 1991 torna a Palermo come procuratore aggiunto. Due mesi prima di essere ucciso, rilascia un’intervista a Canal Plus parlando dei legami tra la mafia e l’ambiente industriale milanese e del Nord Italia in generale, facendo riferimento anche a indagini su Vittorio Mangan e Marcello Dell’Utri. Paolo Borsellino viene ucciso 56 giorni dopo Giovanni Falcone, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, a Palermo, mentre si stava recando, come ogni domenica, dalla madre. Con lui muoiono Agostino Catalano (capo scorta), Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Anche di Borsellino si ricordano i molti interventi e saggi apparsi su riviste. Costante il suo impegno nelle scuole. Oltre alle pubblicazioni giuridiche, suoi testi sono raccolti in Oltre il muro dell’omertà. Scritti su verità, giustizia e impegno civile, a cura di Giorgio Bongiovanni, presentazione di Manfredi Borsellino, prefazione di Antonio Ingroia (Bur-Rizzoli).

VIDEO Chiarelettere: "Le ultime parole di Falcone e Borsellino" a cura di A. Mascali
  

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