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borsellino-falcone-caponnetto-webVent’anni dopo, la famiglia mostra per la prima volta le foto dell’album
di Giovanni Bianconi - 12 aprile 2012 - FOTO
Immagini di vita privata come furono selezionate e commentate dallo stesso giudice ucciso dalla mafia

Quest’anno saranno vent’anni, il prossimo 19 luglio. Quel giorno del 1992, alle 16,58, esplose l’autobomba che uccise il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e cinque agenti di polizia addetti alla sua protezione: Claudio Traina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Emanuela Loi. Ma il ventennale della morte del magistrato antimafia erede naturale e unico di Giovanni Falcone – dilaniato da un’altra esplosione appena due mesi prima, il 23 maggio a Capaci, insieme alla moglie Francesca e a tre uomini della scorta – è già cominciato.

A marzo la Procura di Caltanissetta, all’esito di nuove e clamorose indagini, ha ottenuto altri arresti per quell’attentato dai risvolti ancora misteriosi, e l’omicidio Borsellino è tornato di bruciante attualità. Con inquietanti retroscena venuti alla luce, e altrettanti rimasti senza spiegazione. L’eliminazione del giudice s’intreccia con i segreti della presunta trattativa tra pezzi dello Stato e uomini di Cosa nostra, fino all’ipotesi che sia stata anticipata proprio perché Borsellino ne era venuto a conoscenza, e avrebbe costituito un ostacolo insormontabile. E i successivi depistaggi delle indagini potrebbero essere un’ulteriore conseguenza di quel patto inconfessabile.

Per la famiglia del giudice – la moglie Agnese e i figli Lucia, Manfredi e Fiammetta – è ripreso il tormento dei ricordi, dei quesiti insoluti, delle dolorose sollecitazioni esterne. Ma anche stavolta, come quasi sempre in passato, sono voluti rimanere in disparte. Hanno scelto la via del silenzio, lasciando a inquirenti e giudici il compito di arrivare alla verità, se mai ci riusciranno. Loro, dopo vent’anni, continuano ad aspettare.

Una cosa, però, hanno deciso di fare in vista della ricorrenza di luglio anticipata dalle nuove rivelazioni. Far parlare le immagini raccolte negli album di famiglia che raccontano l’uomo Borsellino: il marito e il padre che pure nei momenti più difficili o drammatici del suo lavoro non mancava di dedicarsi alla moglie, ai figli e agli amici con i quali amava trascorrere tutto il tempo che poteva. Con la grande carica di affetto, ironia e voglia di vivere che era capace di trasmettere.

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FOTO PRIVATE DI UN UOMO PUBBLICO
Sono le fotografie private e pubbliche della vita di Paolo Borsellino, spezzata a 52 anni d’età dal tritolo mafioso, selezionate da lui stesso e sistemate nei grandi album divisi per anni, con tanto di brevi didascalie scritte a matita con la sua calligrafia minuta e chiara. Dai primi anni di un bambino nato nel 1940, quando l’Italia si preparava a entrare nella seconda guerra mondiale, fino alle ultime istantanee del ’92. Sono i momenti più belli, ma anche più brutti e tesi, dell’esistenza del giudice assassinato dalla mafia perché di certo rappresentava per Cosa nostra un nemico e un pericolo. Ma forse anche per qualche altro motivo.

Il figlio Manfredi, oggi quarantenne commissario di polizia, spiega che “dopo vent’anni non c’è motivo di tenere riservate queste immagini che sono più eloquenti di qualsiasi racconto per ricordare mio padre”. A volte compare anche lui, accanto al papà quasi sempre sorridente: in casa o all’aria aperta, in città o nei luoghi di vacanza. Quelli scelti volontariamente per viaggi e soggiorni – la Tunisia, il parco degli Abruzzi, l’isola di Pantelleria e altre località di mare, la montagna con la neve poco apprezzata dal giudice – e quelli imposti dal lavoro e dalle esigenze di sicurezza: come l’isola dell’Asinara dove Borsellino e Falcone trascorsero l’estate del 1985 con le rispettive famiglie, mentre scrivevano l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo alle cosche.

In questa sorta di foto-storia pubblico e privato si mescolano, così com’erano mescolati nella vita del giudice. Ci sono i ritratti della prima comunione, e poi le immagini della laurea, del matrimonio, dei momenti di relax, delle trasferte per lavoro. Ricordi fissati sulla pellicola con gli amici che hanno subito la sua stessa sorte, assassinati da Cosa nostra: Giovanni Falcone e il commissario Ninni Cassarà. Le foto dei funerali e quelle in ufficio, da solo o coi colleghi di Palermo e della Procura di Marsala, che Borsellino guidò dal 1986 alla fine del 1991, prima di tornare a Palermo.

Non furono mesi tranquilli, gli ultimi trascorsi dal magistrato nel palazzo di giustizia ribattezzato “dei veleni”. Per via dei dissapori col procuratore Giammanco, e dopo la morte di Falcone per i tormenti che si portava dentro, confidati alla moglie il giorno prima di morire: “Mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”, ha testimoniato la signora Agnese ricordando l’ultima passeggiata col marito, sul lungomare di Carini. All’indomani della strage di Capaci, Borsellino cominciò una corsa contro il tempo per cercare di capire chi e perché aveva voluto ammazzare il suo amico Giovanni con tanto clamore. Si rammaricava per non poter svolgere le indagini, affidate alla Procura di Caltanissetta; aveva delle idee che voleva affidare ai titolari dell’inchiesta, lo disse più volte pubblicamente, ma in quasi due mesi nessun inquirente trovò il tempo di ascoltarlo.

Nel suo ultimo discorso pubblico, il commiato dai colleghi di Marsala tante volte rimandato e celebrato solo il 4 luglio ’92, non ebbe timore di far trapelare i suoi turbamenti: “Sono un uomo profondamente cambiato… Voi sapete perché, lo immaginate… La morte di Giovanni Falcone mi ha talmente colpito, come magistrato ma soprattutto come uomo che ha vissuto con lui la sua vita fin da bambino, che oggi sono tanti gli interrogativi ai quali non so dare risposta”. Vent’anni dopo, se ne sono aggiunti altri ancora.

Tratto da: corriere.it

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