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moby-prince-webdi Emiliano Liuzzi - 10 aprile 2012
Per tutti quelli che si ostinano a chiedere giustizia anche una data è importante. 10 aprile. L’anno orribile è il 1991. Sono passati 21 anni. Successe che nella rada del porto di Livorno, un traghetto, il Moby Prince, finì contro una petroliera, l’Agip Abruzzo. I passeggeri morirono tutti nel salone centrale della nave, si salverà solo un mozzo della compagnia, e ancora non abbiamo neppure capito come fece e perché solo lui. Gli altri, 140 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, non ebbero scampo.

Se ne sono dette tante su questa vicenda. Ma il processo di primo grado – presidente del collegio il giudice Germano Lamberti, che anni dopo finirà agli arresti per corruzione in atti giudiziari (nella stessa vicenda entrò con l’accusa di favoreggiamento l’ex ministro Altero Matteoli), successivamente condannato e congedato dalla magistratura – si concluse senza risposta alcuna. O, meglio, una risposta ci fu: il fatto non sussiste.

Sussistono invece ancora oggi 140 morti senza giustizia, questo l’ex giudice Lamberti ce lo conceda. Sussiste anche che in quel processo non vennero chiamati a rispondere né l’armatore della Moby, Achille Onorato, né il comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina, morto a Genova lo scorso anno, indagato e subito prosciolto con Sergio Albanese, l’allora comandante del porto che coordinò i soccorsi. Gli altri erano imputati da comparsa. Sussiste anche che l’allora ministro della Marina mercantile, Carlo Vizzini, indagato due anni dopo per le tangenti Enimont, condannato in primo grado e prescritto in Appello, già la mattina dell’11 aprile, decise che di errore umano si trattò.

Dunque occorreva qualcosa che confermasse le parole del ministro e cosa di meglio che ricorrere, come accaduto, a un provvidenziale muro di nebbia? Non importa se Romeo Ricci, quella sera in servizio all’Avvisatore marittimo, una sorta di torre di controllo, parlò di visibilità discreta e se Filippo Sgherri, il pilota del porto che accompagnò fuori il Moby, disse che la visibilità era ottima, come spiegheranno in aula e alle telecamere della Storia siamo noi di Giovanni Minoli.

La nebbia, oltre che dai due addetti ai lavori, venne esclusa da tutti i testimoni, ma il giudice Lamberti, nella sentenza, la colloca nello spazio che occupa l’Agip Abruzzo, un banco di nebbia disegnato su misura, lungo 300 metri e alto come un palazzo di cinque piani. In Appello i giudici fanno di meglio e superano: stravolgono le parole dei testimoni (uno di loro Paolo Thermes, militare dell’Accademia navale) e gli fanno dire il contrario di quello che avevano deposto, e cioè che c’era, la nebbia. Addirittura si parlò in sentenza di nebbia da avvezione, fenomeno frequente nelle zone tropicali e del Bosforo a causa delle differenze termiche tra temperatura dell’aria e di acque di notevoli profondità.

Ma i giudici, il collegio presieduto da Lamberti, e poi quelli d’Appello, riuscirono ancora a fare di meglio e superarono Lamberti: non dettero alcuna risposta ai ritardi nei soccorsi. La verità storica dice infatti che il mayday lanciato dal Moby Prince – ma si saprà dopo perché nessuno, a Livorno, lo percepisce – è alle 22.26 e 9 secondi. Lo sentono a Genova, ma a Livorno no, e non ne conosciamo i motivi.

La Moby viene invece avvistata alle 23.45 e 33 secondi dagli ormeggiatori che salvano in mare l’unico superstite, Alessio Bertrand. Il Moby è ormai una grande bara che galleggia. Il primo tra i soccorritori che riesce a salire a bordo è la sera del giorno successivo, alle 20. Gli ultimi focolai dell’incendio verranno spenti soltanto il 15 aprile.

Sappiamo anche che quella sera nel porto c’era più traffico del dovuto, che c’erano probabilmente navi statunitensi che avevano caricato armi. Ma questo è quello che sappiamo, gli accordi tra i servizi segreti imponevano allora e impongono oggi di non avvertire nessuno quando una nave parte da Camp Darby, la base americana tra Livorno e Pisa, e carica materiale in porto. Figuriamoci se una vicenda del genere può finire in un’inchiesta.

Così, nei giorni successivi, se ne tirarono fuori di tutti i colori: bettoline, comandi bloccati, l’equipaggio che guardava una partita di calcio. Su tutto si indagò, meno che sulle navi che non ci dovevano essere, quelle che erano in rada dove non avrebbero potuto sostare, quelle che seguivano rotte inusuali. Invece la nebbia, avvistata dal giudice Lamberti in primo grado e confermata dall’Appello, avvalora la tesi dell’errore umano. Su questo si costruì il processo e a questa conclusione arrivò.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

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