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ingroia-antonio-webdi Antonio Ingroia - 3 aprile 2012
Esce oggi il nuovo numero di MicroMega, dedicato in larga parte all'attuale fase politica e alle prospettive per il centrosinistra. Proponiamo un’anticipazione del saggio del Procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Antonio Ingroia, sullo strumento penale del concorso esterno in associazione mafiosa.

In una reazione a caldo, ho definito le polemiche scoppiate sull’onda dell’annullamento in Cassazione della condanna di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa come la premessa per il colpo di spugna finale per cancellare anni di indagini e faticosi risultati sul terreno del contrasto al fenomeno della collusione e della complicità mafiosa. Sono stato attaccato e criticato per questo, e c’è chi ha perfino invocato un procedimento disciplinare nei miei confronti. Io credo, invece, di essere stato perfino soft, per avere usato qualche eufemismo di troppo. La realtà è molto più dirompente e i rischi molto più alti, perché la vera posta in gioco non è la sorte di un «illustre» imputato, seppur importante e potente. E non è neanche il passato. I rischi del revisionismo politico-giudiziario, che rimette in discussione pratiche, sistemi e metodiche pensati dai maestri dell’antimafia, Falcone e Borsellino in primis, e sperimentati con successo per decenni dalla magistratura a tutti i livelli, minacciano ancor di più il presente e il futuro della politica giudiziaria antimafia. Di più: investono, incrementandole, le chance di espansione del potere mafioso. Infine: mettono a rischio la stessa tenuta del principio di eguaglianza, e quindi della nostra democrazia. (...)

Al di là della retorica imperante e dei luoghi comuni, la mafia vincente oggi non è certo quella dei figli di Riina o di Provenzano che conquistano paginate di giornali rilasciando interviste o con iniziative più o meno stravaganti come dichiarare di voler abbandonare la Sicilia per vivere nel Nord Italia. E non è neanche quella dei pochi latitanti superstiti, Matteo Messina Denaro in testa, che rappresentano ormai quel che resta della mafia militare che oggi fa meno paura e gestisce meno potere. Le gravi sconfitte che sul piano militare Cosa Nostra ha subìto le hanno imposto di ripiegare arretrando dall’occupazione militare del territorio, e così passando dal controllo del territorio al più remunerativo sistema del controllo dell’economia. E la mafia oggi è perciò sempre meno territoriale e sempre più finanziaria, sempre meno solidamente radicata, sempre più liquida. Una mafia finanziaria che ha sempre più bisogno dell’efficienza del suo nucleo, ancora più esteso, di consulenti e mediatori, i Complici, un ceto dirigente che costituisce sempre più l’élite criminale del nuovo sistema di potere mafioso integrato, perché interfacciato con altri sistemi criminali collegati ai ceti dirigenti del paese, a partire dal sistema della corruzione politico-amministrativa.

Ed allora, se è questa la fase strategica che sta attraversando la mafia, impegnata anche nel movimento espansivo dei suoi interessi economico-finanziari e della sua sfera di influenza, che ormai interessa territori sempre più ampi delle regioni più ricche del Nord Italia, è facile intuire quanto sia essenziale uno strumento penale come il concorso esterno, e quanto siano rischiosi arretramenti proprio su questo terreno. Il Complice è diventato la vera anima del sistema mafioso, ma nonostante ciò ne rimane estraneo alla struttura organizzativa, e perciò il concorso esterno è, nel contempo, strumento indispensabile e strategico.

Rinunciarvi sarebbe come rinunciare al principio di obbligatorietà dell’azione penale, come introdurre un odioso discrimine all’interno dell’universo mafioso, condannando i soli «picciotti» per risparmiare i Complici, che sono il vero motore del potere mafioso. Sarebbe una ferita al principio di eguaglianza. Del resto, la giurisprudenza della Cassazione con più pronunce, anche a sezioni unite, ha fissato rigorosi paletti all’applicazione del concorso esterno, finendo per selezionare moltissimo le condotte oggi davvero punibili, restringendone l’ambito di punibilità e innalzando – di fatto – lo standard probatorio a livelli sempre più alti. Ma ciò nonostante, le polemiche in relazione ad alcuni processi per concorso esterno non si placano, anzi diventano sempre più incandescenti. Perché? Davvero la questione attiene alla figura di reato e basterebbe una previsione legislativa che preveda una sanzione per le condotte di concorso esterno per porre fine alla bagarre? Temo proprio di no, perché il problema non è il concorso esterno, ma i Concorrenti esterni, i Complici, la cui impunità va tutelata a tutti i costi. E su questo piano il concorso esterno non c’entra nulla. C’entra invece la qualità di certi imputati. (...)

Ammesso che si possa, e probabilmente si può, articolare una norma equilibrata, una norma incriminatrice ad hoc che punisca la condotta «agevolatrice dall’esterno» dell’associazione mafiosa, con un ambito di applicabilità né troppo ampio né troppo ristretto, dotata di maggiore concretezza ma che non rinunci alle sue potenzialità applicative, sarebbe necessario un confronto serio e costruttivo, e senza doppi fini. E che nessuno persegua l’impunità dei Complici. Ma il clima di quiete instauratosi da quando si è insediato il governo Monti è purtroppo solo apparente, come dimostra appunto la vicenda Dell’Utri.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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