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casarrubea-giuseppe-webdi Giuseppe Casarrubea - 19 gennaio 2012
Intervento al convegno di Marsala organizzato dallo SPI il 9 novembre 2011
I nostri 150 anni di storia nazionale sono piuttosto difficili da definire. Una ragione sta nel fatto che, solitamente, nelle scuole, ma anche nell’opinione pubblica, abbiamo a che fare con una visione piuttosto nazionalistica delle vicende italiane passate.

La storia che i nostri professori insegnano nelle scuole, se si eccettua la crisi che stiamo attraversando, tende ad esaltare la condizione dello Stato nazionale come la migliore rispetto a qualsiasi altro tipo di visione su scala quanto meno europea.

Pensiamo di essere i migliori. Abbiamo sempre avuto, del resto, anche nei confronti degli altri Paesi europei, un atteggiamento di conflittualità e di concorrenza. Tuttora le nostre classi dirigenti, rispetto all’Europa, nutrono una sorta di presunzione, come se l’Italia fosse depositaria di beni e di valori assolutamente “irripetibili”. E’ stato così, ma siamo oggi in una lunga fase di declino.

Abbiamo smarrito molte nozioni della nostra storia. Dall’identità nazionale, con i suoi caratteri europei, alla nostra storia culturale e artistica che di questa fa parte. Dai nostri valori linguistici, a quelli societari e di civilizzazione. Siamo andati avanti per miti, per luoghi comuni, per fatti già consolidati. Da qui molti pregiudizi etnici: gli austriaci sono passati, non per un popolo di musicisti, ma come nemici, guerrafondai e colonizzatori; i francesi come i borghesi rivoluzionari fautori del razionalismo; gli inglesi come i fondatori delle antiche costituzioni liberali. E via di seguito.

L’unità che abbiamo avuto ha messo tutti – come dire? ­­- oltre la barricata. Credo che oggi non possiamo più consentirci di leggere la nostra storia soltanto dal punto di vista al quale siamo stati educati. Dovremmo pure fare lo sforzo, dopo 150 anni, di rivederla facendo dei passi indietro. Un percorso complicato, una strada che dobbiamo percorrere. Ad oggi, anche sotto il profilo dell’insegnamento della storia siamo retroguardia. Lo siamo anche perché la storia, volenti o nolenti, è stata quella delle classi egemoniche. E il potere dei forti è sempre spregiudicato.

Il passato che apprendono i nostri figli non è la storia nella sua completezza. Questa è fatta anche da molte altre cose che la cultura ufficiale, in tutti questi anni, ha celato, per diverse ragioni. E’ anche quella che non ci hanno insegnato, che non abbiamo saputo. Perché ci ha parlato di eroi e non di uomini. Bene ha fatto Carlo Ghezzi a ricordare la figura di Garibaldi. Ed io non ho motivo di non farlo, anzi penso che noi di Garibaldi conosciamo ancora molto poco. Dovremmo saperne di più. Ciò che sappiamo di positivo e che è emerso molto bene nella relazione di Ghezzi, è soltanto un aspetto di questo eroe, di questo grande della Patria. Ma quello che dovremo conoscere è anche per quale motivo il progetto garibaldino dell’impresa dello Stato nazionale nel Mezzogiorno sia fallito.

Perché fallì allora e continua a fallire ancora oggi. C’è una spiegazione storica. Una è la mafia, ma non la sola che possa giustificare la condizione di insufficienza del Mezzogiorno rispetto alla storia nazionale e alle necessità che lo Stato ha di essere più avanzato, europeo. Cosa che di fatto non avviene.

Vi sono diversi nuclei di questioni che dobbiamo affrontare e che dovremmo, soprattutto nella storia del movimento operaio e contadino, reinterpretare. Nello sforzo di individuare quelle modalità e quei nodi fondamentali attraverso i quali la nostra storia nazionale può essere più ricca e produttiva di risultati rispetto alla semplice ricorrenza. Vi sono, ad esempio, questioni che si legano alla natura delle trasformazioni delle classi sociali, alla comparsa di nuovi ceti, di nuovi gruppi dirigenti della società e dello Stato. O al tramonto di interi strati e masse di lavoratori, di vecchi sistemi produttivi propri dell’artigianato o del mondo agricolo. O, in qualche modo, connesse alla globalizzazione e alla diversa localizzazione della tradizionale geografia economica e produttiva.

Celebriamo i 150 anni ma, fatta la celebrazione, non possiamo chiudere la partita come se avessimo ultimato il nostro compito. Che semmai inizia da una profonda revisione di ciò che siamo stati. Per saperne di più dobbiamo per un verso continuare a scavare negli archivi. Per un altro immaginare un presente e un futuro diversi. Per fare questo ci potranno essere senza dubbio molto utili gli archivi inglesi. Quelli di Kew Gardens (Surrey, Londra), ad esempio, sono i più ricchi del mondo. Si scopre che molti documenti ci parlano dei preparativi della rivoluzione del 1860, e che su Garibaldi molta influenza ebbero i lord inglesi. Vi si parla del 1859, dell’eroe dei due mondi e della sua missione in Sicilia che sarebbe avvenuta l’anno dopo. Perché quest’interesse dell’aristocrazia britannica per l’Italia?

Significa qualcosa che un anno prima della grande impresa dei Mille, gli inglesi conoscevano già la missione che si sarebbe realizzata, e per la quale loro stessi nutrivano un interesse economico e politico non indifferente? Noi non sappiamo molto delle ragioni per cui Garibaldi era in Gran Bretagna di quel momento, a contatto conla Massoneriadi rito scozzese che ritroveremo sempre nella storia d’Italia, e con quell’aristocrazia alla quale i baroni siciliani avevano da sempre guardato con grande interesse. Questioni di natura economica legavano il progetto che avevano in mente i nobili di quel Paese con un soggetto attivo sul piano della guerriglia che, come ha sottolineato più volte Ghezzi, poteva in qualche modo veicolare in tutta Italia le tecniche dell’insurrezione popolare. Magari a partire da una Regione da sempre debole comela Siciliao il Mezzogiorno di Italia. Realtà, cioè, statiche che non si sarebbero mosse senza il consenso dell’aristocrazia siciliana e, per essa, di quella inglese.

Inoltre, occorre tenere presente chela Siciliaera ricca di giacimenti zolfiferi, anzi era la principale produttrice di zolfo in Europa. Allo zolfo siciliano, controllato dal baronaggio siciliano, proprietario delle miniere, come anche alle fertili terre dell’isola, erano interessati i lord inglesi. Un altro punto da sondare è, dunque, l’egemonia britannica in Sicilia e nel Mediterraneo, in un’epoca in cui l’America è ancora lontana, politicamente e militarmente. Uno dei motivi di interesse strategico della Gran Bretagna sull’Italia erano le materie prime, come oggi è il petrolio nell’appena conclusa guerra libica. Le miniere e i latifondi siciliani facevano gola a molti. Nulla esclude un loro accordo per la messa a punto di un progetto di controllo su vasta scala. In questa direzione spinge l’antica riluttanza dei siciliani ad allearsi con le classi borghesi e rivoluzionarie francesi, rappresentanti, agli occhi dell’aristocrazia parassitaria e del suo sistema piramidale, un vero e proprio pericolo politico e sociale. Dopo la seconda guerra mondiale, i separatisti, ad esempio, ebbero un rapporto privilegiato con i governanti inglesi piuttosto che con quelli della più vicina Francia. E’ una questione che si lega alla formazione del potere nazionale e ai caratteri propri della sua natura.

Chi sono realmente i Mille? Ragazzi che si alzano una mattina e si imbarcano per fare la guerra ai Borbone? Sono giovani senza arte né parte? Militanti di circoli culturali? Hanno tutto l’ottimismo dei giovani, ma anche una visione letteraria della Sicilia. Per loro, questa, è la terra di Omero, di Ulisse, dei naufraghi di Troia. E’ la terra dei vulcani e dei Ciclopi, di Scilla e di Cariddi, della maga Circe e del canto irresistibile delle Sirene. E’ la terra dove Goethe cercava la bellezza, i colori, la classicità. Certamente sono ragazzi sui vent’anni, molto giovani, animati da un forte spirito patriottico. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è se siano realmente consapevoli di quello che stanno facendo. Giovani come Ippolito Nievo, Giuseppe Bandi, Giuseppe Cesare Abba ed altri, ad un certo punto della loro impresa, si imbattono in situazioni che non sempre capiscono appieno o per le quali non sembrano mostrare un grande interesse. Mi riferisco, ad esempio, all’Editto garibaldino con il quale si concedono ai contadini le terre a condizione che si mettano al seguito delle battaglie che l’eroe dei due Mondi sta conducendo per liberare l’Italia. I contadini credono a quello che dice loro Garibaldi. Si mettono al suo seguito. Ma quando cominciano a rivendicare il loro diritto alla terra sono fucilati sotto i colpi dei plotoni di esecuzione di Nino Bixio. Cosa succede veramente?

Come dice Verga ci sono due visioni e due interpretazioni della libertà. Per i contadini è una cosa, per i baroni un’altra. I fatti di Bronte sono lo spartiacque di questa divaricazione. Bixio che cosa fa? Sceglie. Nella sua visione i contadini senza terra sono un ostacolo. Sceglie i baroni. Ci mette, con questa sua decisione, in condizione di capire che alla base della spedizione dei Mille c’è una vocazione di classe. Tendenzialmente borghese, come nello spirito repubblicano, ma di fatto, nello specifico della condizione meridionale, aristocratica. I fatti di Bronte ci dimostrano, se ci fossero ancora dubbi, che la rivoluzione del 1860, come dell’intero Risorgimento nazionale, fu al centro-Nord un processo di riscossa borghese, ma al Sud ebbe i caratteri di una reazione conservatrice e sanguinaria, filo aristocratica. Da qui cominciano le due Italie. E poco conta che a sostenere l’aristocrazia feudale fossero i filoborbonici o alcune forze legate al nascente Stato unitario. Tolti i Borbone e subentrati i Piemontesi, non ci fu nel Mezzogiorno un ribaltamento di classi sociali. I ricchi rimasero ricchi e i poveri, cioè i contadini, i mezzadri, i braccianti, i giornalieri, i mesalori, tornarono ad essere fatalmente più poveri. La struttura sociale feudale non mutò di una virgola. La questione è, dunque, questa. Cosa ha significato l’Unità d’Italia nelle azioni delle classi che l’hanno dominata e governata? Cosa ha rappresentato il mito dietro il quale si nascondeva qualcosa di diverso e di oscuro rispetto alla semplice agiografia nazionalistica?

Un elemento di questa tenebrosità è l’insorgenza della mafia, per troppo lungo tempo ignorata, come fenomeno, dallo stesso Stato che la scopre, più di cent’anni dopo, solo con la legge La Torre, nel 1982. La mafia è alle radici del processo risorgimentale. Le bande armate controllate dai baroni, esistevano in Sicilia da diversi secoli. Ma, durante il primo Ottocento e nel frangente della seconda e terza guerra di Indipendenza costruirono le basi di un uovo connubio, cessando di essere totalmente indipendenti – se mai lo erano state – per diventare qualcosa di diverso, sostanzialmente dipendente dalla variabile politica. Basti pensare alla vicenda di Ippolito Nievo e alla sua fine misteriosa e tragica. Con lui scompare anche buona parte dell’impresa dei Mille.

La spedizione fu aiutata dalla mafia, specialmente quella municipale di tipo crispino, il cui intervento servì a costruire il suo primo connubio con lo Stato. Crispi, repubblicano nel 1860 (dirigeva un giornale come il “Precursore”) fu punto di riferimento di tutte le consorterie borghesi che latifondisti e agrari riuscirono ad organizzare dentro i Municipi per controllare i processi amministrativi e le società comunali. Non è un caso che non ci siano paesi senza monumenti e strade intestati a Francesco Crispi. Come non è un caso il passaggio di questo statista dalle posizioni repubblicane a quelle monarchiche. E monarchia, nel Mezzogiorno d’Italia, significava difesa del latifondo contro le pretese laiche e progressiste delle masse lavoratrici, nonostante queste avessero una visione mitica del re e di Casa Savoia. E sarà in nome di questa posizione di classe che lo statista di Ribera manderà, nel 1893-’94, un esercito di 50.000 soldati a sparare sui contadini che manifestano per i fasci siciliani.

La repressione violenta dei fasci rappresenta la rimozione definitiva di un movimento che si era sviluppato attraverso il pensiero socialista e anarchico, e si era poi organizzato dentro il Partito Socialista che cominciava a dare fastidio alle classi dirigenti di allora. I socialisti organizzati nei fasci dei lavoratori erano circa 500.000 ed erano socialisti non di quelli che calavano la testa ma che si facevano ammazzare. Come Bernardino Verro che partecipò al congresso nazionale socialista a Milano, assieme agli altri dirigenti socialisti dell’isola. Ce li immaginiamo questi nostri dirigenti. Non seguivano la moda e parlavano una lingua incomprensibile. Si distinguevano dagli altri capi socialisti. Non solo per il loro idioma, perché non era avvenuta l’unificazione linguistica, ma anche perché parlavano di una realtà economica inesistente forse nel resto d’Italia dove il sistema feudale non era nel codice genetico delle persone che ne venivano inghiottite. La differenza tra Nord e Sud stava anche in questo. Nel Mezzogiorno vi era un sistema sociale bloccato, mentre al Nord esso si prestava agevolmente a far percorrere verso l’alto la scala sociale. Bernardino Verro, Nicolò Barbato, Giuseppe De Felice Giuffrida, erano dirigenti di livello, ma non era facile che i loro compagni del Nord li capissero. Si ispiravano all’esperienza garibaldina, al movimento operaio, alle Società di Mutuo Soccorso. Sapevano cosa fosse la mafia, cioè quale interesse concreto si era cristallizzato in un sistema produttivo irredimibile. Alcuni di questi dirigenti, anche durante il fascismo continuarono a lottare. Molti di loro andarono a finire nelle galere, a Favignana, a Ustica, a Trapani. Erano dirigenti che lottavano contro i baroni dei feudi e contro le mafie. Le loro vittorie provocavano rotture al sistema latifondistico. Basti pensare alle battaglie contro la mezzadria e ai patti colonici di Corleone. Era la prima volta che i padroni del feudo, i vari baroni Bentivegna, erano costretti a firmare con i contadini analfabeti contratti di lavoro e sulla ripartizione dei prodotti, mai visti prima. Le vittorie bracciantili per i patti agrari erano anche di tipo ideale perché si concludevano con le affermazioni dei principi fondamentali del diritto. Come le 8 ore, l’istituzione delle cooperative di produzione e di consumo, il diritto all’istruzione e all’assistenza in caso di malattia. Conquiste ottenute con il sangue, già nel 1893, quando nascono i primi Statuti dei fasci dei lavoratori unitamente alle organizzazioni operaie e, poi, alle Camere del Lavoro.

Durante il fascismo la mafia continuò ad esistere e si trasformò. Non fu debellata, come racconta Cesare Mori, il “Prefetto di ferro”. Mori fece una lotta accanita contro il brigantaggio ma non contro i mafiosi che stavano dentro le Prefetture, le Questure, i palazzi dei Municipi, formando delle consorterie. Fece una guerra ai “pesci piccoli”. Quando arrivò ai “pesci grossi” lo stesso Mussolini lo fece destituire.

A Palermo rimase una manovalanza mafiosa che non era quella alla Vittorio Emanuele Orlando. L’ex premier era stato la punta di diamante della vecchia borghesia liberale prefascista e aspirava ora a controllare il sistema normativo feudale e a gestire il nuovo apparato statuale, permeato dalla presenza mafiosa. Era una mafia diversa da quella prefascista; cittadina, urbanizzata, gangsteristica, capace di fare assalti a mano armata e che ubbidiva a capi gerarchici disposti a tutto, sul modello della Cosa Nostra italo-americana. Essi si erano insediati dovunque, corrompendo i pubblici uffici. Questo aspetto della storia della mafia è poco conosciuto ma basta studiare alcuni storici stranieri come Christopher Duggan, che hanno affrontato questo problema, per capire che la storiografia italiana ha subito dei ritardi nella conoscenza di un fenomeno che per troppo lungo tempo è rimasto poco esaminato nella sua complessità, nonostante il gran parlare che se ne fa tutti i giorni.

La fine della sedentarietà della mafia è storia antica e la sua evoluzione in senso gangsteristico risale agli anni ’30 e ’40 quando il fascismo diventa regime ed ha bisogno di estendere il suo consenso nelle aree urbane. Per questa operazione il fascismo mussoliniano utilizzò la criminalità urbana ed emarginò la mafia rurale, dando spazio ad una nuova ossatura del sistema di potere, che divenne più operativo, più dinamico, più consono a un partito d’ordine. Diventava pericoloso perché il regime interveniva a mano armata per risolvere le controversie interne ed esterne. Il delitto Matteotti fu il segnale di avvio di questa nuova e spregiudicata politica.

In Sicilia ci sono molti casi di dirigenti contadini assassinati da un giorno all’altro. Un modo sbrigativo di eliminare l’opposizione che durerà fin oltre gli anni ‘50 e le battaglie per la riforma agraria. Ad esempio a Sciara dove, il 16 maggio 1955, è ucciso il dirigente sindacale socialista Salvatore Carnevale.

Carnevale è eliminato dalla mafia di formazione fascista che agisce in combutta con i Carabinieri e con la principessa Notarbartolo nei cui terreni il sindacalista svolgeva la sua azione sindacale. Sono parecchi i delitti insoluti come quello di Sciara.

Dunque, la mafia la fa da padrona con uno Stato che è dall’altra parte della barricata. Gli Alleati, al loro arrivo in Sicilia, nel 1943, trovano questo fenomeno tutt’altro che debellato, e si chiedono il motivo per il quale in varie realtà esso sia abbastanza radicato. Non trovano più la mafia orlandiana, quella del primissimo Novecento, ma la nuova mafia ricostruita tutta per intero sotto il fascismo, rafforzatasi nelle sue connessioni con il potere, soprattutto nelle grandi città. Una mafia solida, tanto che gli alleati la notano, la registrano, ne parlano nei loro rapporti. Ad esempio il capitano dell’Oss Scotten la descrive minutamente e mette in rilievo il pericolo che rappresenta. Alla fine non può fare altro che proporre al governo britannico una pacifica convivenza. La spia conosce la Sicilia, ci vive, ha le idee chiare e annota: “La mafia è un sistema di racket politico ai piani alti e di tipo criminale ai bassi livelli”. Ma anche: “La popolazione siciliana non crede che i Carabinieri o gli altri corpi di Polizia siano in grado di affrontare la mafia. Li ritiene corrotti, deboli e, in molti casi, in combutta con la stessa mafia”. Qualche settimana più tardi, a Palermo, il capitano consegna al generale Usa Julius Holmes un rapporto di sei pagine intitolato Memorandum sul problema della mafia in Sicilia. Il documento porta la data del 29 ottobre 1943 e, qualche giorno dopo, e’ gia’ sul tavolo di Macmillan, ad Algeri.

Se facciamo la storia dei 150 anni dell’unità d’Italia, le questioni ancora aperte sono complesse e notevoli e richiedono studi approfonditi. A cominciare dall’intreccio trinitario tra mafia, Servizi e Stato. Lo intuì, negli anni ’50, il luogotenente del bandito Salvatore Giuliano. Al processo di Viterbo disse al giudice:

“Mafia, banditi e polizia siamo tutta una cosa come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”. Una verità illuminante: la mafia non un corpo separato, ma elemento organico del sistema di potere che ha governato l’Italia.

Tratto da: casarrubea.wordpress.com

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