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di Attilio Bolzoni - 18 febbraio 2011
Firenze.
Nessuno sa niente. Nessuno ricorda niente. Tutti che smentiscono gli altri e qualche volta anche se stessi. Sfilano i ministri della Repubblica per le stragi di mafia e va in scena l´omertà di Stato. Da loro non si saprà mai nulla su quanto è accaduto in Italia fra la morte di Falcone e le bombe ai Georgofili, da loro non riusciremo mai a sapere chi ha trattato con Cosa Nostra per fermare gli attentati.

Nel bunker di Firenze, dove si celebra il processo con rito immediato a uno degli imputati - il boss Francesco Tagliavia - per i massacri del 1993, è calato un silenzio totale e probabilmente finale. Coloro i quali, più di altri, avrebbero potuto consegnarci frammenti di verità sul movente delle stragi sono stati zitti. In due udienze due ministri testimoni - quello della Giustizia Giovanni Conso, quello dell´Interno Nicola Mancino - e due lunghe deposizioni per avvolgere i fatti criminali di diciotto anni fa dentro una nuvola di fumo. Ministri del tempo che si sono contraddetti uno con l´altro, ministri che non hanno spiegato, ministri che hanno svicolato ogni qualvolta veniva sussurrata la parola trattativa o anche solo intesa. Conso l´altro giorno e Mancino ieri, sono stati fin troppo categorici: «Lo Stato non è mai sceso a patti con la mafia». E per sostenere ciò si sono avventurati e incartati in improbabili ricostruzioni.
Come quella sulla revoca nel novembre del 1993 del 41 bis, il carcere duro, per 143 imputati di mafia. Il primo ha giurato di avere preso «in solitudine» quella decisione pur avendone parlato più volte con il suo collega ministro dell´Interno, Mancino al contrario ha negato di avere mai discusso - proprio mai, neanche in un solo colloquio - di 41 bis con il Guardasigilli «per rispetto della sua autonomia». Il primo ha dichiarato di non avere seguito i suggerimenti di nessuno (per esempio le relazioni dei capi dell´amministrazione penitenziaria che consigliavano di cancellare il carcere duro), il secondo ha confessato di «essere venuto a conoscenza di quella revoca per caso e dalla stampa».
L´Italia era in «guerra», le bombe avevano già fatto dieci morti e centosei feriti fra Firenze, Roma e Milano e i due ministri - Giustizia e Interno - raccontano che scelte così importanti sono state fatte senza consultare esperti (il caso di Conso) o addirittura di essere stati all´oscuro (il caso di Mancino) delle mosse dei colleghi. Testimonianze che - se vere - rivelerebbero uno Stato allo sbando e in mano a dilettanti allo sbaraglio. Sulla vicenda del 41 bis annullato, Mancino ha anche ricordato di avere negativamente commentato «sui giornali» il provvedimento per quei 143 mafiosi («Posso esibire copia de La Sicilia di Catania»), ma di non avere mai affrontato neanche in seguito l´argomento in sede istituzionale. Così andavano le cose alla fine del 1993, secondo i due ministri.
Totò Riina era in carcere da una decina di mesi, gli investigatori ignoravano i «movimenti» dentro Cosa Nostra e qualcuno sospettava perfino che Bernardo Provenzano fosse morto. Ma prima Conso e poi Mancino riferiscono di avere saputo dell´esistenza di due fazioni di Cosa Nostra, una «terroristica» legata a Riina e l´altra più «politica» con a capo Provenzano. «Informazioni apprese dai giornali», dicono entrambi. Informazioni segretissime che, 18 anni fa, non erano certo in possesso di cronisti e neanche di poliziotti di prima linea. Solo chi stava «trattando» poteva sapere quali erano gli equilibri della mafia siciliana in quel momento.
Dopo gli «smemorati» di Palermo (l´ex Guardasigilli Claudio Martelli, l´ex presidente della commissione antimafia Luciano Violante, l´ex direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia Liliana Ferraro), ecco le offuscate deposizioni di altri due ministri. È sempre più chiaro che la trattativa o le trattative fra Stato e mafia, fra il 1992 e il 1993, non si possano circoscrivere agli incontri fra il generale Mario Mori e all´ex sindaco Vito Ciancimino. C´è molto di più. E non caso ieri, Mancino, ha rievocato a Firenze il nome del capo della polizia Vincenzo Parisi: «Io, da ministro dell´Interno, posso dire che Parisi non espresse mai riserve sul carcere duro». Circostanza riferita invece, e in un documento ufficiale, dal capo dell´amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Sul 41 bis e quelle revoche - è evidente - qualcuno sta mentendo.

Tratto da: La Repubblica