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Per il resto è guerra di periti e missive.
di Lorenzo Baldo - 28 settembre 2010

Si trasformerà in una guerra tra periti e consulenti il processo che vede imputato il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, in special modo per quanto riguarda i documenti prodotti da Massimo Ciancimino ed entrati nel faldone del pm per consolidarne i capi di imputazione.

L’udienza di oggi presso la IV sezione penale del Tribunale di Palermo si aperta proprio con la richiesta del Pubblico Ministero Nino Di Matteo di risentire il figlio di don Vito in merito ad un’altra delle lettere del padre in cui si farebbe riferimento alla trattativa, elemento fondamentale per questo processo, consegnata il 13 settembre scorso ai magistrati.
Nelle due paginette formato A4 battute a macchina e con alcune notazioni di suo pugno Don Vito scrive: “Nonostante gli inviti ad andare avanti per l'unica strada possibile so che anche io sono a rischio. Ho aderito alla richiesta fatta dal colonnello Mori lo scorso giugno, Lima Falcone Borsellino Salvo ancora la lista è lunga so che se non interveniamo come ho suggerito non si fermeranno. (…) Mori mi dice di essere stato autorizzato ad andare avanti per la mia strada. Ho chiesto di potere incontrare in privato Violante. Sono ancora in attesa del passaporto promesso dal colonnello e dal capitano (Giuseppe De Donno ndr) (…) Il piano folle messo a punto per la destabilizzazione del nostro sistema politico-affaristico - spiega l'ex sindaco - ha avuto inizio con l'inchiesta di tangentopoli. Oggi è stato compromesso tutto il sistema, Falcone aveva capito subito cosa e che fine gli sarebbe riservata dopo l'omicidio Lima. Anche Borsellino aveva intuito il terribile disegno, forse ancora prima del suo collega Falcone aveva intravisto scenari inquietanti. Anche lui come Di Pietro era messo in conto». «Perché - si chiede - Di Pietro è stato avvisato a chi serve che vada avanti? In questa logica si sta consumando il tutto» E si chiede: Che concreti rischi corre oggi mio figlio Massimo?». Prosegue poi: “Se i mafiosi temevano che Falcone avrebbe potuto pilotare le sorti del maxiprocesso in Cassazione lo avrebbero dovuto ammazzare prima dell'introduzione del sistema di rotazione. È stato ucciso per profilassi non per quello che aveva fatto, ma per quello che poteva fare da Roma». Il documento scritto a macchina si conclude con tre righe manoscritte: «In questa logica - si legge - è stato assassinato Falcone e lui lo ha capito tant'è che quando uccisero Lima ha scritto 'Ora tocca a me’».
La difesa degli ufficiali rappresentata dagli avvocati Milio e Musco si è dapprincipio opposta per poi riservarsi il diritto di avanzare una richiesta di supplemento d’esame per sentire Ciancimino junior, non in merito alla lettera, ma anche su altre questioni.
Al centro del contendere vi è infatti l’autenticità delle missive consegnate da Massimo ai magistrati e depositate al processo, già oggetto di molte speculazioni da parte dei media. E tanto per fissare un punto fermo, il pm Di Matteo ha depositato la perizia che senza ombra di dubbio certifica la veridicità della firma di don Vito, scritta in calce a molte delle lettere in questione. Per ora si tratta dell’unico elemento provato, gli altri “pizzini” e lo stesso ormai famoso “papello” sono ancora in cerca di autore, ma nemmeno sono stati smentiti come la solita banda dei detrattori vorrebbe far credere.
E sulla veridicità dei documenti di Ciancimino si è dilungata la prima delle due dichiarazioni spontanee concesse oggi al generale Mori che, munito di Power Point, ha mostrato alla Corte come, a suo avviso, e secondo la sua fonte, il libro “Prego dottore”, scaricabile da internet, il rampollo di Ciancimino avrebbe manomesso la lettera indirizzata da Don Vito a Dell’Utri e per conoscenza a Berlusconi consegnata durante lo stesso processo l’8 febbraio scorso.
Secondo la dettagliata ricostruzione del generale la versione fornita alla Corte non corrisponderebbe a quella pubblicata sul libro “Don Vito” edito da Feltrinelli, che sarebbe invece frutto di manipolazione così come gli altri reperti che Mori non esita a definire falsi, tagliati, copiati e incollati da quello che è diventato il suo peggior nemico.
In effetti, taglia e cuci a parte, dopo che Massimo Ciancimino ha raccontato la storia della trattativa dal suo punto di vista, anticipandone la datazione, sono spuntati anche altri testimoni a confermare che l’operazione di avvicinamento a don Vito è scattata molto prima di agosto come invece sempre sostenuto dal generale.
Sul punto è stata sentita anche Liliana Ferraro, ex collega di Falcone all’Ufficio Affari penali, che questa mattina in aula, visibilmente tesa, ha sostanzialmente ripetuto in aula quanto aveva messo a verbale nei mesi precedenti.
Secondo i suoi ricordi, a circa un mese dalla strage di Capaci, il capitano De Donno le aveva confidato che si stavano battendo tutte le strade pur di arrivare agli assassini di Falcone, compreso un tentativo di dialogo con Vito Ciancimino, e per questo era venuto a chiedere una sponda politica. La dottoressa avrebbe replicato che più che rivolgersi alla politica avrebbe dovuto rivolgersi a Paolo Borsellino. Cosa che comunque fece lei stessa quando lo incontrò assieme alla moglie presso la saletta vip dell’aeroporto di Roma dove il magistrato era in attesa di rientrare da un viaggio a Bari, in compagnia della moglie.
Almeno un dato, dopo 17 anni è certo: Borsellino sapeva. Dettaglio che fino ad oggi si è sempre cercato di confutare, dettagli che il generale Subranni, citato come teste della difesa, ha cercato di rivoltare a suo vantaggio.
Smentendo il suo diretto sottoposto, Mori circa la sua conoscenza e addirittura supervisione degli incontri con don Vito, Subranni ha cercato di sostenere che se, come attestano ormai le agende, la sera del 11 luglio 1992 Borsellino aveva cenato con lui e con gli altri ufficiali in clima di cordialità, significa che sebbene ne fosse a conoscenza, non vedeva nei “colloqui investigativi dell’ Arma con Ciancimino, l’intenzione dello Stato di trattare con la mafia”.
Peccato che in tutti questi anni si è cercato di dire e smentire l’impossibile pur di negare che Borsellino fosse al corrente di questi colloqui, persino spostando le date.
Si vorrebbe approfittare del passare del tempo per cercare di offuscare alle menti dei più la granitica integrità del giudice che mai e poi mai avrebbe tollerato scorciatoie che passassero attraverso patti con la mafia.
Tanto è vero che più volte in quei 57 giorni di vita residui più volte era tornato a casa stravolto e alla moglie aveva confessato: “Sto vedendo la mafia in diretta” e ancor più furente, a pochi giorni dalla morte: “Ho saputo che il generale Subranni è punciuto”, cioè mafioso.
Difficile a dirsi se queste rivelazioni, terribili, per il suo altissimo senso dello Stato gli siano giunte prima o dopo quella cena, se le avesse correlate tra di loro e ancor di più se non abbiano concorso a renderlo solo, vulnerabile e irrinunciabile merce di scambio.

La prossima udienza è prevista per il 12 ottobre. L’accusa ha deciso di non sentire il giudice Fernanda Contri, ma di limitarsi, con il consenso della difesa, all’acquisizione del verbale che vi riproponiamo qui di seguito in forma riassuntiva.


Fernanda Contri: “Mori mi disse di Ciancimino”

di Lorenzo Baldo - 28 settembre 2010
Palermo.
Lunedì 18 gennaio 2010 l'ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Fernanda Contri, viene sentita negli uffici della Procura nazionale antimafia di Roma dai procuratori nisseni Lari, Gozzo e Marino insieme ai funzionari della Dia di Caltanissetta Buceti e Ganci. «Ho chiesto di essere sentita dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta – esordisce la Contri – perché avendo visto a più riprese trasmissioni televisive sulla “trattativa” tra Stato e Cosa Nostra, mi sono ricordata di alcuni particolari relativi alle stragi del 1992 che ho avuto modo di ricostruire attraverso le mie due agende che esibisco in questa sede». L'ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché grande amica di Giovanni Falcone, ricostruisce i suoi incontri con Mario Mori. Il primo avviene in un periodo a cavallo tra il 1986 e il 1990 quando la Contri faceva parte del Csm, ma di questo appuntamento non ha una traccia scritta se non un vago ricordo. Il mattino del 22 luglio 1992 Fernanda Contri, nella sua veste di Segretario Generale, appunta sulla sua agenda l'incontro con l'allora colonnello Mori. «Ricordo che Mori mi disse che stavano sviluppando importanti investigazioni, precisando che si stava incontrando con Vito Ciancimino, parlando di un'attività investigativa che a mio parere doveva ancora iniziare; ciò affermo sulla base di un mio ricordo personale». In occasione di un altro incontro con Mori avvenuto il 28 dicembre a Palazzo Chigi la dott.ssa Contri ricorda che in quell'occasione parlarono anche dell'arresto di Bruno Contrada avvenuto quattro giorni prima. «Mori mi confermò che stava incontrando Ciancimino; aggiungendo: “mi sono fatto un'idea che Ciancimino è il capo o uno dei capi della mafia”. Ricordo il momento molto bene anche perché l'arresto di Contrada fu un fatto eclatante; lo stesso Prefetto Parisi il giorno dell'arresto era venuto a Palazzo Chigi palesemente turbato per l'accaduto, ritenendo l'arresto un fatto assurdo». Il virgolettato di Fernanda Contri si interrompe. Sul fondo della pagina compare la scritta “omissis”. Nella pagina successiva la scritta in latino è ripetuta in alto. Poi il verbale prosegue con la Contri che ricorda un ulteriore incontro con Mori senza però riuscire datarlo nè tanto meno a definirne i contorni. «Tengo a precisare – ribadisce successivamente l'ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – che non avevo attribuito ai contenuti degli incontri con il col. Mori particolare rilevanza in quanto egli non aveva effettuato nessuna richiesta né di copertura né di altro rispetto al suo operato. Certamente mi aveva colpito la circostanza che egli avesse parlato di Vito Ciancimino come uno dei capi di Cosa Nostra». I magistrati fanno notare alla dott.ssa Contri l'anomalia di una simile confidenza fattale dal vice capo di una struttura investigativa come il Ros. L'ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri non si sa spiegare la condotta di Mori e mostra appositamente agli inquirenti l'appunto dell'incontro con l'ufficiale del Ros accanto all'annotazione “capo”. Gli investigatori le chiedono quindi se la parola “capo” possa essere riferita al Presidente del Consiglio. «Escludo che con l'annotazione “capo” volessi riferirmi al Presidente del Consiglio – afferma con fermezza la Contri – in quanto in vita mia non ho chiamato mai nessuno “capo”». Sul foglio compare nuovamente la dicitura «omissis». Fine del verbale.