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Strage di via D'Amelio. Al via gli eventi per la ricorrenza.
di Anna Petrozzi e Lorenzo Baldo - 17 luglio 2010
Palermo. Partecipato, intenso e commovente l’incontro organizzato dall’Anm per questa mattina presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia.


Parole sentite, dirette, vere, intrise di quell’autenticità che inghiottisce ogni retorica quelle pronunciate a turno da Nino Di Matteo, presidente dell’Anm Palermo e coordinatore dei lavori, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Rita e Salvatore Borsellino e dagli altri intervenuti.
L’aula era piena di giovani e meno giovani, agende rosse e scorta civica, magistrati, avvocati, forze dell’ordine, giornalisti e gente comune. Un minuto di silenzio e poi un lungo dialogo tra relatori e pubblico alternato da ricordi, applausi, ferme prese di posizione, lacrime, denuncia dell’attualità, rabbia… una vibrante sintonia di intenti, una grande, quanto rarissima, unità nel nome di Paolo Borsellino.
Dall’uomo, dalla sua allegria e arguzia, dalla generosità e ottimismo e dal magistrato dalla professionalità ineguagliabile e profondamente indipendente, dal senso dello Stato e dall’integrità, si è preso spunto per tracciare la figura di un essere umano unico e speciale di cui la violenza e l’arroganza hanno privato tutti noi.
Ma soprattutto dal suo coraggio e della sua coerenza quali linee guida essenziali per trasformare il ricordo in azione. Per far rivivere continuamente quel piccolo uomo che ha saputo dare un’anima e un corpo a valori sempre più relegati alla pura idealità e per i quali, invece, lui è andato coscientemente a morire.
Coraggio di andare incontro al proprio destino, quindi, ma anche di parlare. Di urlare, se necessario, per denunciare gli attacchi al pool, al fraterno amico Giovanni Falcone, episodi esemplari rimasti nella storia che oggi vengono comodamente archiviati per far credere – lo ricordano sia Di Matteo sia Ingroia – che Borsellino fosse un magistrato ligio e zitto. Eppure rischiò persino un provvedimento disciplinare del CSM quando, sciogliendo il suo naturale riserbo, seppe alzare la voce per denunciare le manovre in corso per azzerare il metodo di lavoro che aveva portato al maxi-processo.
E coraggio, ancora, di indicare nella collusione con i colletti bianchi la vera forza di Cosa Nostra e sintetizzarla in quella semplice frase rimasta celebre quanto troppo poco compresa nella sua essenza: il nodo è politico.
Con questo esempio, con questo riferimento di coraggio, Nino Di Matteo ha voluto denunciare gli odierni tentativi di ridimensionamento della funzione della magistratura e i progetti di legge finalizzati a recidere quel fondamentale filo di collegamento fra magistratura e polizia giudiziaria con il fine “in malafede” di “creare nuovi spazi di impunità”. Le critiche non sono però rivolte solo al potere esecutivo e legislativo. Il sostituto procuratore non teme di puntare il dito anche verso la stessa magistratura protagonista in questi giorni, ancora una volta, di scandali che ne disvelano quella parte “che va troppo a braccetto con il potere”.
Quando la parola passa a Rita e Salvatore coerenza e coraggio sono anche ricordo privato, dettagli di vita quotidiana, struggente dolore che entrambi, sorella e fratello, hanno saputo trasformare in impegno sociale trasmettendo a migliaia di persone, bambini, giovani e cittadini italiani l’esempio di Paolo.
Anche per Rita Borsellino non è solo il giorno del ricordo. E’ anche l’occasione per riflettere su questo momento storico che definisce persino peggiore del 1992 quando “almeno sapevamo chi erano gli amici e i nemici, a chi affidare la fiducia”. Il riferimento è alle recenti risultanze investigative che stanno dimostrando che nel biennio delle stragi una parte dello stato lottava in una direzione e un’altra in senso opposto. Il suo auspicio, sollecitato da Di Matteo, è che la caparbietà di questi pochi giudici impegnati in prima linea possa giungere alla verità, quella verità – afferma con forza Rita – che può essere solo una.
Salvatore è visibilmente emozionato quando viene il suo turno. L’aula magna è per lui un luogo sacro, per il rispetto che la magistratura dovrebbe trasmettere e ricevere, quale ultimo baluardo della democrazia, vilipesa invece da ripetuti insulti e offesa da condotte che il fratello Paolo avrebbe di certo condannato.
Si dice molto preoccupato per l’incolumità e per l’indipendenza di quei magistrati che si stanno avvicinando alla verità sulla strage di via d’Amelio che è – lo ripete incessantemente ormai – una strage di Stato, consumata quale esito della trattativa cui – ne è convinto – Paolo si sarebbe messo di traverso con tutte le forze. Solo uccidendolo e facendo sparire la sua agenda rossa si poteva fermarlo.
Alla fine di ogni intervento si levano quei quadernetti rossi, silenziosi e potenti del loro carico simbolico, stanno lì a chiedere la verità e anche quest’anno presidieranno via D’Amelio per impedire che anche quel luogo sacro venga profanato.
Salvatore vuole spiegare perché. “Non è vero, come scrivono alcuni giornali, che non vogliamo le istituzioni, noi non vogliamo quelli che le occupano indegnamente!”, precisa con fermezza in uno scroscio di applausi.
“Quando esplose la bomba, mia mamma – racconta commosso – ha pensato ad una fuga di gas. Quindi è corsa giù dalle scale perdendo le pantofole e calpestando a piedi nudi i vetri si è diretta in strada dove un pompiere l’ha presa in braccio e non aveva nemmeno un graffio. I medici dicono che quando si subisce un forte trauma il cervello ci protegge e lei non solo non ha realizzato che si trattava di un attentato a suo figlio, ma poi è passata in via D’Amelio senza vedere ne il corpo di Paolo riverso a terra ne tutto il sangue dei suoi ragazzi. Ma non è andata così. Io lo so cos’è successo – ha proseguito tra le lacrime. – Paolo l’ha presa in braccio per le scale e le ha coperto gli occhi affinché non vedesse e l’ha accompagnata in strada”. Ecco perché per me Via D’Amelio è sacra.
Non è facile per il procuratore aggiunto Antonio Ingroia riprendere le fila del discorso dopo la pausa di profonda emozione generata dal racconto di Salvatore.
Anche il magistrato ha la voce rotta, domina a fatica il riaffiorare del dolore, trasmette tutta quell’“assenza ancora bruciante” del suo maestro di professione e di vita, quel vuoto incolmabile. Ma così come la vita riprende e le promesse esigono di essere mantenute, Ingroia confida ai giovani rapiti di sentirsi ottimista perché dopo quasi vent’anni si stanno finalmente aprendo squarci di luce. Certo lo scenario che illuminano appare agghiacciante così come “tutti noi avevamo avuto la sensazione che fossero andate le cose”. Ma oggi la concomitanza delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza e di Massimo Ciancimino e la relazione di recente approvata dalla presidenza della Commissione antimafia dimostrano che ci sono stati dei passi in avanti.
“Oggi è il tempo della riconciliazione con noi stessi e con la nostra coscienza. Con la nostra anima. Ognuno ha in sé una sorta di senso di colpa – continua come in una confessione – per non aver fatto abbastanza per salvare la vita di Paolo Borsellino. Che invece si è fatto scudo per tutti noi. Questo ci deve spingere a riconciliarci con noi stessi con il preciso obiettivo di fare di più, di lavorare con una ragione in più. Abbiamo un debito di riconoscenza. Quello di ricercare quella verità sulle nostre origini. Noi siamo figli di quel bagno di sangue, eredi di tutto ciò che è venuto dopo. E abbiamo diritto alla verità. Potremmo ancora costruire un’Italia migliore se davvero tutti si ispirassero, almeno un pochettino a Paolo Borsellino”.
Per concludere il magistrato ha fatto suo l’appello di qualche tempo fa lanciato da Agnese Borsellino. La moglie del giudice aveva chiesto che chiunque fosse stato al corrente dei segreti di Via D’Amelio parlasse, che avesse un po’ del coraggio di suo marito.
Non mi sembra che questo appello sia stato raccolto, ha sottolineato Ingroia. “Ma c’è ancora tempo per dimostrare di voler raccogliere l’eredità di Paolo Borsellino. Basterebbe ritirare quella proposta di legge che vuole limitare le indagini della magistratura e imbavagliare la stampa e ora anche i pentiti. Negare la protezione a Spatuzza, proprio ora che si stanno aprendo scenari inquietanti, mentre viene concessa a collaboratori di minor calibro può voler dire solo due cose. O è iniquo il provvedimento e allora lo si corregga, o è iniqua la legge che lo stabilisce e quindi si avvii l’iter per modificarla. C’è ancora tempo, ha ripetuto, per fare un passo indietro”.
E c’è l’obbligo da parte di tutti noi di farci guidare dalla “insaziabile sete di verità” che aveva Paolo Borsellino e dalla “convinta Fede di poterla far emergere”.

Commemorazione di Paolo Borsellino a cura della sezione palermitana dell’ANM