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trattativa-bandiera-bigdi Lorenzo Baldo - 7 marzo 2013
Alla luce del rinvio a giudizio da parte del gup, Piergiorgio Morosini, per gli imputati del procedimento sulla trattativa Stato-mafia vale la pena riprendere alcuni passaggi della memoria della Procura di Palermo depositata a novembre del 2012.  “Questo Ufficio – si leggeva nel documento a firma Ingroia, Di Matteo, Del Bene, Sava e Tartaglia – è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell'epoca (un'amnesia durata vent'anni), che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile '92-'93, quanto meno di fronte alle risultanze (anche di natura documentale) che confermavano l'esistenza di una trattativa  ed il connesso – seppur parziale - cedimento dello Stato, tanto più grave e deprecabile perché intervenuto in una fase molto critica per l'ordine pubblico e per la nostra democrazia”.

“Il complesso probatorio, seppur non esaustivo – scrivevano i pm –, appare sufficiente per ricostruire la trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subìto molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall'altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese”. “In questo quadro, può dirsi che è proprio dal suo epilogo del 1994, che viene ancor meglio in evidenza la vera posta in gioco di tutta la ‘trattativa’. Essa non è stata limitata a singoli obiettivi ‘tattici’, come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l'allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall'altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l'Italia”.  Così come si evidenziava nella memoria illustrativa, nel 1992 la posta in gioco era soprattutto “la vita dei politici inseriti nella lista nera di Cosa Nostra che andavano salvati”, e quindi la trattativa “ebbe per oggetto la rinuncia agli omicidi già programmati in cambio dell‘allentamento della morsa repressiva”. Nella ricostruzione della Procura palermitana si leggeva che nel 1993 la trattativa sembrava “inizialmente non produrre gli esiti sperati” e quindi “si resero necessarie ulteriori minacce che, questa volta, produssero qualche frutto: l'allentamento del 41 bis”. Per i magistrati il “cedimento” consisteva “nell’inopinata mancata proroga di oltre 300 decreti di applicazione del 41 bis”, che di fatto “costituì il segnale che si volesse andare incontro ai desiderata di Cosa Nostra, lanciando quel ‘segnale di distensione’, peraltro letteralmente auspicato nella Nota che il Capo del DAP Capriotti indirizzava al Ministro della Giustizia Conso in data 26/6/1993”. Dal canto loro gli inquirenti avevano ribadito che “nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato”.  Oltre a Totò Riina, Bernardo Provenzano (la cui posizione è stata al momento congelata), Antonino Cinà, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, ci sono sette uomini dello Stato ritenuti responsabili di “precise e specifiche condotte di reato realizzate nell’ambito della trattativa”. Stiamo parlando di uomini degli apparati che hanno fatto da “anelli di collegamento fra mafia e Stato” come Mario Mori, Giuseppe De Donno e il loro superiore dell’epoca Antonio Subranni. Due sono “gli uomini politici – cerniera, cinghie di trasmissione della minaccia” e cioè Calogero Mannino prima e Marcello Dell’Utri dopo. Poi c’è Massimo Ciancimino, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa per il suo “ruolo permanente di tramite” fra il padre Vito e Bernardo Provenzano. Due sono, infine, gli uomini di Governo, Giovanni Conso e Nicola Mancino, sui quali “si è acquisita prova di una grave e consapevole reticenza”. Mancino è imputato per falsa testimonianza; Conso, con l’allora Direttore del DAP Adalberto Capriotti e l’on. Giuseppe Gargani sono indagati per false dichiarazioni al PM, esclusivamente “in ossequio alla previsione di legge che impone il congelamento della loro posizione in attesa della definizione del procedimento principale”. Nella loro memoria gli inquirenti avevano sottolineato che la condotta era stata contestata a ciascuno degli imputati “in funzione della rispettiva posizione nell’ambito della trattativa”. Per i magistrati quindi i boss mafiosi Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella e il “postino” del papello Antonino Cinà, sono “gli autori immediati del delitto principale, in quanto hanno commesso, in tempi diversi, la condotta tipica di minaccia ad un Corpo Politico dello Stato, in questo caso il Governo, con condotte diverse ma avvinte dal medesimo disegno criminoso, a cominciare dal delitto Lima”. “Omicidio che fu la prima esecuzione della minaccia rivolta verso il Governo tutto ed in particolare indirizzata verso il Presidente del Consiglio in carica Giulio Andreotti”. E questo secondo la ricostruzione degli inquirenti rappresentava un vero e proprio avvio di “una campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell'epoca al fine di ottenere i benefici ed i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi”. Secondo l’analisi dei magistrati la predisposizione ed inoltro del papello ai destinatari della minaccia costituì “un ulteriore momento esecutivo della condotta tipica, dispiegatasi ancora negli anni successivi attraverso i gravissimi messaggi minacciosi che si succedettero nel 1993 e all’inizio del 1994, anno in cui, al Governo presieduto dall’on. Berlusconi, Brusca e Bagarella fecero recapitare, attraverso il canale Mangano-Dell’Utri, l'ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico-mafioso”. In questo modo “si completò il lungo iter di una travagliata trattativa che trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi”.  Per quanto riguarda le condotte degli uomini dello Stato imputati di concorso nella minaccia al Governo (Subranni, Mori, De Donno, Mannino e Dell’Utri), sono quindi tutti accusati “di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia, con condotte atipiche di sostegno alle condotte tipiche che si sono risolte nell'avere svolto il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un’estorsione. Con l'aggravante, nel caso di specie, che il soggetto ‘estorto’ è lo Stato e l'oggetto dell'estorsione è costituito dal condizionamento dell'esercizio dei pubblici poteri, così sviati dalla loro finalità istituzionale e dal bene pubblico”. Ma nella memoria della Procura si leggeva anche dei ruoli nevralgici dell'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi e del vice direttore del DAP Francesco Di Maggio, che “agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis”. Di fatto la minaccia è consistita “nell'aver prospettato agli ‘uomini-cerniera’, perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del Governo, l'organizzazione e l'esecuzione di omicidi e stragi ed altri gravi delitti ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni se lo Stato non avesse accolto la richiesta di benefici di varia natura che veniva formulata dai capi di Cosa Nostra”. Nella ricostruzione dei magistrati Calogero Mannino, nella doppia qualità di componente del Governo, quale Ministro per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, e soprattutto di principale esponente siciliano della corrente politica DC facente capo a livello nazionale all’allora segretario nazionale del partito “si attivava per sollecitare i propri terminali sul territorio a richiedere a Cosa Nostra la contropartita utile ad interrompere la strategia di frontale attacco alle Istituzioni politiche, così di fatto proponendosi come intermediario per conto dell’organizzazione mafiosa nella ricerca di nuovi equilibri nei rapporti con la politica”. Per quanto concerne la nomina di Mancino al Viminale secondo gli inquirenti l’ex Ministro dell'Interno, Vincenzo Scotti, era ritenuto un “potenziale ostacolo” alla trattativa, mentre Mancino veniva ritenuto “più utile” in quanto “considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato Mannino, e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia Parisi”. Rispetto al ruolo di quest'ultimo, i magistrati avevano evidenziato che mentre i primi approcci della trattativa erano nati “su iniziativa ed ispirazione di chi poteva avere un interesse immediato e personale, in quanto più esposto”, nel frattempo il quadro “si era aggravato” perché all'omicidio Lima aveva fatto seguito la strage di Capaci. E quindi “l’affare non riguardava più solo la sorte dei politici, ma l’intero Stato”. Ecco allora che secondo la ricostruzione della procura di Palermo “irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali”. Secondo gli inquirenti l'allentamento sul fronte carcerario, con alcune significative mancate proroghe di 41 bis nei confronti di boss mafiosi di prima grandezza, “non poteva esaurire l'iter della trattativa che, dalla parte dei capi di Cosa Nostra, aveva ben più ambiziosi e duraturi obiettivi, mirando ad ottenere garanzie a tutto campo, con  la stipula di un nuovo duraturo patto politico-mafioso”. Ed è per questo motivo che le minacce di prosecuzione della stagione stragista non si arrestarono e “proseguirono fin tanto che, subentrata la Seconda Repubblica ed insediatasi una nuova classe politica dirigente con la quale ‘trattare’, all'ultima minaccia portata al neo-Governo Berlusconi tramite il canale Bagarella-Brusca-Mangano-Dell’Utri,  seguì la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza  Stato-mafia”. I pm concludevano la loro memoria sottolineando le ragioni per le quali si era ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli imputati, “nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”.

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