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di Karim El Sadi
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Le rivelazioni di Antonio Vassallo, intervistato a Non è l’Arena da Massimo Giletti
La Barbera mi disse che erano state dimenticate nella tasca di una divisa, io risposi che i due erano in abiti civili

Dopo l’esplosione della bomba mi recai in direzione dell’autostrada. Mi si presentò davanti una scena da cinema americano. Cominciai allora a fare foto perché sentì forte di documentare quelle pagine di storia ma venni avvicinato da due uomini in abiti civili che mi presero il rullino fotografico”. A raccontare di questo episodio avvenuto a qualche minuto di distanza dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992, è il testimone oculare e fotografo Antonio Vassallo, intervistato ieri sera nello studio di “Non è l’Arena” da Massimo Giletti. Vassallo vive tutt’ora nella casa che si trova a metà strada tra la parte di autostrada dove avvenne l’attentato al giudice Giovanni Falcone e la collinetta dove si pensa la mafia avesse azionato il telecomando. “Quando arrivai nel luogo della detonazione la mia attenzione venne attirata subito da quest’uomo che era alla guida della macchina. Era gravemente ferito, si trattava di Giovanni Falcone”, ha affermato Vassallo. “In quel momento volevo fare fotografie ma scappai perché un agente della scorta sopravvissuto mi puntò il mitra addosso pensando che fossi uno del commando che fece l’attentato venuto lì a finire il lavoro. Tornai dopo qualche minuto ma - ha spiegato - a quel punto non ero più solo. Cominciai allora a fotografare perché ero un fotografo con la licenza rilanciata della questura di Palermo. Cominciai con foto panoramiche poi fotografie più vicine, intorno alla Croma bianca e infine l’auto che per prima venne colpita dall’esplosione finita tra le campagne”. Ed è in quei momenti che Antonio Vassallo venne avvicinato da due soggetti in "abiti civili" che, ha dichiarato, “mi sventolarono in faccia un tesserino così velocemente che non riuscì a capire se fosse della polizia o se della piscina”. I due “mi intimarono di consegnarli il rullino fotografico. Io orgogliosamente tirai fuori la mia licenza ma loro se ne infischiarono e praticandomi una leggera violenza sul braccio mi presero il rullino”. Da quel momento in poi le fotografie spariscono, ha spiegato Vassallo in studio. Finchè, ha continuato nel suo racconto, “a distanza di tempo andai dalla dottoressa Ilda Boccassini e le dissi di essere l’autore delle fotografie che loro avevano agli atti. Lei allargò le braccia e mi disse di non avere notizie di queste foto. La mattina seguente fui convocato in questura da Arnaldo La Barbera il quale sostanzialmente si scusò dicendomi che le fotografie erano state dimenticate nella tasca di una divisa, ma io gli ricordai che i due agenti erano in abiti civili. Quindi mi invitò a non alzare polveroni dicendomi che era giusto in quei giorni, condivisibilmente, non alzare polveroni. Bisognava fare quadrato intorno alle forze di Stato. Le foto non me le fece vedere, mi assicurò che in mattinata erano già state spedite a Caltanissetta. Dopo qualche mese - ha concluso il suo racconto Antonio Vassallo - inizia il processo ma le mie foto agli atti del processo non c’erano”.

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