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di AMDuemila
Il pittore e collaboratore di giustizia si racconta a La Sicilia

Consigliate ai vostri uomini di interrompere la strada del crimine e dell'illegalità”. E’ un accorato appello quello che Gaspare Mutolo, ex uomo di Cosa nostra, per un periodo autista del Capo dei capi e oggi collaboratore di giustizia, ha rivolto in un’intervista al quotidiano La Sicilia alle madri, mogli e sorelle dei boss.
Secondo Mutolo “le donne possono fare molto in questo senso, specialmente quelle siciliane”. La sua donna, Maria Santina, Mutolo l’ha persa nell’estate di tre anni fa. “Marò (così la chiamava, ndr) è stata come una guida - ha detto fra le lacrime il pentito - abbiamo passato 51 anni assieme. Santa donna per me ha rinunciato a tutto e ne ha passate di tutti i colori”. Ma la scintilla del ravvedimento umano e spirituale l’ex boss l’ha avuta solo qualche anno fa quando “pian piano a piccoli passi mi sono avvicinato a nostro Dio Signore. In questo percorso - ha continuato - mi ha aiutato Giorgio Bongiovanni che da anni spende energie per la legalità, per la fede, per lottare il male e per distruggere le mafie”. Una realtà in cui il pentito e la sua amata moglie hanno ritrovato loro stessi. “Quando ci trovavamo nella comunità di Bongiovanni mia moglie sembrava come rinata. Sembrava un’altra persona”, ha rammentato. Nel corso dell’intervista Mutolo ha poi lasciato che i ricordi riaffiorassero raccontando un po’ di sè grazie alle domande del giornalista Leone Zingales. “Io a casa non facevo mancare mai nulla. Però si viveva con la preoccupazione dell’arresto. Il carcere stronca i legami famigliari. Per molto tempo, in diversi periodi, sono mancato dalla famiglia. Ed erano coltellate al cuore le parole di mia figlia che - ha rammentato - all’ennesima bambola regalata mi diceva ‘papà, basta, io voglio che tu stia con me con più frequenza’”. Parole che lo hanno fatto riflettere “al tempo che ho perso quando mi allontanavo da casa senza vedere i miei figli”. Ma come ci è finito Mutolo nell’abbraccio letale di Cosa nostra? “Gradino dopo gradino - ha spiegato - come se fosse una scalata. Ero giovane e non mi rendevo conto di quello che facevo. Una volta, tra la fine degli anni ’50 e ’60, ho assistito ad una riunione tra mafiosi nel retrobottega di una officina di via Montesano, nel centro storico di Palermo. Non ci vedevo nulla di male. Per me quelle frequentazioni erano cosa ordinaria. Oggi riconosco di aver sbagliato, di essere stato abbagliato da un falso mito”. Il pentito ha poi chiesto nuovamente “perdono dal profondo del mio cuore” ai parenti delle vittime. “Chiedo alla società - ha aggiunto - di comprendere le mie scelte. Io sono cresciuto in un ambiente dove la criminalità, la delinquenza era una cosa normale. Il salto di qualità, se così lo possiamo definire, era l’ingresso nella mafia. Ma poi mi sono reso conto di aver preso una strada sbagliata, la strada del male. E mi sono pentito di tante scelte. Chiedo alla società di perdonarmi”. A quel pentimento ha contribuito tra le altre cose, anche l’avvicinamento al mondo dell’arte, nato mentre si trovava in cella nel carcere di Sollicciano. “C’era un detenuto, il calabrese Francesco Mungo detto l’Aragonese, che dipingeva davvero bene. Poco dopo ho preso il pennello e la tela. Iniziai a dipingere anch’io”. Oggi infatti Gaspare Mutolo prima di essere un collaboratore di giustizia, uno dei più importanti in Italia, è soprattutto un pittore, un uomo libero rinato grazie alla sua arte. Mutolo ha voluto infine rivolgere un messaggio alle nuove generazioni. “Seguite le regole, rispettate la legge. Le istituzioni vanno rispettate e non bisogna deragliare. Io ringrazio le istituzioni - ha concluso - che dopo la scelta di collaborare con la giustizia, mi hanno aiutato ad intraprendere un nuovo percorso di vita”.

Visita: gasparemutoloarte.it

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