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di Piero Innocenti
Sono ormai quotidiani gli episodi di violenza e di spaccio di stupefacenti che vedono coinvolti nigeriani in molte delle città italiane. Gli ultimi hanno portato all’arresto, a Villa San Giovanni (Reggio Calabria) di un giovane di 21 anni, dimorante a Napoli, mentre si accingeva a prendere il traghetto per Messina con mezzo chilogrammo di marijuana nello zaino.
Nelle stesse ore, ad Ascoli Piceno, la polizia ferroviaria arrestava un nigeriano, anche questo di 21 anni, con un chilogrammo e mezzo sempre in uno zainetto.
Ed ancora un nigeriano, appena ventenne, arrestato dalla polizia a Torino insieme ad altri due stranieri dopo aver ingoiato alcuni involucri termosaldati contenenti stupefacenti mentre a Brescia finivano in carcere due donne e un uomo nigeriani per tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione, la stessa accusa con cui una “madame” veniva arrestata dalla polizia a Parma.
Sono, come noto, questi gli ambiti privilegiati dalla criminalità nigeriana da cui ne ricava consistenti profitti. La presenza, sempre più frequente di “corrieri reclutati tra giovani nigeriani anche di sesso femminile” è stata rilevata anche dagli analisti della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) come si rileva nella ultima relazione presentata in Parlamento a luglio scorso.
Difficile quantificare i proventi illeciti derivanti dalle suddette attività criminali anche se qualche elemento di interesse lo si può ricavare considerando che, nel 2018, le rimesse di denaro dall’Italia verso la Nigeria – come rilevato dalla Banca d’Italia – sono state pari a 74,79 milioni di euro, il doppio di quelle del 2016.
Ora, se consideriamo che il numero dei nigeriani regolarmente soggiornanti nel nostro Paese sono, alla data del 30 giugno scorso, circa 105mila, in prevalenza uomini, di cui circa 14mila, di sesso maschile, titolari di imprese individuali e circa 6mila di imprenditrici, ai quali vanno aggiunti poco più di 16mila per lavoro subordinato e circa 8mila per motivi commerciali e di lavoro autonomo, se ne può dedurre, in via approssimativa, che una fetta delle rimesse in madrepatria suindicate (una media mensile di 6,2milioni di euro) sia di provenienza illecita. Tanto più considerando che la comunità di nigeriani presenti in Italia ha il più basso tasso di occupazione (45,1% in confronto al 59,1% dei non comunitari) ed il più alto tasso di disoccupazione (34,2% contro il 14,9% dei non comunitari), secondo i dati del Rapporto annuale 2018 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Senza contare i sistemi di trasferimento informale di denaro che vengono utilizzati, per esempio quello hawala, basato sulla fiducia o quello che viene indicato come “euro to euro” in uso in Nigeria con cui l’emigrato versa il denaro all’interno dell’esercizio commerciale gestito dalla comunità nigeriana al quale corrisponde un analogo sportello in Nigeria dove la somma viene ritirata in poche ore grazie ad una password che viene comunicata per telefono o con altri sistemi.
Sempre valido, peraltro, il sistema dei corrieri porta denaro. Emblematico il caso di un nigeriano trovato a Chiasso da militari della Guardia di Finanza nel dicembre 2018 e diretto in Svizzera con 32.500 euro in contanti occultati all’interno di una confezione di detersivo.
Resta la consapevolezza che per contrastare efficacemente le attività criminali della mafia nigeriana sia necessario comprendere che questa rappresenta per il nostro Paese “una vera e propria priorità”.
Maphite, una delle “confraternite” più pericolose della criminalità nigeriana in Italia
Anche in questi primi dieci giorni di settembre le forze di polizia, hanno già arrestato, in tutto il territorio nazionale, una cinquantina di nigeriani trafficanti e spacciatori di stupefacenti. Il bilancio, provvisorio, è di oltre 1.600 dall’inizio del 2019 con la prospettiva, stando all’attuale trend, di superare il numero degli arresti (2.144) del 2018 che già aveva registrato un incremento di oltre il 23% rispetto all’anno prima.
In diversi casi si tratta di “cani sciolti” (talvolta anche di richiedenti asilo e di protezione internazionale), in molti casi, tuttavia, si tratta di manovalanza che fa capo a gruppi e organizzazioni criminali di nigeriani che si sono radicate nel nostro paese (ma anche in altri paesi europei). Strutture criminali che, come emerso in molteplici attività di indagine e inchieste giudiziarie, hanno assunto anche le caratteristiche di vere e proprie associazioni mafiose.
E’ il caso di Maphite, acronimo di Maximo Academy Performance Highly Intelectual Empire, confraternita fondata nel 1978 in Nigeria e la cui presenza in ambito nazionale è emersa a Torino, poco più di due anni fa, a seguito di indagini collegate al traffico di stupefacenti e all’immigrazione clandestina soprattutto di donne da destinare alla prostituzione.
Anche nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) presentata al Parlamento dal Ministro dell’Interno a luglio scorso, si da conto di Maphite come “di un nuovo gruppo criminale (...) transnazionale” caratterizzato esclusivamente da una presenza di persone di sesso maschile, fortemente omertoso e con l’uso di un linguaggio volutamente di difficile comprensione, che è stato possibile individuare solo grazie alla collaborazione di un nigeriano che ha deciso di collaborare con la magistratura torinese nell’inchiesta “Athenaeum” conclusa nel settembre 2016. Inchiesta che ha consentito di individuare la presenza di cellule di Maphite in Canada, Regno Unito, Olanda, Germania, Malesia e Ghana ed una presenza, altrettanto inquietante, in “quasi tutti gli Stati europei” e in diverse regioni italiane (complessivamente dodici).
In particolare, come annota la DIA, sono quattro le famiglie del sodalizio mafioso che operano in Italia e cioè la Famiglia Vaticana la cui sede principale è in Emilia Romagna (con influenze in Toscana e Marche), la Famiglia Latino che “controlla” il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, la Famiglia Roma Empire, presente nella Capitale e in altre città del Lazio ma con “attività” anche in Campania, Abruzzo e Calabria e la Famiglia Light House of Sicily operante in Sicilia e Sardegna.
Famiglie, dunque, con regole, strutture gerarchiche, ruoli, cariche interne e riti di affiliazione tipici delle mafie nostrane ma anche più violente (come il rito di affiliazione che prevede prove durissime superate le quali si viene “battezzati” e si entra a far parte del cult con un nuovo “nome”).
Se, a livello nazionale, Maphite ha un capo (il Don nazionale), ogni famiglia ha un suo Don in Council mentre in ogni regione esiste un coordinatore delle attività illecite sulle zone di competenza (Coordinator in Council) che è in contatto diretto con il Don nazionale.
Le attività criminali delle famiglie sono demandate ad apposite Sezioni (Tyrus quella addetta al narcotraffico, Jazibel-Rhaba quella per la prostituzione, Mario Monti, per il movimento di denaro, Canaland per le estorsioni), ognuna diretta da una persona nominata dal Don e sette collaboratori che restano in carica di norma per un biennio.
Gli affari vanno a gonfie vele e qualche preoccupazione in più dovrebbe averla anche la nostra classe politica dirigente se la criminalità nigeriana è arrivata persino a “impressionare i mafiosi italiani” come ha sottolineato la DIA.

Tratto da: liberainformazione.org