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di AMDuemila
La sentenza del processo bis è prevista per il prossimo 26 novembre

Tre degli indagati nell’inchiesta sul depistaggio, dove sono stati rinviati a giudizio otto Carabinieri, riguardo la morte di Stefano Cucchi. Il provvedimento, firmato dal Gip di Roma, Elvira Tamburelli, riguarda l’avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano, cugino di uno dei Carabinieri per i quali è stato richiesto il rinvio a giudizio, il capitano Nico Blanco e il maresciallo Roberto Mandolini, imputato nel processo bis per le accuse di calunnia e falso. La vicenda è venuta alla luce durante l’udienza del processo di oggi che si è svolta davanti alla Corte d’Assise di Roma, dove sono finiti alla sbarra con l’accusa di omicidio preterintenzionale Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernando e Francesco Tedesco, accusati di aver pestato il geometra romano dopo l’arresto per droga avvenuto il 15 ottobre 2009. Dopo una settimana, Cucchi morì nell’ospedale Pertini di Roma. Uno degli imputati, Francesco Tedesco, solo dopo nove anni ha rivelato il pestaggio nei confronti del geometra romano, Stefano Cucchi, da parte dei due suoi colleghi Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo, imputati come lui di omicidio preterintenzionale.
Per la prima volta oltre alla famiglia Cucchi nel processo sul depistaggio si sono presentati parte civile anche l’Arma dei Carabinieri, il ministero della Difesa e dell’Interno.
Quella di oggi è stata un udienza rapida in cui è stato sentito solo un testimone della difesa poi si è passati al completamento del calendario delle udienze: il 26 novembre potrebbe arrivare la sentenza del processo, mentre il 19 luglio ci sarà la requisitoria del pm Giovanni Musarò.
In aula il teste, il maresciallo capo dei Carabinieri, Piero Rosati, ha parlato del suo rapporto con D’Alessandro: “Posso dire che è un carabiniere che ha sempre manifestato una validità operativa sopra la norma. A livello operativo era molto capace. Insieme con lui e con Francesco Tedesco abbiamo fatto credo più di 100 arresti; in nessuno di questi è mai successo qualcosa. Nella Stazione Appia dove lavoravamo si facevano grandi numeri, ma il motto era ‘fa più male la penna che uno schiaffo'”.

Foto © Imagoeconomica

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