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di AMDuemila
Il clan dei Casamonica, una delle famiglie criminali più influenti di Roma, con più di mille affiliati ed un patrimonio stimato di 90 milioni di euro, è considerato “un’associazione mafiosa”. Lo scrive nero su bianco la terza sezione penale della Cassazione in una sentenza depositata stamani, dichiarando inammissibili i ricorsi di 18 indagati, alcuni dei quali appartenenti al clan in questione e altri della famiglia Spada, contro l’ordinanza del Riesame di Roma che a luglio aveva confermato le misure cautelari in carcere disposte dal gip per associazione mafiosa e associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. “Con specifico riferimento all’associazione di cui all’articolo 416 bis - si legge nel documento della Cassazione - il tribunale ha ricostruito la sussistenza del sodalizio vagliando attentamente i plurimi elementi indiziari costituiti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dagli interrogatori resi dalle presunte persone offese dell’associazione e dalle molteplici conversazioni intercettate nel corso delle indagini”. E poi “tali elementi sono idonei a dimostrare non solo la sussistenza dell’associazione di stampo mafioso, ma anche la partecipazione dei singoli indagati al sodalizio medesimo”. Un’organizzazione mafiosa a tutti gli effetti, dunque, con vertici, ruoli e funzioni ben definiti, come ha ricordato la Suprema Corte, “i collaboratori” hanno "concordemente ricostruito l'organizzazione del sodalizio criminoso e hanno identificato i ruoli svolti all'interno dello stesso da ciascun componente, segnalando talvolta lo svolgimento di una mansione specifica e immutata (si pensi a Casamonica Giuseppe, vertice del sodalizio), talaltra l'interscambiabilità delle funzioni svolte dai singoli sodali (riscossione del denaro, utilizzo di metodi intimidatori, contatti con le persone offese dai reati-fine, ingresso nella base logistica del clan)". Ricostruzioni, quelle dei collaboratori di giustizia e delle vittime degli affiliati al clan capitolino, che "sono state ampiamente riscontrate da plurimi atti di indagine", soprattutto da "svariate intercettazioni telefoniche”, sottolineano i giudici. Da questi elementi "emerge chiaramente che tutti gli indagati erano parte di un nucleo associativo familiare fortemente radicato nel territorio romano e ben noto alla popolazione - conclude la Corte - godevano di una base logistica comune all'interno della quale tenevano le armi e la sostanza stupefacente e nei pressi della quale le varie persone offese erano state convocate da diversi membri dell'associazione, disponevano di una cassa comune, svolgevano la propria attività con metodo fortemente intimidatorio, ponevano in essere condotte di aiuto e di reciproca sostituzione e recuperavano le somme di denaro conseguenti al reato di estorsione o di traffico di sostanze stupefacenti nell'interesse del sodalizio".

Foto © Imagoeconomica