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borrometi paolo un morto ogni tanto c imagoeconomicadi Karim El Sadi
Presentato il libro del giornalista, "Un morto ogni tanto"
"Quel giorno fu drammatico perché mi resi conto che a 35 anni poteva finire la mia vita, ero distrutto alla lettura di quelle intercettazioni. Sono vivo perché lo Stato ha funzionato e va ringraziato quando magistrati fanno il proprio dovere, quando le forze dell'ordine riescono a salvare non solo la mia vita ma anche quella dei miei ragazzi della scorta". Ha ricordato così Paolo Borrometi quel giorno di aprile di qualche mese fa quando venne a sapere di un ordine di omicidio nei suoi confronti. Il direttore della testata giornalistica online La Spia è intervenuto lunedì scorso presso un affollato palazzetto dello sport di Jesi in occasione della presentazione del proprio libro "Un morto ogni tanto". Ad accompagnarlo Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo e fondatore del Movimento Agende Rosse. Moderatrice dell'incontro la coordinatrice del gruppo Agende Rosse Dalla Chiesa e Setti Carraro di Ancona e Provincia, Alessandra Antonelli. "Un morto ogni tanto" è un libro "in parte autobiografico" che allo stesso tempo vuole raccontare "uno spaccato con nomi e cognomi". Ed è per questo motivo, raccontare e denunciare la mafia facendo i nomi, che la mattina del 10 aprile passato Borrometi è stato raggiunto da una chiamata del commissario di polizia di Pachino il quale lo avvisò di un'ordinanza di custodia cautelare dove si parlava anche di lui. "Succederà l'inferno...Picca n'avi". (Poco gli resta). "Quindici giorni, via, mattanza per tutti e se ne vanno..Scendono, scendono, scendono una decina... cinque, sei catanesi, macchine rubate, una casa in campagna, uno qua, uno qua... la sera appena si fanno trovare, escono". Dicevano così i catanesi intercettati del clan Cappello. In ballo c'era un attentato con autobomba per il giornalista. "Un attentato curato nei minimi dettagli" ha rammentato Borrometi. "Una macchina già rubata, una casa presa in affitto che doveva servire come base d'appogio e dei killer che dovevano venire qualche settimana dopo che la polizia scoprì quelle intercettazioni per mettere l'automobile sotto casa mia”. Quell’omicidio doveva essere “consumato” a seguito di un'accurata inchiesta giornalistica di Paolo Borrometi che riguardava una società di pomodori di Pachino dell'omonima cittadina. Emerse che a capo della società vi era il nome del boss di Pachino Salvatore Giuliano. Il boss "uscendo dalle patrie galere aveva, creato una societa che è divetata la più importante del consorzio IGP sul pomodoro di Pachino. Ho iniziato a scrivere questa notizia e l'ho pubblicata". Società, quella del boss, che era stata intestata al figlio e al figlio del suo braccio destro. I boss di Pachino avevano chiaro come fermare il giornalista. Giuseppe Vizzini fedelissimo di Salvatore Giuliano, venne intercettato mentre colloquiava con il figlio Simone: "Così, si dovrebbe fare". Diceva il figlio al padre: "Lo sai che ti dico? Ogni tanto un murticeddu (un morto ndr) vedi che serve... per dare una calmata a tutti. Un murticeddu, c'è bisogno, così si darebbero una calmata tutti gli sbarbatelli". "Un morto ogni tanto", appunto, frase che ha dato il titolo al libro e che venne anticipata da un'ulteriore dichiarazione ancor più grave che alludeva agli anni bui delle stragi nel continente "Bum, a terra. Devi colpire a questo, bum, a terra. E qua c'è un ioufocu (un fuoco d'artificio - ndr). Come era negli anni '90, in cui non si poteva camminare neanche a piedi". "24 h dopo la mia inchiesta giornalistica quella società non faceva più parte del consorzio I.G.P di Pachino. Quindi - ha spiegato Borrometi - ognuno di noi andando al supermercato non poteva più acquistare il prodotto del capo mafia". I boss persero milioni di euro grazie all'inchiesta del giornalista ragusano e lo dichiararono con "strafottenza" ai magistrati "si volevamo ucciderlo perché non solo ha parlato di noi quando nessuno parlava di noi e poi perché con quella inchiesta ci ha fatto perdere milioni di euro di ordini che avevamo da tutto il mondo". "Quel giorno ho fatto il mio dovere per non farvi finanziare le mafie - ha detto rivolgendosi al pubblico Paolo Borrometi - ecco perché però io sono assolutamente convinto che nonostante quella paura ne sia valsa veramente la pena". Il giornalista sotto scorta da 4 anni ha rivendicato senza vergogna "la possiblità di avere paura" perché "in questo paese strano, dove tutto viene ribaltato è assurdo che si debba avere vergogna anche ad avere paura". "Lo dico con forza e tristezza - ha concluso - e voglio dire di non essere un eroe, io non ho coraggio io voglio fare semplicemente il mio dovere che è quello di raccontare".

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Il ruolo del giornalista in Sicilia e in quella Ragusa "Babba"

Borrometi ha poi parlato del ruolo dell’informazione partendo dalla sua passione per il giornalismo, nata sin da quando era bambino grazie all’esempio del padre e di Giovanni Spampinato, uno dei 9 giornalisti uccisi dalla mafia per "aver fatto il proprio dovere - ovvero - raccontare dei rapporti tra mafia e politica". Spampinato è nato ed è morto a Ragusa. Una città che ha visto nascere e crescere lo stesso Paolo Borrometi il quale nel tempo ha descritto la sua cittadina come città "babba" (stupida in siciliano, ndr). "Parlare di Giovanni Spampinato vuole dire parlare di un giornalista ucciso dalla mafia - ha detto Borrometi - quindi se un giornalista viene ucciso dalla mafia vuol dire che anche in quella terra, che è la più ricca della Sicilia che è Ragusa, la mafia esiste. E fa un po a pugni con chi ad esempio ha buttato fuori me da un giornale che si chiama La Sicilia dicendomi che la mafia in quella provincia non ci fosse". L'autore del libro ha fatto riferimento al direttore del giornale Mario Ciancio San Filippo rinviato a giudizio per concorso esterno in associzazione mafiosa" il suo patrimonio, fra cui il suo giornale, è sequestrato per mafia” ha sottolineato il giornalista. Borrometi ha tenuto ad evidenziare l'importanza del ruolo del giornalista soprattutto in una terra "strana e difficile" come la Sicilia. Il giornalista ha "il compito fondamentale che è quello di parlare con la gente e scrivere alcuni fatti". Lo deve fare "perché un giornalista che non scrive ha la grande responsabilità di non avere informato il popolo. Un popolo non informato è un popolo che non puo scegliere da che parte stare" - ha ribadito. "Ci sono giornalisti in questo paese che hanno sbagliato" ha ricordato per dovere di cronaca l'autore di "Un morto ogni tanto", riferendosi alla recente sentenza del processo Aemilia. Giornalisti che sono stati condannati a 9 anni di pena "perché erano strumenti della mafia e noi abbiamo il dovere di denunciare questi soggetti facendo bene il nostro dovere". Sono numerose le inchieste giornalistiche del Direttore de La Spia che hanno avuto dei risvolti in ordine giudiziario, alcune di queste, ad esempio, hanno portato allo scioglimento di 2 comuni siciliani per mafia e numerosi arresti. "A Scicli, comune dove si è negata la presenza mafiosa, nonostante quel comune fosse sciolto per mafia, il capo mafia Franco Mormina condannato a 11 anni e sei mesi di reclusione dopo appena 3 anni, è uscito dal carcere perché giudicato incompatibile con le condizioni carcerarie per ipertensione". Una decisione "assurda" ha commentato il giornalista. "Questo capo mafia che ora ha solo la libertà vigilata - ha ricordato Borrometi - pochi giorni fa ha appena inaugurato il più grande centro scommesse della città. C'è voluto ancora Paolo Borrometi per raccontare uno scempio che era sotto gli occhi di tutti, in quella provincia non ha scritto nessuno una riga" ha sentenziato. Proprio martedì il centro scommesse di Scicli "inaugurato dal boss con tanto di foto su Facebook" è stato chiuso dai Carabinieri della Compagnia di Modica.

Minacce e aggressioni
A causa delle sue inchieste con documenti alla mano Borrometi è stato più volte vittima di aggressioni verbali e fisiche. L'ultima risale al 2014 ed è seguito da un episodio ancor più grave che ha riguardato non solo lui ma l'intera famiglia. "Nella notte tra il 22 e il 23 agosto di quattro anni fa quando ero ancora in convalescenza con la spalla fracassata (dopo la prima aggressione fisica,ndr) tentarono di dare fuoco a casa mia all'interno della quale c'erano mio padre e mia madre". Ha raccontato con emozione al pubblico di Jesi. Secondo le indagini i malviventi giunti intorno alle 3 di notte appiccarono il fuoco alla porta di casa utilizzando un quantitativo di benzina tale da permettere alle fiamme di raggiungere il nono piano dell'edificio."Ci salvammo solo perché quella porta oltre ad essere blindata scoprimmo fosse anche ignifuga. Il giorno dopo mi misero subito sotto scorta", ha ricordato. Questo ha rappresentato il secondo punto di snodo della vita del giornalista che ha ammesso "avevo paura di fare il mio dovere non solo per me ma anche per la mia famiglia". Borrometi ha continuato il racconto delle esperienze e delle minacce ricevute nel corso degli anni.

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I lampi nel buio di Salvatore Borsellino

Successivamente ad intervenire è stato Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via d’Amelio il 19 luglio 1992. Nel 2008 aveva scritto una lettera dal titolo “Lampi nel buio”. Lampi che, in senso figurativo, rappresentavano quei momenti di mistero che si celavano dietro gli episodi accaduti a Paolo Borsellino e alla sua scorta i giorni precedenti e seguenti alla strage. In quella missiva Borsellino evidenziava l’esistenza di una “regia che faceva sì che la verità non venisse fuori perché evidentemente avevano paura”. E proprio i numerosi episodi ambigui portarono la moglie di Borsellino, Agnese, ad esprimersi con toni amari, appena pochi giorni dopo la morte di Paolo: “La verità non verrà mai fuori perché sennò dovrebbe saltare in aria mezzo Paese”. "E allora che salti questo mezzo paese se questa è l'Italia" ha detto con forza davanti al pubblico attonito Salvatore Borsellino. Nella sua missiva il leader delle Agende Rosse ammetteva di sperare in “una serie continua di lampi” in modo da poter far luce su quegli enigmi che si celavano dietro gli anni bui del periodo stragista. E quel momento sembra, almeno in parte, arrivato. "Finalmente sono ben altri i lampi nel buio perché la trattativa c'è stata e finalmente sono state emanate delle condanne verso persone che fanno parte dello Stato, uno Stato deviato. - ha affermato Salvatore Borsellino - Perché lo Stato per me è un altro e porta il nome di Agostino, Vincenzo, Claudio, Eddie Walter ed Emanuela. Loro sono lo Stato. Quelle persone, quei ragazzi che hanno sacrificato la propria vita e i loro sogni per difendere la vita del loro giudice e grazie a tutti coloro che abbiamo sostenuto siamo arrivati alle sentenza di Palermo". Anche Paolo Borrometi ha commentato la sentenza dello scorso aprile al processo Trattativa Stato-mafia. "Questo è un paese che deve ammettere che c'è stato chi infedelmente portando addosso in maniera vergognosa una divisa ha trattato con la mafia". E sul recente video del colonnello Mario Mori intervistato da Irpinia News ha aggiunto "Ho visto l'intervista di un generale dei carabinieri condannato in primo grado nel processo Stato-mafia, questo signore il generale Mario Mori è andato in una scuola e parlando a margine con alcuni colleghi che gli chiedevano le sue reazioni (alla condanna, ndr) ha detto di godere di ottima salute e di voler vivere a lungo per vedere morire i suoi nemici. Non so chi sono i suoi nemici, - ha concluso - se i suoi nemici sono mafiosi dico che comunque la morte non si augura a nessuno, ma se i suoi nemici, come ha fatto riferimento in una domanda precedente, fossero i pm del processo trattativa io penso sia ulteriormente vergognoso che si possa augurare la morte a qualcuno semplicemente perché ha fatto il proprio dovere. Mi spiace che per quel dovere ha fatto condannare un generale dei carabinieri - ha detto - e mi spiace perché ci sono uomini e donne che invece per servire quella divisa sono morti". Salvatore Borsellino ha anche ricordato le motivazioni della sentenza dei giudici di Caltanissetta sul processo "Borsellino Quater”, in cui la strage costata la vita al fratello viene definita "il più grande depistaggio della storia". "Il processo di Caltanissetta è incredibile. - ha affermato Borsellino - Vi è stato un depistaggio durato nell'arco di ben due processi che ha portato ad accettare quello che veniva messo nella bocca di un balordo di quartiere, un falso pentito: Vincenzo Scarantino. Scarantino che nel Borsellino Quater si è trovato nuovamente imputato di calunnia proprio per quelle dichiarazioni che gli furono imposte. Il processo di Caltanissetta è importante perché dice che c'è stato un depistaggio di Stato così come di Stato sono state le stragi di Capaci e di via d'Amelio soprattutto". E sul nuovo processo istituito proprio per fare chiarezza "su quei poliziotti che hanno indottrinato e vestito il pupo, Scarantino" ha detto: "Vorrei vedere ben altri imputati in quel processo non i poliziotti che hanno fatto il lavoro sporco, ci sono ben altre persone che vorrei vedere in quel processo, persone che oggi forse purtroppo sono nei gradi più alti delle istituzioni del nostro paese".

Foto © Imagoeconomica

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