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genchi gioacchino c imagoeconomica 0di AMDuemila
La deposizione dell'ex funzionario di polizia in Commissione regionale antimafia

“Ormai è fatta, due più due fa quattro. La strage non può che essere responsabilità di Cosa nostra. Noi qui dobbiamo trovare qualche elemento minimale, addebitiamo tutto alla Cupola. Così poi io divento questore, tu vieni promosso per meriti straordinari e poi tra 3 o 4 anni diventi questore pure tu”. Così l'ex funzionario di polizia, Gioacchino Genchi, audito in commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, presieduta da Claudio Fava, ha raccontato lo scorso 17 ottobre il dialogo avuto con l'allora Capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002, ndr), al tempo delle indagini sulla strage di via d'Amelio. "In quei giorni erano uscite le motivazioni del maxiprocesso - ha ricordato Genchi - l'avevano letta e senza di me avevano chiuso le indagini". Il riferimento è proprio a La Barbera ed i suoi fedelissimi, membri del gruppo Falcone Borsellino che Genchi chiama "il sinedrio".
Alcuni appartenenti di quel gruppo, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, sono finiti sotto processo a Caltanissetta e devono rispondere all'accusa di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra.
In base al racconto di Genchi, La Barbera aveva deciso di risolvere l'inchiesta sulla strage di via d'Amelio, individuando Scarantino e addebitando tutto sulla Cupola di Cosa nostra, la cui esistenza era stata certificata proprio nella sentenza del maxi processo. Le responsabilità di La Barbera in quello che i giudici del processo Borsellino Quater hanno descritto come "il depistaggio più grande della storia italiana" sarebbero evidenti al punto che l'ex Questore viene descritto come il regista della "costruzione delle false collaborazioni” da cui si svilupparono inchieste e processi.
Anche Genchi faceva parte del Gruppo Falcone-Borsellino ma ad un certo punto lasciò lo stesso in maniera polemica, così come aveva raccontato al Borsellino quater. Quindi ha riferito della lunga discussione avuta con La Barbera la notte tra il 4 e il 5 maggio 1993: "Dalle 19 fino alle 5 e 45 del mattino. Non siamo andati neanche a cena. Alla fine sono uscito sbattendo la porta mentre La Barbera piangeva”. Sul tavolo c'era in particolare l’arresto di Pietro Scotto, che si trovava al centro di un'attività investigativa, e le confessioni di due personaggi improbabili come Candura e Scarantino. Quest'ultimo, "il pupo vestito", è il soggetto che poi si autoaccusò del furto dell'auto utilizzata per la strage di via d'Amelio. Su di lui si stavano concentrando le attenzioni del gruppo investigativo da qualche tempo ed oggi ci si chiede che tipo di impulso può aver dato la nota del Sisde del 10 ottobre del 1992 in cui si parla di Scarantino tracciandone la radiografia criminale, tra precedenti penali e rapporti di parentela con esponenti delle famiglie mafiose. E' emerso, nel corso del Borsellino quater, che il Procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, aveva chiesto un contributo alle indagini proprio a Bruno Contrada, alla guida del Sisde siciliano. Che sia stata proprio quella nota "l'elemento minimale" di cui parlava La Barbera con Genchi? Il nuovo processo potrà offrire nuovi elementi anche su questo versante. Secondo l'ex funzionario di polizia, comunque, il depistaggio non fu creato solo per chiudere le indagini: "Hanno individuato falsi colpevoli - ha detto di fronte all’Antimafia - non per fare carriera o chiudere le indagini, ma per evitare di incastrare i veri autori della strage di via D’Amelio. I veri mandanti”. Ventisei anni dopo la strage parte della verità sull'attentato è stata riscritta ma grandi misteri restano aperti in particolare sulla ricerca dei mandanti esterni della strage di Borsellino. Un progetto di attentato che subì una violenta accelerazione, certificata nelle sentenze, e che trovò il suo compimento appena 57 giorni dopo Capaci.

Foto © Imagoeconomica