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4di Stefania Limiti e Antonella Beccaria - Foto
L'ultimo saluto ad una madre coraggio che se ne è andata senza la verità

Gli amici più stretti, addolorati, i vertici della Federazione nazionale della stampa, dirigenti e giornalisti Rai - non la presidente Monica Maggioni (pare che dove c’è il Dg Orfeo non ci sia lei) - si sono ritrovati a Roma nella chiesa di Santa Chiara per l’ultimo saluto a Luciana Alpi, mamma di Ilaria, la giornalista uccisa in Somalia il 20 marzo 1994, insieme al suo operatore Miran Hrovatin.
Non c’era lo Stato, a quel funerale, come avrebbe dovuto. Perché Luciana, madre coraggiosa e testimone di una battaglia di verità, meritava il rispetto e il tributo dello Stato e invece se ne è andata perdendo la sua battaglia, stremata dalla fatica, come l'abbiamo persa tutti noi che teniamo al senso della democrazia.
Già, perché il suo impegno e quello di suo marito Giorgio, scomparso nel 2010, non è stato onorato dalla chiusura definitiva del caso. "Volevano darmi un colpevole", diceva Luciana a proposito del somalo Hashi Omar Hassan, accusato e poi dichiarato innocente dopo 17 anni di carcere, "ma io non volevo un colpevole, volevo la verità", spiegando così gli oltre vent’anni di indagini sballate, sufficienti a creare quella distanza minima per allontanare la possibilità di ricostruire i fatti in modo certo e inchiodare i veri responsabili.
Luciana Alpi, dell'innocenza di Hassan, era convinta da sempre tanto che, quando arrivò la condanna per il somalo poi confermata in Cassazione, al telefono ripeteva ai giornalisti una frase: "Povero figlio". Un’espressione curiosa, se si pensa che era rivolta a colui che era ritenuto l'assassino della sua figlia. Questa madre coraggio, come già accaduto a Carla Verbano, madre di Valerio, ucciso a Roma il 22 settembre 1980 senza che i suoi assassini abbiano mai avuto un nome, si è battuta come una leonessa fino all'ultimo. Ma tanti sono stati i colpi che ha dovuto incassare. L’ultimo era stato la richiesta di archiviazione della procura di Roma per le nuove indagini basate sulle intercettazioni giunte da Firenze nell'aprile scorso e dichiarate due mesi dopo sostanzialmente irrilevanti.


Conversazioni trasmesse a piazzale Clodio, ma che risalgono al 2012, nelle quali due cittadini somali residenti in Italia parlavano del caso Alpi e affermavano: "L'hanno uccisa gli italiani". Sei anni di ritardo per un caso che porta con sé i misteri dei traffici di armi e di rifiuti italiani, coperti dal grande calderone della cooperazione. Un caso che non va chiuso, dunque, ma che rischia oggi, con la dipartita di Luciana Alpi, di essere inabissato tra i buchi neri del nostro Paese.
Quel poco di giustizia che le vittime sono riuscite ad avere - quelle delle stragi della strategia della tensione, delle bombe del 1992-1993, ma anche di vicende come quella di Graziella Campagna - è dovuto all'indomita lotta dei parenti rimasti e di chi è stato al loro fianco. Si pensi a storie come quella dell'esperto di guerra elettronica Davide Cervia, sparito nel nulla nel 1990, o del medico Attilio Manca, morto nel 2004. Senza le madri, i padri, i fratelli, le mogli, non sarebbero oggi nient'altro che, in un caso, una fuga volontaria per dissapori coniugali e, nell'altro, il fatale risultato di una dose troppo massiccia di eroina. Invece tutto fa pensare che dietro a queste storie ci siano pezzi dello Stato o mafie fin troppo protette.
Luciana Alpi l'aveva detto. "Morirò senza sapere cos'è accaduto a Ilaria e a Miran". E così è stato. Ma non lasciamo, oggi, che il caso Alpi cada nel comodo cestone dei segreti di Stato. Perché se Luciana è morta, killer e mandanti dell'omicidio di Mogadiscio, forse, sono ancora vivi, almeno alcuni sono in Italia e finché anche uno solo rimarrà in vita c'è la possibilità che le indagini vengano riaperte.
Licia Pinelli, la moglie dell'anarchico "volato" da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la strage di Piazza Fontana mentre era in stato di fermo illegale, ha scritto: "Sì, sapere come sono andate le cose è fare giustizia". Per questo l'eredità di Luciana Alpi deve farsi collettiva e la storia di Ilaria e Miran non deve chiudersi qui. Come probabilmente ancora oggi qualcuno vorrebbe.

Foto © Stefania Limiti

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