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alpi ilaria da ilariaapliitdi Fabrizio Feo
Sei mesi per avere un’udienza, che però non è mai arrivata. E, come mi aspettavo, qualcuno ha avuto il coraggio di dire: “che volete che siano altri 3 mesi …se sono passati 24 anni…". Lo slittamento al 17 aprile del procedimento davanti al gip che il 23 gennaio avrebbe dovuto decidere il destino delle inchieste sull’uccisione dell’inviata del tg3 Ilaria Alpi e del tele cineoperatore Miran Hrovatin, assassinati il 20 marzo del 1994 in Somalia a Mogadiscio, viene spiegato con un problema - per così dire - tecnico.
Mancava un giudice, così l’udienza è stata fissata nuovamente. Ed è trascorso un altro anno.
Allora affido queste righe, questo tentativo di fare il punto della situazione, necessariamente sommario, a Libera Informazione che ha seguito questa battaglia, da quando Roberto Morrione e don Luigi Ciotti la fecero nascere, e che è stata al fianco del Tg3 quando abbiamo deciso di ricordare ogni giorno, minuto per minuto, che ci accingiamo a navigare verso la soglia dei 25 anni senza verità.
Quando, finalmente, il procedimento arriverà in un’aula, il gip dovrà valutare la richiesta della Procura della Repubblica di Roma di archiviare le indagini sull’agguato ai nostri colleghi e su molti episodi da chiarire che hanno costellato oltre venti anni di indagini. Ma dovrà anche esaminare l’opposizione all’archiviazione presentata dai legali di Luciana Alpi, la mamma di Ilaria. I legali della famiglia Alpi - gli avvocati Giovanni e Domenico D’Amati e l’avvocato ed ex magistrato Carlo Palermo - chiedono che non venga chiusa l’indagine sul delitto e che vengano svolti accertamenti per il reato di depistaggio. E chiedono anche che sia la Procura di Perugia a compierli. Insomma, vogliono che finalmente si apra un nuovo capitolo nella ricerca della verità. È una richiesta non solo legittima ma anche fondata. Si basa su elementi precisi, molti dei quali sono emersi negli ultimi 2 anni, e sono scritti in modo indelebile nei verbali e nella sentenza del processo di revisione celebrato in Corte d’Appello Perugia. Il processo che ha assolto l’unico imputato rimasto in carcere da innocente per 16 lunghi anni.
Ora si tratta di cercare non solo la verità su quello che è accaduto a Mogadiscio - che potrebbe essere stato deciso in Italia. Si deve anche levare la maschera a chi ha lavorato, praticamente alla luce del sole, perché il delitto Alpi - Hrovatin rimanesse un delitto senza colpevoli.
E poi ci sono i misteri: rileggendola tutta, questa storia, ti accorgi che ad ogni anno che passa ne spunta un altro, o più di uno. Dalle inchieste fin qui svolte (costellate di episodi che sono apparsi incredibili, paradossali, anche alla Procura Generale e alla Corte d’Appello di Perugia) e dai lavori della Commissione Parlamentare sul caso Alpi Hrovatin - rimasta divisa fino alla fine- sono venuti fuori nuovi enigmi, o altre pagine indecifrabili. E c’è il capitolo dei molti silenzi: di tanti che avrebbero dovuto raccontare il prima e il dopo di quella missione in Somalia. Silenzi che spesso non ti aspettavi, e che hanno poi avuto il contraltare delle menzogne e delle rabbiose invettive a mezzo stampa, blog e querele di chi pretenderebbe che ci si rassegni a rimanere senza la verità.
Pensate: per anni la domanda di verità dei genitori di Ilaria, l’impegno di chi in qualche modo cercava di capire, sono stati liquidati nel migliore dei casi come “campagne mediatiche”. Per non parlare delle affermazioni offensive. Sono tanti i fatti che dicono: “Ilaria stava facendo un lavoro che qualcuno individuava come un pericolo, e non le hanno permesso di proseguirlo”. E non glielo hanno impedito con una querela, con minacce o un pestaggio, ma a colpi di kalashnikov. Lo ha spiegato con semplicità in aula il sostituto Procuratore Generale di Perugia: certo Ilaria non è morta, insieme a Miran, nel corso di un tentativo di sequestro o di rapina. Era andata a fare domande li dove era - e per certi versi è ancora - il crocevia di molti, troppi, affari (traffici di rifiuti, armi, cooperazione) e di personaggi che hanno attraversato molte storie oscure che hanno coinvolto, e a quanto pare coinvolgono ancora , pezzi delle istituzioni del nostro Paese.
E comunque se chi non si rassegna è un “visionario”, un “dietrologo”, qualcuno dovrebbe spiegare perché ben due Commissioni di Inchiesta parlamentare sul ciclo illegale dei rifiuti e le ecomafie, con due presidenze di diverso e opposto segno politico, hanno detto che questo caso non è chiuso e non è da chiudere. Quelle due Commissioni hanno prodotto atti e attività di indagine importanti e hanno ricordato che Ilaria non era in Somalia per caso, ma stava lavorando su quei traffici e i commerci di armi.
Inoltre qualcuno dovrebbe chiarire per quale incredibile coincidenza i nomi di personaggi ambigui, o di militari italiani impegnati in operazioni speciali in Africa, e diverse tracce non trascurabili che portano al caso Alpi Hrovatin, compaiono anche nel caso dell’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, ucciso a Trapani nel 1988. Rostagno tra i suoi molti “file” ne aveva uno sul traffico di armi. Nessuno azzarda che le due vicende siano direttamente collegate, ma qualcosa vorrà significare…
Peraltro sul versante del traffico di armi con la Somalia si sofferma ampiamente l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione presentato al Gip dai legali di Luciana Alpi. Un documento che cita atti di indagine (in qualche caso frutto del lavoro dello stesso avvocato Carlo Palermo, ai tempi in cui era giudice istruttore a Trento), oltre che elementi raccolti dalla pattuglia di giornalisti che si è occupata sul serio dell’agguato a Ilaria e Miran (tra gli altri Maurizio Torrealta, che tornò in Somalia, e poi Roberto Scardova, che lavoravano al Tg3).
E ancora: è utile leggere gli atti del processo per gli attentati compiuti nel ‘93 in Calabria contro i carabinieri, l’inchiesta sulla cosiddetta “Ndrangheta stragista”. La ndrangheta, secondo l’accusa, aderì alla richiesta di Cosa Nostra di mettere in moto un’azione eversiva contro lo Stato, in vista di un nuovo ordine politico e di un progetto separatista - in un periodo convulso e drammatico della storia italiana, quello di tangentopoli, degli omicidi e delle stragi in continente. Leggendo quegli atti ci si imbatte in nomi che suonano familiari. Si dirà: cosa c’entra? Guai a lanciarsi in teorizzazioni ardite e non ancorate solidamente ai fatti. Ma c’è un dato quanto meno curioso.
L’inchiesta reggina allega atti che servono a spiegare in quale contesto storico, politico e criminale matura l’accordo stragista Ndrangheta-Cosa Nostra: e da quegli atti saltano fuori nomi che poi sono comparsi e hanno avuto un ruolo tutt’altro che marginale, e spesso non chiaro, nelle inchieste e nelle indagini parlamentari che si sono occupate direttamente o indirettamente dell’agguato mortale contro Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Insomma, un calderone nauseabondo - fatto di interessi inconfessabili - che da quasi 24 anni incrocia continuamente le indagini  sull’agguato di Mogadiscio. Indagini che hanno camminato su una strada piena di ostacoli, cortine fumogene e carte false. E se è vero che esistono una verità  giudiziaria ed una storica, non si può ripiegare sulla seconda - peraltro ancora solo intuibile -, accettare di accontentarsi, quando quella giudiziaria non è stata cercata compiutamente, o è stata negata. E al Tg3 c’è chi non ha nessuna intenzione di arrendersi. Ilaria non lo avrebbe fatto.

Tratto da: liberainformazione.org

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