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il bandito della guerra fredda imagedi Pietro Orsatti
Da quando è uscito il mio ultimo libro “Il bandito della Guerra fredda” (Imprimatur editore 2017) mi sono trovato più volte a scontrarmi con l’immaginario romantico e totalmente falso sulla figura di Salvatore Giuliano. Il bandito sociale, il Robin Hood siciliano, senza macchia e senza paura e temerario anche nelle sue avventure sentimentali. Un mito persistente quanto quello del “separatismo buono” che se è mai esistito è morto con Antonio Canepa (sulla figura di questi sarebbe necessario realmente scavare sia sulla sua incredibile vita che sulla sua misteriosa morte). Non entro nella polemica su quali poteri e interessi anche sovranazionali e neofascisti si celassero all’interno del movimento separatista siciliano, ma basta analizzare con chiarezza la traettoria di Salvatore Giuliano dal 1943 fino alla vigilia della strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, per renderci conto dell’inconsistenza di questo mito.

Rivediamo, cronologicamente, come nasce il fenomeno Giuliano. Il 2 settembre 1943 il bandito uccide il carabiniere Antonio Mancino, dopo essere stato sorpreso con due sacchi di grano rubato, destinati probabilmente alla borsa nera, nelle campagne di San Giuseppe Jato. Il 10 novembre la banda è già operativa, e infatti assalta la polveriera di San Nicola a Montelepre, provocando 18 morti, e alla vigilia di Natale uccide un altro carabiniere, Aristide Gualtieri. Il 30 e il 31 gennaio 1944 organizza l’evasione dalle carceri di Monreale di numerosi detenuti, alcuni dei quali potenzieranno il suo gruppo che, in pochi mesi, crebbe a vista d’occhio. Poche settimane dopo è latitante a Taranto. Vi arriva probabilmente grazie all’aiuto dell’organizzazione clandestina stay behind “Guardia ai Labari”, istituita da Mussolini e già operativa prima del 25 luglio, comandata nel Sud Italia dal nobile fascista Valerio Pignatelli

A Taranto Turiddu Giuliano si arruola nei reparti della X Mas che non hanno aderito alla Rsi (al comando del reparto di NP, Nuotatori Paracadutisti, era infatti il capitano statunitense Kelly O’Neill). Sarebbe stato lo stesso Pignatelli a inviarlo nel porto pugliese per spiare le mosse sia degli Alleati che delle forze badogliane. A marzo ’44 giungono a Taranto Rodolfo Ceccacci e Aldo Bertucci, appartenenti ai corpi speciali di incursori rimasti legati a Junio Valerio Borghese, che intanto ha aderito a Salò. I due si fingono disertori repubblichini, mentre in realtà sono arrivati nella città pugliese come spie per studiare le mosse dei reparti dei loro ex commilitoni; e infatti nell’aprile dello stesso anno “disertano” nuovamente e fuggono, e Giuliano è con loro. I tre varcano la linea Gustav e raggiungono Penne, nelle Marche, dove è operativa una base della X Mas fedele a Borghese.il bandito della guerra fredda

Il personaggio chiave del passaggio di Giuliano alla X Mas fascista e del suo addestramento è certamente Rodolfo Ceccacci, a capo del gruppo Vega – articolazione del battaglione Nuotatori Paracadutisti della Decima, specializzato in guerra “non ortodossa”, sabotaggi, incursioni, spionaggio e azioni stay behind – chiamato anche, appunto, “Gruppo Ceccacci”.

Un rapporto del colonnello Hill Dillon del Cic, il controspionaggio statunitense, parla di questi disertori che sono arrivati a Penne e fra cui c’è "Giuliani, palombaro e sottocapo". A Penne il latitante di Montelepre entra in contatto anche con i parà Giuseppe e Giovanni Console di Partinico e il marò Dante Magistrelli di Milano. I tre sono fra i primi a essere infiltrati dietro le linee Alleate. A fine giugno, infatti, i fratelli Console e il Magistrelli sono già operativi nella cittadina siciliana. Nelle stesse settimane, a Giuliano viene ordinato di rimanere sul territorio della Repubblica sociale per continuare l’addestramento. E intanto Ceccacci fonda il gruppo che porta il suo nome. Gli americani segnalano a luglio la presenza di Giuliano al Nord, in un gruppo di NP della X Mas. Tra il novembre e il dicembre 1944, come dichiarato agli Alleati nell’agosto 1945 da Aniceto del Massa (uno dei capi dei servizi segreti di Salò), trenta uomini della Decima sarebbero stati inviati in Sicilia dopo un duro addestramento a Campalto, vicino a Verona, nella scuola di sabotaggio diretta dall’SS Otto Ragen. L’ordine relativo che assegnava ai tedeschi la direzione della scuola è firmato dal comandante Nino Buttazzoni, lo stesso che, dopo la fine della guerra, sarebbe stato contattato da nuclei sionisti di ebrei palestinesi per addestrare i futuri agenti israeliani del Mossad.

Nell’elenco dei trenta sabotatori inviati in Sicilia compare anche Giuseppe Sapienza, nato a Montelepre come Giuliano. Sapienza viene segnalato nel palermitano come membro delle bande fasciste da un rapporto del colonnello Hill Dillon del novembre 1944. Anche Giuliano, comunque, fa parte di questo gruppo di incursori. Se ne trova conferma nell’interrogatorio del 12 maggio 1945 a Pasquale Sidari, un agente segreto nazifascista arrestato dagli americani nei pressi di Pistoia il 2 marzo di quell’anno assieme a Giovanni Tarroni, altra spia della Rsi. Le dichiarazioni di Sidari e Tarroni rilasciate a conflitto ancora in corso provocano l’arresto di una quarantina di sabotatori tra Napoli e Palermo, e a Partinico vengono arrestati i fratelli Console e Dante Magistrelli. Ma Giuliano, Sapienza e i trenta addestrati a Campalto sfuggono alla cattura e tornano nella Repubblica di Salò; e infatti, in uno dei soliti dettagliati rapporti di Hill Dillon del 25 marzo ’45, a un mese esatto dalla Liberazione, troviamo il nome del "sottotenente dei parà Giuliano" in uno dei corpi scelti della X Mas nel Nord Italia.

Intanto il 17 giugno ’45, dall’interrogatorio condotto da agenti Alleati a Fernando Pellegatta, sabotatore del battaglione Vega della X Mas, si scopre che centoventi uomini del suo reparto sono stati inviati al sud il primo aprile ’45 al comando dell’ex federale di Firenze, Fortunato Polvani – legato a Pino Romualdi, vicesegretario del Partito fascista repubblicano e futuro fondatore del Msi – che già dall’estate è a Palermo a dirigere il Centro clandestino fascista fino al marzo 1946. Il 9 gennaio del 1946, a Montelepre, centocinquanta uomini agli ordini di Salvatore Giuliano attaccano le caserme dei carabinieri. La battaglia si protrae per una settimana e vi perdono la vita 9 militari mentre i feriti sono 35. Proprio in relazione a questa azione i servizi britannici, come abbiamo raccontato in precedenza, parleranno di combattenti ebraici all’interno della banda e di campi di addestramento clandestini frequentati sempre da ebrei, sia palestinesi che scampati dai campi di concentramento nazisti, per formare sabotatori e guerriglieri da inviare poi in Medio Oriente. E anche in questo caso la figura di Giuliano ha un ruolo tutt’altro che marginale in funzione di addestratore di sabotatore e terroristi. Questo è il percorso che porterà Turiddu a diventare in pochissimo tempo colonnello dell’Evis e pedina nel grande gioco di specchi di James Jesus Angleton. Tutto in chiave anticomunista. In meno di tre anni, dall’“ammazzatina” causata da due sacchi di frumento vicino a San Giuseppe Jato a protagonista delle trame della Guerra fredda.

Alla luce di questo scenario sembra davvero difficile parlare di “banditismo sociale”, perfino nella prima fase della storia di Giuliano e della sua banda. Le relazioni prettamente politiche, quindi verticali, dentro cui si muove sono, a questo punto, fin da subito chiare e sostanzialmente predominanti all’interno della sua vicenda complessiva, decisamente molto più estesa e meno orizzontale rispetto a quella di un classico bandito sociale. Infatti le sue implicazioni, sia sul piano nazionale che internazionale, sono tali da poter definire Giuliano a tutti gli effetti – nel corso di tutto il suo percorso terroristico, stragista e criminale – “il bandito della Guerra fredda”.

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