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di Miriam Cuccu

Gli agenti Corbo e Costanza, il maresciallo Masi e il poliziotto Calagonia agli studenti: "Pensate con la vostra testa"

"Quel 23 maggio alle 17:58 siamo morti anche noi, e poi rinati. Ma eravamo altre quattro entità completamente diverse". La strage di Capaci come non viene mai raccontata è quella che emerge dalle parole di Angelo Corbo, agente di scorta sopravvissuto insieme ai colleghi Giuseppe Costanza, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello. Sia Costanza che Corbo siedono al tavolo dei relatori al convegno "Sbirri di frontiera", insieme al maresciallo Saverio Masi (caposcorta del pm Nino Di Matteo) e a Gianni Palagonia, ex poliziotto che presenta il suo libro "L'aquila e la piovra". L'incontro, moderato dal giornalista di Antimafia Duemila Aaron Pettinari, fa parte del ciclo di eventi del primo “Campus della legalità e della cittadinanza attiva” organizzato all'Istituto Teodosio Rossi di Priverno (Latina) in collaborazione con il movimento delle Agende Rosse.
"Ci sentivamo invincibili - ricorda Corbo - invece quel giorno ci ha fatto capire come eravamo solo degli illusi, solo un briciolo, non valevamo niente per chi ha premuto quel telecomando. Poco prima avevamo superato un pullman con una scolaresca, se si fosse trovato vicino a noi allo svincolo per Capaci avrebbero comunque premuto il pulsante, quei sedicenti uomini d'onore".
"Perché sono rimasto vivo? - si chiede ancora l'agente superstite davanti agli studenti - non lo so… ma sto pagando come Giuseppe, Gaspare e Paolo, come Antonino Vullo, sopravvissuto alla strage di Borsellino. Stiamo pagando colpe non nostre, dimenticati dallo Stato come fantasmi perché siamo scomodi. Ma ho deciso di mettere la faccia e dire le cose come stanno".
"Quando Falcone sfilò le chiavi dall'auto in corsa, diminuendo così la velocità, - spiega Costanza ripercorrendo gli attimi prima della strage - con quel suo gesto anomalo non andammo a finire sull'esplosione ma a cozzare contro i detriti che si sollevavano. La bomba l'hanno presa i ragazzi che erano davanti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Io mi sono svegliato in ospedale, sono vivo solo perchè guidava il dottor Falcone".


Montinaro, Schifani e Dicillo, invece, non ce l'hanno fatta. "Credevamo che fossero sopravvissuti e, addirittura, che avessero chiamato loro i soccorsi - racconta ancora Corbo - poi in ospedale un infermiere ci disse che noi eravamo stati i più fortunati. Ma io su questo ho molti dubbi". Corbo ricorda anche i momenti drammatici immediatamente dopo l'esplosione, quando furono portati in ospedale. "Chiedemmo un posto per sederci ma non ci fu accordato - elenca il poliziotto - passammo la notte in corridoio, così come eravamo arrivati. La mattina dopo ci fu detto che si era liberata una stanza, e lì cominciò l'incontro con i vari vertici di Stato. Come finì il viavai arrivò il primario che disse a noi e ai nostri familiari 'questa buffonata è finita, possono tornare a casa'" nonostante le contusioni riportate, che esigevano un periodo più lungo di osservazione. E questo perché, prosegue Corbo "ci avevano imposto di presenziare l'indomani ai funerali, dovevamo fare passerella. Ci fecero transitare davanti a un'ala di pubblico, quando qualcuno ci riconobbe cominciarono gli applausi. Da quel giorno lo Stato ha sempre cercato di nasconderci, probabilmente pensano che noi sappiamo cose che non vogliono che vengano fuori". Come il testimone oculare che parlò di "uomini in giacca e cravatta" immediatamente dopo l'esplosione del tritolo, e la "sparizione dei rullini di un fotografo". Misteri che ancora non trovano una risposta. "Rimane il dubbio - aggiunge Costanza - che qualcuno da Roma abbia comunicato l'arrivo di Falcone (che non era previsto per quel giorno, ndr) ancora oggi spero che si alzi il tiro e si vadano a colpire eventuali responsabili che non siano della manovalanza".
"Non dobbiamo lasciarci sopraffare dallo sconforto - evidenzia di seguito il maresciallo Saverio Masi - il problema principale è la mancanza di informazione" perché, dice rivolgendosi agli studenti, "hanno paura della vostra matita, quella che userete per andare a votare, perché senza le necessarie informazioni questa sarà inutilizzabile". Per questo, prosegue, "occorre conoscere cosa emerge dai processi sulle stragi del '92 e sconfiggere la cultura mafiosa con quella dell'informazione", nello specifico "su collusioni o ipotesi di collusioni tra mafia e politica".
Gianni Palagonia parla da dietro un tendone rosso, quasi con imbarazzo. Per la tutela sua e della famiglia è troppo pericoloso mostrare il volto in pubblico. "Anziché mostrarmi orgoglioso di essere poliziotto, padre, marito e anche scrittore me ne devo stare nascosto come un ladro" si giustifica, tra gli applausi dei ragazzi. "Chi sono oggi i mafiosi? - chiede - da anni non usano più la pistola ma la penna, vestono in giacca e cravatta, parlano inglese e sono laureati nelle università più prestigiose, hanno rapporti con la politica. Ma i mafiosi sono anche e soprattutto chi ha acquisito un certo tipo di atteggiamento sociale e mentale" dice, parlando anche del bullismo, "fenomeno spesso propedeutico alla mentalità mafiosa". "Mafioso - continua il poliziotto - è quello che predilige le vie facili per avere favori, fare affari al solo scopo dell'arricchimento. La mafia investe sui bisogni della gente, immobili, macchine, discoteche, alberghi, l'industria alimentare… per combatterla è importante la prevenzione - precisa Calagonia - non possiamo pensare di risolvere il problema delegandolo solo ai magistrati e alle forze dell'ordine". Soprattutto, aggiunge, "è importante che ognuno di noi non si rassegni o resti a guardare, ragionate con la vostra testa senza farvi manipolare perché dalle vostre convinzioni e idee, dalla vostra intelligenza e onestà dipende il futuro prossimo del nostro Paese" ma, conclude, "anche le istituzioni devono fare la loro parte".

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