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di Francesca Mondin - 24 aprile 2015

E sul caso del fratello Stefano: “a breve grandi novità”
La notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Stefano Cucchi, geometra romano di 32 anni, viene arrestato dai carabinieri per detenzione di droga ed entra quindi sotto la custodia e tutela dello Stato. Quasi una settimana dopo, il 22 ottobre, il cuore di Stefano si spegne nell’ospedale Sandro Petrini di Roma. Inizia per la famiglia Cucchi, investita inaspettatamente da questa tragedia (Stefano non soffriva di malattie degenerative o altro, ha spiegato più volte la sorella, ndr), una lotta contro il tempo per cercare in tutti i modi di poter dimostrare e ricostruire cosa successe in quei sei giorni di detenzione preventiva che portarono Stefano alla morte. Un percorso molto sofferto che ha spinto la famiglia Cucchi a rendere pubblica la propria sofferenza per far conoscere la realtà che si può nascondere dietro l’ambiente carcerario e combattere una cultura d’omertà che si attiva spesso quando, a commettere errori, sono i rappresentanti stessi delle Istituzioni nei confronti dei cosiddetti “ultimi”.
Sul banco degli imputati per la morte del geometra romano sono finiti sei medici, tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria. Per la famiglia non ci sono dubbi, Stefano è stato picchiato pesantemente, completamente abbandonato ed ignorato da ogni rappresentante dello Stato che in quei sei giorni entrò in contatto con lui. Secondo i pubblici ministeri fu pestato nelle celle del tribunale, in ospedale furono ignorate le sue richieste e addirittura venne abbandonato e lasciato morire di fame e sete. In primo grado la III Corte d’assise di Roma ha condannato i medici per omicidio colposo, assolvendo infermieri e agenti mentre la sentenza di secondo grado dell’ottobre scorso ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove. Sebbene nella sentenza si dichiari chiaramente che Cucchi fu picchiato o comunque fu vittima di azioni volontarie violente che causarono numerose lesioni sul suo corpo, le motivazioni del decesso rimangono sconosciute e non chiare. 
La sorella Ilaria, il 22 aprile a margine della conferenza “Le vittime di Stato”, organizzata dall’associazione studentesca universitaria Run Macerata, racconta come mai è così difficile arrivare a conoscere la verità in casi come questi e perché la giustizia italiana non può ancora dirsi uguale per tutti.

Perchè dopo sei anni ancora non si è riusciti a giungere ad una verità?
Più volte ho contestato duramente il lavoro della procura, per noi era chiaro che saremmo arrivati a questo punto, avevamo dei pubblici ministeri che hanno fatto un processo a Stefano prima ancora di accertare la verità di ciò che gli era accaduto. Tutto il processo è stato fatto in un’unica direzione, per dimostrare che la colpa era principalmente di mio fratello e che i rappresentanti delle forze dell’ordine non avevano responsabilità sulla sua morte.

Ci sono molti altri casi in Italia di persone che sono morte o che hanno subito violenze e torture mentre erano sotto la custodia dello Stato. Casi perlopiù rimasti impuniti o senza colpevoli. Come mai si fa così fatica a dare un volto ai responsabili quando si parla di rappresentanti dello Stato?
Chiedere alla giustizia di giudicare se stessa è una cosa difficilissima perché significa mettere in discussione un intero meccanismo, dare nomi e cognomi alle persone che hanno avuto un ruolo in queste vicende. Perciò è più semplice chiedere a noi famigliari di far finta di niente e di andare avanti con le nostre vite come se nulla fosse.



Ora gli atti sono stati trasmessi alla procura affinché valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dai poliziotti della penitenziaria già giudicati. C’è realmente la possibilità che vengano riaperte le indagini?

Credo che tutto sia possibile ma il problema è capire se ci sia la volontà.  Mi chiedo come sia possibile, a distanza di tutto questo tempo fare indagini su altre figure e non capisco perché non sia stato fatto prima.



Quindi cosa c’è da aspettarsi ora?

Sicuramente non è finita qui e ci saranno delle novità, spero di poterne parlare a breve ma sono certa che ci saranno delle novità che cambieranno totalmente la situazione.

Cosa potrebbe determinare una svolta?

Non lo so, Stefano in quei sei giorni ha incontrato circa 140 persone, tutti rappresentanti delle istituzioni: funzionari, medici, forze dell'ordine. Spero che prima o poi in qualcuno di quelle persone scatti un rimorso di coscienza. Perché qualcuno di loro sa qualcosa quindi dovrebbe parlare perché  si tratta di una vita umana, che è il bene più prezioso al mondo e nulla, nessun meccanismo, può essere più importante di questo.

Il caso di suo fratello assieme al caso Aldrovandi, ai pestaggi della Diaz e ad altre vicende note offrono un’immagine di forze dell’ordine che abusano del loro potere. I responsabili oltre a non essere condannati, in molti casi non vengono nemmeno destituiti. Non è certo facile avere piena fiducia di uno  Stato che si presenta così…
Sicuramente all’estero diamo una pessima immagine perché uno Stato che non è capace di garantire una giustizia uguale per tutti i suoi cittadini non può ritenersi uno Stato. Innanzitutto la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine sono persone oneste che svolgono il loro dovere con grande dignità, spesso rischiando la vita. Il problema è culturale perché io vengo accusata di infangare il buon nome delle divise e addirittura querelata per istigazione all’odio, mentre non capisco perchè tutti i colleghi onesti puntualmente prendono le difese delle persone che hanno sbagliato e che veramente infangano le loro divise.



Cosa pensa del disegno di legge per il reato di tortura approvato alla camera il 9 aprile?

Sono molto perplessa, l’Europa ci sanziona e ci condanna e noi facciamo una legge che non farà altro che complicare ancora di più i nostri processi, che già sono immensamente difficili. L’Italia continua a far finta che il problema tortura non ci sia.


* ha collaborato Giada Trobbiani

Foto tratta da repubblica.it

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