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sciarabba-micheleInchiesta in Sicilia: ecco come cambiano equilibri e strategie dei clan. Allarme della procura nazionale per le scarcerazioni
di Salvo Palazzolo - 2 marzo 2014
I rapporti dell’intelligence: corsa agli appalti, scalata di giovani boss

Uno sembrava un commesso viaggiatore. Jeans neanche di marca e giubbotto blu sempre chiuso: partiva all’alba da Palermo e andava in giro per la Sicilia con un’utilitaria, ma non aveva mai il telefonino. L’altro, invece, sembrava uscito dalla casa del Grande Fratello: serate nei locali più in vista di Niscemi, maglie griffate e smartphone dell’ultima generazione. Michele Sciarabba (in foto al centro), 34 anni, e Alberto Musto, di 26. Sono i due volti della nuova Cosa nostra siciliana. Il rampollo di una famiglia di mafia e l’insospettabile. Ovvero, come li chiamavano i carabinieri del Ros e i poliziotti della squadra mobile di Caltanissetta che per mesi li hanno pedinati prima di arrestarli, il “sacerdote” e il “gangster”.

Bisogna riascoltare i file delle loro intercettazioni per capire come sarà nei prossimi anni la mafia che in Sicilia lo Stato non è riuscito a sconfiggere, ma solo a mettere in profonda crisi. La Direzione nazionale antimafia ha lanciato l’allarme nell’ultima relazione: Cosa nostra sta allevando i nuovi quadri dirigenti.

I PALERMITANI, nello stile del “sacerdote mafioso” Sciarabba. I catanesi sulla scia di Alberto Musto, che sarà stato pure un insospettabile studente universitario arrivato al vertice della famiglia di Niscemi con la benedizione del vecchio padrino Alessandro Barberi, ma aveva modi violenti e parecchio appariscenti. Un film già visto nell’ultima stagione della mafia siciliana. E a gennaio, le intercettazioni della squadra mobile di Caltanissetta hanno incastrato lo studente boss.
Chi indaga è più preoccupato dalla scuola palermitana: «L’organizzazione — scrive il sostituto procuratore della Dna Maurizio de Lucia — sta allevando alcuni suoi giovani rampolli, tra i quali eredi di importanti famiglie mafiose del palermitano, per individuare tra di essi i nuovi capi». L’università della mafia ha già conferito delle lauree di primo livello. «Tali giovani — prosegue la Dna — sembrano molto più accorti nei comportamenti e nel rispetto delle regole dell’organizzazione rispetto alla precedente generazione». Qualche esempio? A Palermo, Sciarabba camminava a piedi tutto il giorno: per gli investigatori del Ros era una fatica enorme pedinarlo. Aveva quattro o cinque posti fissi, fra bar e negozi, dove passava quotidianamente con una puntualità certosina. Chi voleva parlare con Sciarabba, per chiedergli di dirimere delle controversie, doveva farsi vivo lì, poi era lui ad arrivare. Ancora una volta a piedi. E dopo una giornata di incontri e passeggiate, alle sette in punto, il “sacerdote” di Cosa nostra andava a prendere la fidanzata.

GLI SCARCERATI ECCELLENTI
«Ma chi era Sciarabba per avere tanta autorità nel dirimere controversie fra autorevoli clan?», si chiede un investigatore che a lungo ha indagato su di lui. I nuovi volti della mafia siciliana sono al momento solo dei perfetti ambasciatori. L’autorità viene ancora dai vecchi, molti dei quali sono stati scarcerati: da Palermo a Catania l’elenco non è lungo, ma i nomi fanno paura. Anche perché quei vecchi sono attentissimi a non pronunciare una parola in più, a non fare neanche un incontro compromettente. Mandano avanti i giovani. Ecco, perché la Direzione investigativa antimafia continua a fare di continuo un monitoraggio delle scarcerazioni eccellenti per «fine pena». A Palermo, negli ultimi 18 mesi, sono state 36. A Catania, è tornato libero il rappresentante provinciale, Eugenio Galea, ha solo l’obbligo di soggiorno nel comune di Gravina. La Dna non ha dubbi su quello che farà: «Per le capacità organizzative già dimostrate nell’ambiente della criminalità organizzata ed il prestigio di cui in tale ambiente continua a godere è destinato in tempi brevi a riprendere le redini del clan Santapaola ed in tal senso sono già dirette le sue prime attività».
Le scarcerazioni degli ultimi tempi sono destinate a cambiare la geografia del potere mafioso in Sicilia, rilanciando alcuni piuttosto che altri emergenti. E potrebbe anche arrivare un brusco cambio di strategia: dall’inabissamento al ritorno dei gesti eclatanti, quello che auspica il boss Totò Riina in carcere, è ancora lui formalmente il capo di Cosa nostra, e lancia ordini di morte contro il pm Nino Di Matteo, che si occupa delle indagini sulla trattativa mafia-Stato fra le stragi del 1992-1993. Ecco perché negli ultimi mesi i vertici dell’ordine pubblico hanno potenziato i dispositivi di protezione attorno ai magistrati più impegnati nella lotta ai clan.

GLI EMERGENTI
Tra le fila degli emergenti ci sono anche rappresentanti della seconda mafia, la Stidda, sempre più alla ricerca di affari fra traffico di droga e rapine. Nel Ragusano, dove Cosa nostra sembra essere in profonda crisi, i boss della seconda mafia (legati al gelese Carmelo Dominante) sono anche i più forti grazie a nuovi investimenti fra Vittoria, Comiso e Pozzallo, soprattutto nel traffico di armi. La Stidda convive invece in un patto di spartizione d’affari con Cosa nostra fra Gela e Niscemi, da sempre laboratorio di nuove alchimie criminali, come rileva il capitolo della relazione della Dna scritto dal sostituto procuratore Franca Maria Imbergamo. A Niscemi, i vecchi di Cosa nostra hanno sperimentato davvero una novità, quello studente della facoltà di Informatica di Enna lanciato al vertice del clan. Alberto Musto è figlio di due insegnanti, nessun pedigree mafioso, però è un violento, ed è affascinato dal mondo di Cosa nostra, ecco perché diventa il migliore amico del figlio del vecchio capomafia Giancarlo Giugno. E viene subito notato per la sua intraprendenza. Dice, e non sospetta di essere intercettato dalla polizia su ordine della procura di Caltanissetta diretta da Sergio Lari: «Lo affoghiamo, lo metto nel cofano della macchina, lo portiamo fuori il paese». Musto sta parlando di un commerciante che non voleva pagare il pizzo. Tutti gli altri, a Niscemi, si erano piegati allo studente boss. Che aveva anche le sue idee: investire tanti soldi nelle scommesse clandestine, affari su cui però avevano buttato l’occhio anche gli Stiddari.

GLI APPALTI
In un settore Cosa nostra continua a non avere rivali, neanche fra gli Stiddari. Perché i padrini saranno pure in crisi, ma detengono il know how criminale e soprattutto le relazioni economiche e politiche. Così, grazie a una schiera di imprenditori complici, l’organizzazione mafiosa tradizionale resta infiltrata in modo preoccupante nei lavori pubblici siciliani: è questa la denuncia più allarmante dell’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia. Lo conferma la potenza economica dei clan: a Trapani, la Dia ha sequestrato beni per tre miliardi di euro. Un vero record dal 2010 a oggi. I settori più infiltrati dell’economia trapanese sono la produzione di calcestruzzo, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il settore della energie rinnovabili. Sono gli affari dell’imprendibile latitante Matteo Messina Denaro, su cui indaga il pool coordinato dal procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato. «Può contare su una cerchia indefinita di fiancheggiatori che al momento opportuno si mettono a disposizione», avverte la Dna, «fornendo ogni contributo funzionale al perseguimento degli specifici obiettivi dell’organizzazione».
In nome degli appalti, si ricompattano anche vecchi nemici: accade ad Enna, con l’intercessione dei clan catanesi. In provincia di Messina, nella zona di Barcellona, sono invece i palermitani a premere per la gestione degli appalti, che da queste parti non sono mai mancati. Anzi, dalla porta di Barcellona il clan guidato dall’enigmatico avvocato Rosario Pio Cattafi ha sempre messo il naso nel fior fiore delle opere pubbliche siciliane: dal raddoppio della linea ferroviaria Messina-Palermo all’autostrada Messina-Palermo, dal metanodotto ai parchi eolici.
L’ultima infiltrazione mafiosa di cui si ha traccia è in provincia di Agrigento, a Porto Empedocle, dove sta sorgendo il rigassificatore, un’opera da 650 milioni: a settembre, il cantiere è stato sequestrato per ordine della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, perché alcune opere sarebbero state realizzate da una ditta vicina alle cosche, con materiale scadente.

LA RIORGANIZZAZIONE
Parola d’ordine da Trapani a Ragusa è ormai una sola: riorganizzazione. È diventata una fissazione per i mafiosi. Perché i fasti criminali del passato erano dovuti soprattutto a una cosa, la direzione strategica dell’organizzazione. A Palermo, era l’autorevole commissione provinciale, presieduta da Riina. Negli ultimi cinque anni, i mafiosi del capoluogo hanno cercato di ricostituirla per ben tre volte. Ma ha prevalso la tesi degli ortodossi: la commissione può riconvocarla solo il suo presidente, ovvero Riina. Ma lui è al carcere duro. Dunque, la mafia palermitana vive al momento una fase di stallo.
In nome di nuove “cabine di regia” si danno un gran da fare anche nel resto della Sicilia. A Siracusa, ad esempio, la storica divisione fra i due gruppi che si dividono la città — i Bottaro Attanasio e i Santa Panagia — sta venendo meno: le microspie che registrano narrano di un altro grande progetto per creare una direzione unica dei due clan. Obiettivo, gestire meglio gli affari. E se non si riesce a creare una cabina di regia, ci sono comunque svariati patti in corso di definizione in lungo e in largo per le province siciliane. Quello più importante, a Messina, dove la città subisce il grande business delle estorsioni mafiose nello scacchiere dove giocano Cosa nostra (palermitana, tirrenica e catanese), la Ndrangheta e alcuni gruppi locali. Tutto questo fa dire alla Dna che la mafia siciliana ha ancora «grande e costante vitalità». Di sicuro, un instancabile animatore del progetto di riorganizzazione siciliana era Michele Sciarabba. L’unica uscita pubblica fu quella del grande summit di Villa Pensabene, del febbraio di tre anni fa: quel giorno, i rappresentanti di tutte le famiglie di Palermo si ritrovarono a tavola, per discutere di riorganizzazione. Qualche giorno dopo, Sciarabba sale in macchina e va verso Agrigento. Lì incontra il rappresentante provinciale, Leo Sutera, un pezzo di storia della mafia che cammina. I Ros iniziano ad avere il sospetto che la partita in gioco sia molto più alta: non solo la ricostituzione della commissione di Palermo, ma il raccordo delle province della Sicilia occidentale. E nei giorni seguenti, arriva una conferma importante: Sutera incontra mafiosi che arrivano da altre parti della Sicilia. Il pensiero va subito al superlatitante Matteo Messina Denaro, l’unico che avrebbe titolo a dirigere la cabina di regia di Cosa nostra. Ma la storia è stata interrotta: Sciarabba e Sutera sono stati arrestati due anni fa su ordine del vertice della Procura di Palermo, forse un po’ frettolosamente, prima che si riuscisse a capire cosa stavano progettando per davvero. Oggi, ad Agrigento, ci sarà già un nuovo capo. Ma il suo nome è ancora un mistero, uno dei tanti che Cosa nostra è tornata a tessere.

Tratto da: La Repubblica del 2 marzo 2014

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