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femminicidiodi Concita De Gregorio - 22 novembre 2013
In principio è il linguaggio. Le parole per dirlo. Il posto che la lingua dà alle cose diventa il posto giusto delle cose. Per capirci, ecco un test semplice. Quante volte avete detto o sentito dire: mio marito/mio figlio in casa è un disastro, se fosse per lui vivrebbe nel caos. O apparentemente al contrario: mi aiuta moltissimo, cucina e fa i piatti, si prende cura dei bambini. Quante volte avete sentito un uomo dire: oggi mia moglie non c’è, faccio da babysitter. Questo è il problema. Questa è la norma, dunque la norma è il problema.
Dalla subordinazione alla sopraffazione alla violenza lo scarto non è di qualità del gesto, è di quantità. Dalla normale “delegittimazione del lavoro domestico maschile” — dalla divisione di ruoli e di compiti tutto attorno a noi per cui non c’è niente di strano che gli uomini di solito non sappiano stirare, per quanto stirare non sia affatto difficile — passa il principio per cui è normale che gli uomini si occupino d’altro. Anche le donne certo, lo fanno: in questo caso, se non vivono sole, spesso si sentono dire di quanto siano fortunate ad avere accanto un uomo che glielo consente. Perché invece la lingua ci informa che lo stato naturale delle cose è che siano gli uomini di solito a produrre reddito, cioè ricchezza, cioè potere, perché il denaro — nel mondo in cui viviamo — è potere. Come poi ogni uomo gestisca la sua supremazia nei confronti di chi gli vive accanto dipende solo dal suo livello di consapevolezza e di autocontrollo: da come gestisce le emozioni, da come governa il conflitto, dal grado di censura che assegna alla violenza come metodo di soluzione dei problemi. Dipende dalla sua educazione, in definitiva. In larga parte dipende dalla madre che ha avuto. La violenza che gli uomini esercitano sulle donne non è un’emergenza criminale: è anche questo, sotto il profilo tecnico, ma prima ancora è moltissimo più. È il risultato naturale dell’educazione condivisa, del linguaggio corrente, dei modelli di comportamento che costituiscono la norma.

Una lunga premessa, purtroppo necessaria, per dire che la violenza sulle donne non è un problema delle donne: è prima di tutto un problema degli uomini. Il danno è di chi la subisce. Il problema — la lacuna, la carenza, il deficit — è di chi la esercita. Quindi: la violenza di genere è un guasto del sistema che riguarda entrambi i generi ma in ordine cronologico è prima un guasto di chi alza la mano, poi di chi riceve lo schiaffo. A partire da questa osservazione semplicissima, evidente eppure così insolita nel nostro panorama di riflessioni sul tema, nei Paesi in cui il male è divenuto epidemico da molti anni si lavora sugli uomini: con le leggi, con l’educazione scolastica obbligatoria, con le terapie riabilitative, con il “sostegno ai portatori di violenza”. Sì, sostegno ai portatori di violenza, e pazienza se ci sarà come sempre chi alzerà il dito per dire che chi commette un reato deve solo essere punito, non aiutato. Certo, punito: ma giacché la violenza è sempre un segno di debolezza — è l’incapacità di usare la parola, la ragione, il gesto opportuno — è ovvio che i portatori di questa debolezza debbano essere aiutati a colmarla. Lo si fa in Messico, il paese della strage di donne a Ciudad Juarez, lo si fa in Portogallo e in Spagna, dove la cultura machista è persino più radicata che da noi. Lo si fa naturalmente nei paesi del Nord Europa, che tuttavia spesso ci appaiono remoti nel loro modello di soverchia virtù.
Mavi Sanchez Vivez è una neurofisiologa esperta di realtà virtuale immersiva. Il suo gruppo di ricerca lavora a Barcellona. Qualche mese fa, ospite del professor Aglioti alla Sapienza di Roma per la Settimana del cervello (Baw, brain awareness week) ha mostrato i risultati del lavoro sperimentale che nella sua regione porta avanti insieme al ministero di Giustizia. Gli autori di violenze condannati per reati commessi sulle donne vengono messi nelle condizioni di sperimentare lo stesso tipo di trauma. Grazie a un casco che lavora sugli impulsi cerebrali si trovano nella condizione di percepire se stessi come una donna che viene aggredita, picchiata, offesa. Hanno reazioni primitive e terribili: sudorazione, palpitazioni, pianto, qualche volta non controllano l’atto di urinare. Quando ho raccontato gli esiti di questo tipo di lavoro — riassumibile, per tornare alla lingua, nella frase “mettersi nei panni dell’altra” — sono stata sommersa di lettere di protesta di un gran numero di persone che hanno trovato questo lavoro "crudele", “vendicativo”, “inutilmente feroce”. Qualcuno ha detto: “l’esito del peggior femminismo”. È anche questa una reazione istruttiva, molto eloquente. Il prossimo passo del gruppo di lavoro spagnolo sarà quello di mettere i carnefici nella condizione dei bambini che assai spesso assistono alle violenze domestiche: farli sentire come si sentono i loro figli. Uno degli scopi di questo genere di lavoro è difatti quello di evitare che il modello di comportamento si replichi di padre in figlio, circostanza invece consueta e difficilmente evitabile senza un sostegno formativo efficace. In Messico la dottoressa Georgina Cardena Lopez dell’Unam, Università Autonoma del Messico, porta avanti da anni programmi che si avvalgono degli strumenti di realtà virtuale. Dodici settimane di terapia, con un risultato giudicato positivo nell’80 per cento dei casi. A Valencia c’è il programma Emma, diversi metodi e nomi indicano i protocolli adottati in Francia, in Svezia, in Gran Bretagna. In Italia siamo agli albori. Scarsissimi i finanziamenti, quasi tutte private le fondazioni e associazioni che lavorano sull’intervento mirato ai portatori di violenza. Un bel libro, molto completo, è appena andato in stampa. S’intitola “Il lato oscuro degli uomini” e tratta la “violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento”. Le curatrici — Alessandra Bozzoli, Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini — fanno parte del gruppo LeNove, associazione di studi e ricerche sociali che già a dicembre del 2012 aveva consegnato un rapporto su “Uomini abusanti. Prime esperienze di riflessione e intervento in Italia”. Il rapporto e poi il libro sono una vera miniera di informazioni su quel che si potrebbe fare e non si fa, o non si fa abbastanza. Consultarlo è anche un modo sicuro per fare piazza pulita di ogni accusa moralismo, di manicheismo e di ideologia. C’è poco da filosofeggiare di fronte ai fatti. C’è piuttosto da provare a comprenderli senza pregiudizi, c’è da chiedersi perché non si passi di conseguenza all’azione. Una risposta possibile arriva da Laurie Penny, la giovane blogger inglese (oggi 27 anni, poco più che ventenne quando ha iniziato il suo lavoro di indagine) il cui “Meat market”, il mercato della carne, è tradotto in volume anche in italiano. Sua la definizione di “delegittimazione del lavoro domestico maschile” dentro la costruzione di un linguaggio e di un modello che “ha tutta l’accuratezza dei giochi di ruolo”, costumi ed eventuali nudità comprese. È un gioco — dice — concepito, commercializzato e utilizzato dagli uomini: il copyright è loro. Difficile che con arrendevolezza se lo lascino sfilare di mano. Difficile che vogliano smettere di giocarci, e di contrabbandare per libertà di scelta la decisione di tutte quelle donne che — madri o figlie — stanno al gioco senza accorgersi che la scacchiera è truccata. Conviene ribellarsi, dice Penny. Cambiare le regole a partire dal principio. Punire i colpevoli asseconda il principio di eccezionalità. Quando la violenza è la norma è sul normale corso degli eventi che bisognalavorare. Capirlo, cambiarlo.


“Così mio padre, Italo Calvino difese i diritti delle ragazze”
Giovanna, figlia del grande scrittore, spiega come l’Italia “sia regredita”
di ANNA BANDETTINI
calvino-giovannaDel suo monumentale papà, Italo Calvino, ricorda orgogliosamente una lettera, bella e arrabbiata, a Claudio Magris nella quale lo scrittore reclamava «il diritto della donna all’autodeterminazione in fatto di maternità». «Mi piace ricordarla perché era il febbraio del ‘75. Tre anni dopo in Italia fu approvata la legge sull’interruzione della gravidanza. A rileggerla oggi, sembra che l’Italia sia andata indietro. Siamo al 71esimo posto nella classifica mondiale del Global gender gap 2013». Giovanna Calvino 48 anni (in foto), scrittrice lei stessa, da 20 anni vive felice a New York «perché non è che la gente qui sia migliore ma la legge funziona e le offese, anche solo verbali, verso le donne sono punite. Altro che l’Italia. Io stessa ne ho fatto esperienza».
Cosa era successo?
«Era la metà degli anni Ottanta ma nulla è cambiato. Avevo 21 anni, avevo passato l’infanzia in Francia, era il mio primo lavoro a Roma alla Rai. Appena assunta il mio capo mi disse: “Se me la dai è meglio” — racconta pudicamente mentre ricorda il senso di isolamento e la rabbia di fronte a quelle offese — Una volta quando obiettai per un suo apprezzamento su di me, mi rispose: “Cosa vuoi, il fatto è che le donne sono tutte puttane”. Non voglio sembrare invasata: non ho subito violenza, né abusi, ero pure privilegiata perché alla Rai ci ero arrivata da raccomandata. Ma quegli episodi sono emblematici di quanto in Italia sia radicata una cultura retrograda verso le donne la cui conseguenza naturale è la violenza e il femminicidio».
Il 25 lei sarà all’Onu con Marina Abramovic, Valeria Golino, altre donne e Serena Dandini per il suo spettacolo-denuncia Ferite a morte: una bella emozione testimoniare contro i femminicidi nel Palazzo di Vetro.
«Assolutamente sì. Il lavoro di Serena evidenzia due nodi essenziali, da un lato l’impunità di fronte alla legge — un problema generale e molto italiano — e dall’altro il fatto che si dà per scontato che la causa, la ragione della mano assassina è il genere, la sessualità femminile. Personalmente non ho alcuna fiducia nella politica: sono le associazioni delle donne, le manifestazioni di solidarietà femminile come Ferite a morte della Dandini a farci sperare in un cambiamento: fanno un lavoro capillare e parlano alle coscienze».


I destini incrociati delle due Lucie. Per la prima volta in tribunale si giudica un “delitto sociale”
Una ammazzata, l’altra sfregiata. Così la violenza esce dal silenzio
di MARIA NOVELLA DE LUCA
«Se Lucia avesse parlato, se tutte le donne parlassero, forse molte sarebbero ancora con noi. Vittorio la inseguiva, la tormentava, la perseguitava, ma Lucia ci proteggeva, non voleva coinvolgere la famiglia, sperava che lui cambiasse, sperava sempre. Invece Vittorio Ciccolini l’ha uccisa con un piano lucido e freddo, le ha rubato la vita, e ce l’ha portata via per sempre». Tre mesi fa, in una notte d’agosto con il cielo stellato. Nel segreto di una strada di montagna e con un coltello da guerra comprato in un’armeria di Verona. Una lama lunga 20 centimetri, serie Us M3, i coltelli dei marines americani. L’avvocato tennista e la bella ragazza di Pergola. L’amore che si trasforma in stalking. Lui che la bracca, lei che cerca di rifarsi una vita. Così lui la invita a cena, in un ristorante di lusso, implora un ultimo incontro, e poi invece l’ammazza. Due coltellate al cuore.
bellucci-luciaVittorio Ciccolini e Lucia Bellucci (in foto), uno degli oltre cento femminicidi che hanno insanguinato l’Italia negli ultimi dodici mesi. Oggi a Trento ci sarà l’udienza preliminare di un processo che però s’annuncia speciale: perché per la prima volta tutte le donne, non soltanto Lucia — che aveva 31 anni, amava lo sport, i viaggi, la famiglia — sono state considerate “parte offesa”. Elisa Bellucci, sorella di Lucia, ha le lacrime che affiorano, e il dolore sordo di chi ogni giorno si sveglia e si chiede davvero se quella persona tanto amata non c’è più. «Era solare, generosa, semplice: per anni quell’uomo l’ha maltrattata, illusa, e quando finalmente Lucia ha trovato la forza di lasciarlo, Vittorio Ciccolini ha deciso che non voleva perdere la sua preda. La perseguitava, la bombardava di messaggi, fino a 250 in un giorno, le inviava fotografie dove lui si ritraeva con una pistola alla tempia. Ma invece di uccidersi, ha massacrato lei».
È un processo simbolo quello che inizierà a Trento contro Vittorio Ciccolini, 45 anni, noto e famoso legale di Verona, che nella notte tra il 9 e il 10 agosto strangola e poi accoltella a morte Lucia Bellucci, direttrice della spa dell’hotel “Chalet del Brenta” di Pinzolo, con la quale aveva una tormentata relazione da poco più di due anni. Un processo simbolo perché nel settembre scorso un’associazione di donne di Verona, “Isolina e...”, così chiamata dal famoso libro di Dacia Maraini (sull’omicidio impunito di una ragazza da parte di un capitano dell’esercito all’inizio del Novecento) è stata ammessa come “parte offesa” nella fase delle indagini preliminari. «Perché l’omicidio di una donna da parte di un uomo non è un reato contro la singola vittima, ma contro tutta la collettività femminile».
Un delitto che dunque diventa sociale. “Isolina e...” ha quindi potuto nominare un perito, e partecipare alla perizia psichiatrica su Vittorio Ciccolini. In questo caso infatti — come nella gran parte dei femminicidi — è sulla incapacità di intendere e di volere dell’omicida che si giocheranno le carte della difesa per dimezzare i tempi della pena. Con il rischio che stalker e assassini “momentaneamente pazzi” tornino liberi in un pugno di anni. Sarà guerra di perizie e di legali.
Nello studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, che con l’associazione “Doppia difesa” assiste la famiglia di Lucia Bellucci, la sorella Elisa per la prima volta parla e racconta. «Lucia aveva conosciuto Vittorio Ciccolini durante un viaggio in Tunisia che avevamo fatto tutti insieme, nel 2008. Credo che sia stato il tennis a farli incontrare: Lucia era una grande sportiva e lui partecipava ad un torneo. Ma la loro relazione non è iniziata subito. Mia sorella era sposata, un matrimonio in crisi da tempo, e che si è concluso nel 2010. È stato allora, purtroppo, che l’amicizia con Vittorio si è trasformata in un amore, ma non in una convivenza, infatti Lucia continuava ad abitare con i miei genitori». Una famiglia unita, tre figli, il papà Giuseppe medico, conosciuto e amato da tutti, la madre Pia che è il fulcro affettivo della casa.
Vittorio entra ed esce dalla vita di Lucia, lei aspetta e soffre. Innamorata, forse soggiogata da quell’uomo che le sembra brillante, realizzato. Avvocato in carriera, il circolo del tennis, la vita notturna. Ricorda Rino Lorenzi, proprietario del ristorante “Mezzo soldo” dove si consuma l’ultima cena: «Erano belli ed eleganti. Lei era in abito da sera, lui in giacca e cravatta. Era premuroso con quella ragazza, la corteggiava».
Lucia verrà uccisa poco dopo nella Bmw di Ciccolini. Elisa Bellucci ha il dolore nello sguardo: «Lucia voleva una vita due, ma lui sfuggiva, la maltrattava. Mi chiedeva consiglio e le dicevo allontanati, ti fa del male, ma lei era innamorata, subiva».
Ad un certo punto, però, tutto cambia. «È stato quando mia sorella ha conosciuto Marco — ricorda con un sorriso Elisa — un medico di Catania, un suo coetaneo, una persona speciale, con cui finalmente riesce a fare dei progetti. Una tregua breve. Le pressioni di Ciccolini si fanno più forti, più mia sorella si allontanava, più la perseguitava». Migliaia di messaggi, minacce di suicidio. Finché con la lucida determinazione degli stalker, Vittorio riesce a carpire la promessa di un incontro. «Lasciamoci da amici, adesso ho anch’io una nuova fidanzata». La trappola funziona. La sera del 9 agosto del 2013 Vittorio Ciccolini va a prendere Lucia a Madonna di Campiglio allo “Chalet del Brenta”. Per la ragazza di Pergola è l’ultima notte di vita. Con il cadavere della ex fidanzata accanto Vittorio vaga nella notte, macina chilometri, poi torna a Verona e nasconde l’auto con il corpo di Lucia nel garage della madre. I carabinieri lo arrestano due giorni dopo mentre cammina sconvolto lungo gli argini dell’Adige. Ciccolini confessa subito: «L’ho uccisa, non voleva tornare con me...». A casa dell’avvocato vengono ritrovate due lettere, mai spedite, al padre e all’ex marito di Lucia, l’assurdo tentativo di spiegare perché si sarebbe trasformato in assassino. Elisa si fa forza: «Mia sorella Lucia non tornerà, ma adesso è l’ora di avere giustizia. Vittorio Ciccolini era lucido e deciso, non devono esserci dubbi. E vorrei dire alle donne che subiscono stalking: parlate, confidatevi, chiedete aiuto, soltanto così vi salverete».


“Mi hai gettato l’acido ma io sono qui, sono bella non mi hai cancellata”
di JENNER MELETTI
Lucia ha un viso dolce. È come un quadro che porta ancora i segni di uno sfregio. «Ma vede, riesco a sorridere, piano piano. È una conquista di questi giorni. Comincio a riconoscermi, adesso posso dire che il mio viso ha un’espressione». Fra meno di tre settimane Lucia Annibali sarà in un’aula di tribunale e avrà di fronte Luca Varani, l’uomo che era il suo fidanzato e i due sicari albanesi pagati per buttarle in faccia 400 centilitri di acido solforico al 66%. «Sì, sarò in quell’aula, il 9 dicembre. Non sono una wonder women e nemmeno una donna d’acciaio che non ha paura di nessuno ed è pronta alla sfida. Sarò lì per dire a tutti che sono viva, che mi piaccio, che mi sento forte e bella. Sarò lì per fare vedere cosa mi hanno fatto. Non so nemmeno se parlerò. Starò lì con i pensieri che ho in testa da quel 9 aprile, quando stavo per entrare a casa mia e c’era un uomo pronto con l’acido. Quello che ha organizzato tutto non lo voglio nemmeno nominare. Eppure… Guardi quella foto».
annibali-luciaÈ un ritratto di Lucia, bellissimo. Fosse vissuta cinque secoli fa, avrebbe potuto fare la modella per Raffaello, che abitava a un tiro di schioppo dalla casa dove Lucia ora vive con i genitori Lella e Luciano. «Lui mi diceva che la parte che più gli piaceva di me era il viso e che il mio viso era il più bello che avesse mai visto. Il volto e le mani, diceva. E l’acido ha colpito la faccia e la mano destra. In quell’aula avrò in testa le parole pensate mille volte. Hai voluto cancellarmi ma non ci sei riuscito. Alla fine la tua malvagità non ha vinto». Solo l’altro giorno, all’ospedale di Parma, Lucia Annibali ha potuto vedere le foto scattate nelle prime ore di ricovero. «Me le ha mostrate il primario, Edoardo Caleffi. Non avevo più nulla. Occhi bianchi e spenti, il naso era una macchia rossa e gialla, tutto il volto era un urlo di dolore. L’acidificazione è terribile, è un’uccisione. Ustioni di terzo grado profondo. Il primario mi ha mostrato le immagini per farmi capire quanto sono cambiata in sette mesi e quanto potrò ancora migliorare. Fra pochi giorni farò l’operazione numero 9. La palpebra dell’occhio destro cade in basso e danneggia l’occhio. Toglieranno un po’ di pelle. Io avrò una faccia diversa ma voglio che sia bella. Ci tenevo prima, immagini adesso. In ospedale, appena sono stata un po’ meglio, ho chiesto di fare una ceretta. Erano allibiti, i medici e le infermiere. Ma me l’hanno fatta, hanno capito che per me era importante curare le parti del corpo rimaste intatte. E anche per i capelli… Volevano tagliarli perché li porto lunghi e c’era il pericolo che infettassero il volto. Ho detto no. E allora, un pomeriggio, la dottoressa Silvia Ricci e un’infermiera, fuori orario di lavoro, mi hanno lavato i capelli, piano piano, attente ad ogni ciocca. Sono state meravigliose».
Un incubo mostrerà il suo volto nell’aula di tribunale. «L’ultima immagine, prima che l’acido mi togliesse per lunghi giorni ogni luce e colore, è quella di un volto coperto da un passamontagna nero. Ricordo due occhi che mi guardano. Poi mi è arrivato il fuoco in faccia. Ecco, quell’uomo è il mio incubo. Nei primi giorni, in ospedale, quando ero cieca, ero terrorizzata. I miei aggressori non erano ancora stati trovati, sentivo delle persone muoversi attorno a me, credevo che l’uomo con passamontagna fosse tornato, che volesse finire il lavoro. “Lucia, non temere, sono io”, mi sussurrava l’infermiera. Ancora oggi sogno quel volto, mi sveglio di soprassalto». L’uomo accusato di avere lanciato l’acido — dice l’avvocato Francesco Coli — è Rubin Taun albanese di 31 anni. «Quando ho aperto l’uscio di casa mia — ricorda Lucia — ho capito subito che qualcosa non andava. C’era una seggiola su un tavolo, pensavo ci fossero i ladri. Richiudo subito l’uscio ma qualcuno lo strattona dall’interno. Mi butta l’acido, divento subito cieca e mi metto a urlare. Ricordo che in quel momento ho pensato: l’uomo che scappa mi sente urlare e sarà contento. È riuscito a fare il suo lavoro».
Una maschera di silicone per quattro o cinque ore per compattare la pelle e in tutte le altre ore una maschera di tessuto. «Oggi non la porto perché a Parma con il laser mi hanno tolto i cheloidi, escrescenze delle cicatrici, e ci sono le ferite. Mia madre mi massaggia il viso e la mano tre volte al giorno, faccio fisioterapia tre volte alla settimana. Tutto per riconquistare una normalità che mi è stata rubata. Mi chiedo: con quale diritto? Perché una ragazza deve soffrire tanto per riuscire a essere come prima, che vuol dire ad esempio stare in piedi, lavarsi, allacciarsi i bottoni, sopportare la luce, mangiare? Io non voglio compatirmi, non mi piace drammatizzare né fare la vittima. Ma ciò che mi è stato fatto è obiettivamente atroce e non voglio che succeda più né a me — ho ancora paura — né ad altre donne o uomini».
Un amore con un uomo che teneva nascosta la relazione con la fidanzata “ufficiale”. La pretesa di continuare anche con Lucia. Lo stalking, con pedinamenti, telefonate, danneggiamenti, chiavi rubate. «Ho capito tutto quando mi ha messo le mani addosso. Adesso basta, ho detto. È in quel momento che inizia la paura. Lo dico anche alle altre donne: il pericolo comincia quando si riprende il coraggio di essere se stesse, quando si ritrova l’autonomia. Quando decidi di volerti bene e pretendi il rispetto. Non so se diventerò un simbolo per le altre donne vilipese. Vorrei essere un aiuto per loro e per tutti coloro che debbono sopportare una diversità. Il mio corpo è ancora ferito ma ci sono lacerazioni ancora più profonde, che restano dentro, dentro, dentro… Forse il coraggio è sopportare l’insopportabile. Ma già nelle ore di buio all’ospedale io parlavo con me stessa: è già un’ingiustizia enorme essere ridotta così, se cedo e mi lascio andare l’ingiustizia sarà ancora più grande. Pensavo all’uomo che non voglio nominare. Mi hai tolto la faccia, la casa dove non riesco più a entrare, la vista, la macchina che era stata sequestrata…Ma non mi cancellerai. Avevo ragione. Oggi sono qui. I carabinieri, proprio nel giorno dei miei 36 anni, mi hanno ridato la macchina. Sono riuscita a guidare da Pesaro a qui. In auto pensavo: questa è davvero una festa di compleanno».


Nell’era della (quasi) parità raggiunta prevalgono cliché e stereotipi. Si predica bene ma l’immagine femminile rimane immutabile
di NATALIA ASPESI
Il riscatto impossibile del corpo in vetrina
Ne ammazzavano di più, in passato, ma il fatto non era così rilevante da segnalarlo? Oppure ne ammazzavano meno, perché erano loro, le donne, a non essere rilevanti, e in più sapevano stare al loro posto? Al posto definito dagli uomini e dalle loro leggi, la vita prigioniera destinata a chi nasceva donna e non poteva averne un’altra, al di fuori del dominio, della protezione, del denaro, del piacere e della volontà maschile. Questa storia di secoli, memoria di un regno incontrastato, forse ha lasciato nel Dna maschile, tracce, frammenti, schegge talvolta irreparabili. Magari non ne sanno niente con la testa, ma col corpo sì; del resto se ne curavano poco anche le donne, certe che quello fosse il loro angusto destino, fin quando hanno capito che non era così, che anche a loro spettavano tesori ritenuti solamente maschili: la libertà, il potere, la cultura, il desiderio. E a quella assurda ingiustizia hanno cominciato a ribellarsi, con a fianco tanti uomini, non tutti, che si erano scoperti, senza saperlo, tiranni ed oppressori. In questi decenni tutto è cambiato, le leggi, il mondo dello studio e del lavoro, le gerarchie, i poteri, i rapporti affettivi, di famiglia, sessuali; anche gli uomini, certo, e soprattutto le donne.
Si è quasi raggiunta se non la parità, almeno l’idea della parità nella diversità, e apparentemente tutti l’hanno accettata, la trovano giusta: ma allora perché gli uomini ammazzano le donne che giudicano disubbidienti al loro volere? Se lo chiedono pensosi e dolenti in tanti: si formano comitati, si istituiscono giornate mondiali contro la violenza sulle donne, si approvano sia pure con difficoltà leggi contro il femminicidio, si cancella l’innocente Miss Italia, si tuona contro la pubblicità che mostra donne troppo giovani e troppo belle, sia che lavino estasiate i pavimenti lordati dai loro piccini, sia che, crudeli erotomani, infliggano un tacco a spillo nel torace del povero sedotto, leccando orgasmiche un cono gelato. Il presidente della Repubblica Napolitano ha pronunciato un severo appello contro l’abuso dell’immagine femminile e naturalmente contro la violenza sul corpo delle donne, fisica e psicologica. Servirà? L’uomo che insegue con l’accetta la donna che non vuole più subire le sue prepotenze, si farà convincere da quelle belle parole? E menomale che sta per chiudersi la vicenda bunga bunga, che riempiva ogni mezzo di informazione, trash o colta, di notizie, fotografie, video, di ragazze seminude o travestite da Babbo Natale sporcaccione, pagate per allietare le serate fanciullesche di un anziano allora primo ministro. In quei mesi il famoso immaginario maschile era precipitato in un immenso bordello, dove giovani donne non erano che sederi, seni, bocche e mani, corpi disponibili, a pagamento, a ogni lubrica fantasia.
Tutto finito, tutti rinsaviti? Non proprio, a cominciare dall’informazione che non riesce a comportarsi come predica si dovrebbe, per smettere di mercificare il corpo della donna. È più forte dei suoi buoni propositi l’attrazione per l’abisso in cui chissà come finisce l’idea della donna, quindi non si riesce, pur deplorando massimamente, a non scavare per esempio nel dramma delle baby prostitute o nella tragedia dell’ammazzata, che se magari era più casta e ubbidiente non avrebbe fatto perdere la testa al suo innamorato compagno, con conseguenti venti coltellate. E proprio nei giorni dell’ennesima tavola rotonda, una settimana dopo il convegno a Parma sulle radici culturali della violenza maschile, ecco la copertina pazzesca di un settimanale editorialmente erede dell’anziano protettore di minorenni, che probabilmente colpirà al cuore la presidente della camera Laura Boldrini: mostra un corpo femminile giovane, piegato in modo da nascondere il viso, parte inutile dell’utensile femmina, mettendo in primo piano sedere e gambe lunghissime appena velati, su tacchi e suole esagerati e invalidanti: “Prostitute on line” squilla il titolo, “Il mestiere più nuovo del mondo”. Basta ad attirare un paio di lettori in più dei soliti quattro? No, ci vuole l’ulteriore trappola: “Esclusivo, il web a luci rosse città per città”. C’è un film americano, “Don Jon”, diretto e interpretato dal nuovo idolo giovanile, Joseph Gordon Levitt, che passa tutto il tempo libero a masturbarsi guardando porno su Internet, trovandosi molto meglio che con la ragazza di cui si innamora. Per lui e i suoi amici non ci sono donne ma solo sederi, tette, orgasmi, fellatio, cui danno un voto, da 1 a 10. Perché le ragazze vere, che del resto in questo film si adeguano alla visione che i ragazzi hanno di loro, alla fine fanno paura, perché chiedono, parlano, esigono reciprocità sessuale e decisioni per il futuro. Naturalmente le cose cambieranno e almeno nessuna donna verrà ammazzata.
C’è invece un difficile, lungo, bellissimo film tedesco premiato a Venezia e che in questi giorni, come del resto “Don Jon”, arriva nei nostri cinema. “La moglie del poliziotto” di Philip Groning, racconta il lato nero e segreto di una famigliola qualsiasi, lui, lei, la loro meravigliosa bimba di pochi anni. Si amano, sono felici, sembrano bastarsi in una vita chiusa e tranquilla. Ma per una parola sbagliata, per un gesto inaspettato, l’uomo ha scoppi d’ira improvvisi e irragionevoli: e a poco a poco i silenzi si fanno più amari, il corpo di lei è sempre più segnato dai lividi delle percosse, e più lui è furibondo, più lei è sottomessa, bisognosa d’amore. La fine naturalmente è tragica. Reale.

Tratto da: La Repubblica

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