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dambrogio-alessandro-webTrenta arresti, decimato il mandamento mafioso
di Miriam Cuccu - 3 luglio 2013
L’hanno preso nella sua casa di Ballarò, appartenente a quel mandamento di Porta Nuova nel quale regnava quasi incontrastato. Alessandro D’Ambrogio (foto), 39 anni e una condanna definitiva per associazione mafiosa, è stato arrestato la scorsa notte nel corso della maxi operazione “Alexander” condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Palermo, coordinati dal colonnello Salvatore Altavilla. In totale sono scattate le manette, a Palermo ma anche a Trapani e in alcune altre località del territorio nazionale, per trenta persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Sequestrati anche beni del complessivo valore di tre milioni di euro.

Stretto collaboratore del boss latitante Giovanni Nicchi (arrestato il 5 dicembre 2009) D’Ambrogio era uscito dal carcere ad aprile 2011 dopo aver scontato la condanna per associazione mafiosa. Tornato a Ballarò, dove era stato accolto da grida di esultanza, il boss si era subito dato da fare. Appena due mesi dopo viene visto mentre pranzava con i rappresentanti delle famiglie di Porta Nuova, Brancaccio, Villabate, Cruillas, Noce, Pagliarelli, per parlare della redistribuzione del potere in seguito al ritorno in libertà degli storici capimafia palermitani. Il 14 giugno, i carabinieri filmavano un summit del gotha di Cosa nostra a Villa Pensabene. Oltre a D’Ambrogio, presenti alla riunione capimafia del calibro di Tommaso Di Giovanni, in seguito arrestato, Tommaso Natale, oggi in carcere, e Giuseppe Calascibetta, reggente di Santa Maria di Gesù.
Alessandro D’Ambrogio gestiva la fiorente impresa di famiglia di pompe funebri. In realtà secondo le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dal sostituto procuratore Caterina Malagoli della Direzione distrettuale antimafia, il nuovo boss di Porta Nuova stava riorganizzando il mandamento più potente di Palermo, estendendo la sua influenza fino a Corso dei Mille, Brancaccio, Pagliarelli, Uditore. D’Ambrogio avrebbe preso in mano le redini dell’economia mafiosa, anch’essa in fase di crisi (il pizzo non era più sufficiente al mantenimento delle famiglie degli uomini di Cosa nostra in carcere). “Chiedere il pizzo porta a porta è diventato pericoloso. Oltre al rischio, c'è anche la resistenza dei commercianti, che per fortuna, oggi cedono meno facilmente” ha commentato Francesco Messineo, Procuratore capo di Palermo.
Così sono state gettate le basi per una solida alleanza tra le altre famiglie mafiose palermitane, insieme ad alcune della provincia di Trapani, per controllare lo spaccio della droga proveniente dai Paesi sudamericani e dal Nord Africa. Un salto indietro nel tempo fino agli anni Ottanta, nei quali Cosa nostra aveva scoperto il grande business che poteva costituire il traffico di stupefacenti. Una delle attività più lucrose che mai ha conosciuto crisi. Di questo filone dell’inchiesta se ne occupa il procuratore aggiunto Teresa Principato.
“E' una nuova strategia, che negli ultimi anni si è sempre più diffusa nei vari clan della città – ha continuato Messineo – Quello di Porta Nuova è però il più antico, uno dei più pericolosi perché avrebbe avuto in pugno il centro della città, il cuore del capoluogo. Proprio per questo motivo Alessandro D'Ambrogio, nonostante la sua giovane età era riuscito ad affermarsi presto, diventando il vero e proprio capo della sua zona, Ballarò”.
Da una parte guardato dall’èlite di Cosa nostra con rispetto e ammirazione, dall’altra descritto come un fervente uomo di fede appartenente alla confraternita della Madonna del Carmelo di Ballarò (“Un uomo così sensibile non può essere un mafioso”, lo difendevano i parrocchiani) in realtà senza il benestare di D’Ambrogio nessuno poteva muovere un dito. Per vendere sfincioni e stigghiole alle feste popolari, o smerciare sigarette di contrabbando, era necessario richiederne l’autorizzazione.
Le indagini hanno permesso di ricostruire le dinamiche di Porta Nuova, individuando i personaggi che contribuivano alla costruzione dell’impero economico del boss neanche quarantenne. Responsabile della famiglia di Borgo Vecchio, nonché della raccolta del pizzo, il vecchio padrino Antonino Ciresi, coinvolto nelle estorsioni dello chef Natale Giunta, mentre Antonio Seranella, suo comandante in seconda, affiancava D’Ambrogio in tutte le attività. Attanasio La Barbera, Giuseppe Civiletti, Giacomo Pampillonia e Giuseppe Di Maio curavano gli affari del capomafia.
La sua capacità di influenza negli ambienti mafiosi era tale da impedire la partecipazione al matrimonio della nipote di Ciresi, colpevole di avere scelto come marito il figlio di uno “sbirro”. D’Ambrogio avrebbe inoltre minacciato la sua ex fidanzata di non frequentare più l’attuale ragazzo usando il profilo Facebook di Giacomo Pampillonia, arrestato nel corso dell’operazione che ha posto fine alla scalata dell’astro nascente di Cosa nostra palermitana.

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