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martello-trib-occhialidi Anna Dichiarante - 2 marzo 2013
Gli addetti ai lavori lo chiamano il “doppio binario”. E la metafora ferroviaria, pur non essendo scientificamente ineccepibile, sintetizza bene il concetto che raffigura; si tratta, infatti, di quella parte dell’ordinamento giuridico italiano, dedicata ai reati di criminalità organizzata. Norme speciali e specifiche, insomma, che, in ambito penalistico, disciplinano le vicende riguardanti i reati di mafia o taluni reati di particolare allarme sociale.
Un binario parallelo, sul quale viaggiano esclusivamente determinati convogli.
Il “doppio binario”, in realtà, affonda le sue radici in quella legislazione dell’emergenza che - negli Anni Settanta - servì allo Stato per dotarsi di strumenti adeguati nel fronteggiare l’esplosione apparentemente incontenibile del terrorismo politico-eversivo. Ad un fenomeno straordinario e con caratteristiche peculiari parve necessario rispondere con una reazione altrettanto dura, mirata ed eccezionale; con buona pace, spesso, delle garanzie fondamentali previste dalla nostra Costituzione (inevitabilmente compresse da provvedimenti legislativi, attenti più all’efficacia dell’azione repressiva che alla salvaguardia dei diritti individuali). D’altra parte, il metodo sembrò funzionare: tutto sommato, si riuscì a mantenere un equilibrio accettabile tra la severità tenuta nel perseguire i terroristi ed il rispetto dei capisaldi garantistici, intorno ai quali s’andava uniformando il sistema penale italiano.

Così, l’idea della legislazione emergenziale e la sua filosofia di fondo vennero riciclate qualche anno più tardi, quando la sciagurata sfida di Cosa nostra allo Stato raggiunse picchi inauditi di violenza e gravità, rivelando - ancora una volta - l’estrema vulnerabilità delle istituzioni e l’impotenza dei mezzi di difesa a loro disposizione.
L’introduzione, nel codice penale, dell’articolo 416-bis (avvenuta il 13 settembre 1982, ad opera della c.d. legge Rognoni-La Torre) aveva gettato senza dubbio le fondamenta per la costruzione di una macchina repressiva efficiente: la formulazione della fattispecie di associazione per delinquere
di tipo mafioso, infatti, simboleggiava una chiara volontà di criminalizzare e perseguire la mafia in quanto tale, indipendentemente dalla commissione di altri singoli reati da parte di ciascun affiliato.
Senza i necessari corollari, tuttavia, la battaglia continuava a combattersi ad armi impari. Innanzitutto, il giovane codice di procedura penale (entrato in vigore il 24 ottobre 1989) risultava ispirato ad un garantismo troppo rigido e puro per non diventare d’impaccio nella prassi giudiziaria italiana: occorrevano, quindi, correttivi a quegli istituti previsti, in teoria, per tutelare i diritti della difesa, ma, in pratica, indebitamente sfruttati a proprio vantaggio dai mafiosi. Erano poi opportune ulteriori riforme nella vetusta intelaiatura del codice penale, così com’era indispensabile apportare modifiche all’ordinamento giudiziario - cioè alla legge che detta le regole sul reclutamento, il funzionamento e l’organizzazione dei magistrati -, al fine di assicurare un maggior coordinamento tra procure. Ancora, era imprescindibile porre un sigillo al sistema, mettendo mano alla legge sull’ordinamento penitenziario e predisponendo un regime carcerario speciale (la disfatta statale si registrava, spesso e volentieri, proprio nel momento esecutivo della pena, visto che la vita in carcere per molti boss somigliava più alla permanenza in un grand hotel che alla detenzione).
In effetti, molti degli interventi, reclamati a gran voce da parte della magistratura e delle forze dell’ordine, andarono via via concretizzandosi e si concentrarono, soprattutto, nel periodo compreso tra il 1990 ed il 1992; non per caso, in coincidenza con le battute finali del maxiprocesso di Palermo e con l’avvio della stagione delle stragi. Fu così che nacque il “doppio binario”, una stratificazione graduale di decreti-legge e provvedimenti vari, emanati quasi sempre sull’onda dell’urgenza e dell’emozione popolare, in seguito a fatti eclatanti di cronaca. Le norme speciali per la mafia finirono sparpagliate qua e là nell’ordinamento, senza la coerenza, la sistematicità, l’organicità e la meticolosità che avrebbe, invece, richiesto un’opera di legificazione degna di tale nome; in una materia, peraltro, in cui le istituzioni avrebbero dovuto mostrare programmazione, costanza, lucidità.
Al contrario, fu una rincorsa continua a tamponare, di volta in volta, le falle del sistema. Eppure, dentro quei vagoni riservati viaggiavano pure le idee geniali di Giovanni Falcone, soluzioni vincenti senza le quali, nell’immediato, non si sarebbe mai venuti a capo dell’emergenza, mentre, negli anni seguenti, non si sarebbero probabilmente conseguiti alcuni tra i successi giudiziari, di fatto riportati contro le principali organizzazioni mafiose. Anche per questo motivo, il dibattito sulla necessità di una risistemazione del “doppio binario” (o meglio, della legislazione antimafia nel suo complesso) è proseguito per più di un decennio, passando per qualche tentativo rimasto, alla fine, senza esito. Soltanto nel 2011, su delega del Parlamento, il Governo ha varato un decreto legislativo (il n. 159 del 28 settembre 2011, entrato poi in vigore il 13 ottobre 2011), presto soprannominato “codice antimafia”. La speranza di aver raggiunto l’agognato traguardo di una disciplina unitaria ed ordinata, però, è andata spegnendosi nell’arco di breve tempo, perché il codice - promettente nel nome - s’è rivelato come l’ennesimo lavoro lasciato a metà dal legislatore: buona la riforma delle misure di prevenzione, specialmente quelle patrimoniali; buona pure la nuova veste data alla disciplina delle certificazioni antimafia; totalmente abbandonato, invece, il proposito di raggruppare le disposizioni disseminate tra codice penale, codice di procedura penale ed ordinamento penitenziario. Forse per colpa dell’imprecisione e dell’incompletezza della delega consegnata al Governo o forse per scarso coraggio, il risultato, comunque, è stato quello di aver sprecato un’altra occasione e di aver spostato il problema poco più in là.
Peccato, davvero; soprattutto, se si pensa che la nostra legislazione antimafia è potenzialmente una tra le migliori al mondo. Di sicuro, è una delle più strutturate (il delitto di associazione mafiosa, ad esempio, non esiste in Europa, se non in Italia) e viene presa spesso a modello dagli altri legislatori.
Varrebbe, quindi, la pena di affinarla e di armonizzarla come merita.
Chiunque si trovi in prima linea nel contrasto alla criminalità organizzata sa che gli strumenti legislativi giusti possono fare la differenza, a patto che siano maneggiati da persone esperte e preparate; perciò, lo studio di una materia tanto intricata, dispersa e specifica andrebbe condotto in maniera sistematica e, magari, esteso sia tra gli operatori del settore-giustizia sia tra quanti ricoprono incarichi a livello politico, amministrativo e sociale. Troppo di frequente ci si affida ad attori improvvisati, a banalità, a stereotipi e frasi fatte; troppe volte, pur con tutta la buona volontà, chi opera, lo fa nell’incertezza e nella difficoltà di reperire il materiale legislativo; lo fa nell’assenza di una visione d’insieme, di una conoscenza precisa e di una comprensione globale del fenomeno.
Mentre vari corsi di studio - di taglio economico, sociologico, criminologico e storico - sulla criminalità organizzata sono stati avviati, ormai da tempo, presso alcuni atenei italiani (si pensi, per esempio, al corso di economia della criminalità organizzata dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, tenuto da Nicola Gratteri; a quello di sociologia della criminalità organizzata dell’Università Statale di Milano, tenuto da Nando dalla Chiesa, oppure a quello di storia della criminalità organizzata dell’Università di Roma-Tre, tenuto da Enzo Ciconte), è proprio il settore giuridico a procedere un po’ a rilento nell’istituzione di cattedre dedicate all’insegnamento della legislazione antimafia.
Il primato, in tal senso, va riconosciuto all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove - a partire dal prossimo 11 marzo - Raffaele Cantone assumerà il ruolo di docente titolare del corso sui “profili sostanziali e processuali della legislazione antimafia”. Naturalmente, la nota di prestigio di quest’insegnamento sarà proprio l’essere affidato ad un magistrato che vanta un’esperienza profonda nell’ambito dell’antimafia (Raffaele Cantone, oggi giudice presso l’Ufficio del massimario della Corte di cassazione, è stato, infatti, sostituto procuratore presso la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, fino al 2007), oltre che una grande limpidità di pensiero e di linguaggio; del resto, tale circostanza è anche sintomatica di una più intensa partecipazione al dibattito accademico e dottrinale sulla materia, da parte di coloro che concretamente applicano e trasformano in diritto vivente - nella prassi e nelle aule dei palazzi di giustizia - la legislazione antimafia. Ed è, appunto, seguendo questa direzione che il corso si snoderà nell’arco delle ventiquattro ore di lezione, previste per il prossimo semestre: «l’insegnamento della legislazione antimafia in un ateneo napoletano assume un rilevante ed indiscutibile valore simbolico», tiene a sottolineare Cantone, «ma il vero obiettivo - obiettivo indubbiamente ambizioso - sarà quello di formare sin dagli anni dell’Università quegli operatori pratici (avvocati, magistrati, agenti ed ufficiali delle forze dell’ordine) che saranno, poi, destinati ad applicare la materia in questione quotidianamente e non più solo in determinate aree del Paese»; «l’impostazione di fondo del corso andrà nel senso di fornire una lettura sistematica ad una normativa, quella antimafia, nata con una logica emergenziale, ma entrata ormai a far parte dell’ordinamento in modo stabile e non certo come diritto transitorio». «Siamo tutti ben consapevoli» - conclude, infatti, Cantone - «del fatto che la mafia non costituisca affatto un’emergenza di breve periodo (come fu invece il terrorismo), bensì vada affrontata alla stregua di un fenomeno fortemente radicato nella società, in relazione al quale è impossibile prevedere, al momento, se verrà estirpato in tempi rapidi».

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