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caponnetto-antonio2-shobadi AMDuemila - 6 dicembre 2012
«Io ho amato particolarmente Paolo – scriveva diciotto anni fa Antonino Caponnetto ricordando il giudice Borsellino – per la sua semplicità, perché sapeva essere uomo tra gli uomini, per la sua profonda umiltà e immensa umanità, e per la carica d'amore che sapeva spargere intorno a sé. Un giornalista mi ha chiesto quale sia stato il suo insegnamento migliore; di slancio ho risposto: “La sua capacità di sacrificarsi per un ideale”.
Ma non è questo il vero esempio, pur se alto e nobile, che ci ha lasciato; forse il suo segreto sta nell'aver messo insieme queste virtù così rare a incontrarsi: la semplicità, l'umanità, l'amore, il senso religioso del lavoro, tutte doti che oggi, purtroppo, si stanno sfrangiando e disperdendo».

Con queste sue parole vorremmo oggi ricordare Antonino Caponnetto nel decimo anniversario della sua scomparsa. Un senso di grande nostalgia resta impresso nei nostri cuori per tutto quello che ci ha lasciato. Lo scempio a danno della Costituzione che si è consumato in questi anni da parte di una classe politica collusa e di una opposizione troppo spesso silente, se non complice, è stato fortunatamente risparmiato a chi nel nome della Carta Costituzionale ha sacrificato tutta la vita.
Il ricordo di Manfredi Borsellino scritto in occasione del funerale del padre spirituale del pool antimafia ci sprona a continuare a difendere la Costituzione, nel nome di Nino Caponnetto e di tutte le vittime di un sistema criminale che di Cosa Nostra ha solo il volto più conosciuto.

Foto: ©Shobha 

Ti vogliamo bene Antonio!

Di Manfredi Borsellino
Ho conosciuto Nino Caponnetto quando avevo pressoché quattordici anni, ovverossia l’anno del suo insediamento a Palermo come capo dell’Ufficio Istruzione Processi Penali .
Mi ricordo quando venne per la prima volta a casa nostra, un cappotto lungo lungo che lo faceva apparire più alto di quello che era ed un viso bianco; poi venni a sapere che quel biancore era dovuto al fatto che Nino trascorreva tutte le sue giornate in ufficio e nella caserma della Guardia di Finanza presso cui aveva trovato ospitalità senza mai vedere la luce del sole.

Mi parve subito una persona nobile, nobile nel linguaggio, nell’approccio con me, le mie sorelle e mia madre, persino nei movimenti fisici, ma credo che la nobiltà più grande che io sin da allora percepivo in Lui fosse la nobiltà dell’animo.
Capii subito, pur con i limiti dei miei quattordici anni, che il rapporto tra Lui e mio padre non era quello, classico, tra un capo ufficio ed un suo collaboratore, ma più vicino al rapporto che ha un fratello maggiore con il fratello più piccolo.
Si volevano bene Nino e mio padre, talmente bene che pareva non avessero bisogno di scambiarsi tante parole, a volte bastavano semplici sguardi.
Dopo quel primo incontro ho visto ben poche volte Antonio Caponnetto a casa nostra, ed il motivo di queste rare apparizioni lo seppi più tardi: sia lui che mio padre volevano evitare di trovarsi insieme a noi nello stesso luogo, tanto più nella nostra casa di Palermo, assai vulnerabile e non particolarmente protetta. Ci amava come figli, ecco perché le sue preoccupazioni circa la nostra incolumità erano le medesime di nostro padre.
Così lo incontrai altre volte al Palazzo di Giustizia, quando mio padre mi portava con sé, oppure in qualche – rara per la verità – serata trascorsa con le rispettive famiglie.
Giungiamo così ai fatti del ’92.
Antonino Caponnetto pochi anni prima era ritornato nella sua Firenze lasciandoci tutti un po’ orfani; io, personalmente, mi sentivo tranquillo del fatto che mio padre avesse un Capo come Lui, forse perché ingenuamente gli riconoscevo una capacità unica di “proteggere” i suoi “giudici”, di fare loro da scudo. In altri termini ho sempre pensato che la presenza qui a Palermo di una “chioccia” come Nino fosse una sicurezza per mio padre e per Giovanni Falcone, egli era di monito e incuteva timore come nessuno a Cosa Nostra.
Il 23 maggio muore Giovanni Falcone.
Quei giorni terribili Antonio Caponnetto li trascorse a casa nostra, seguendo mio padre ovunque; io, intanto, avevo 21 anni, capivo molte più cose, e mi trattenevo a lungo a parlare con Antonio. Penso che in quei giorni immediatamente successivi alla morte di Falcone Nino avesse capito tutto, intendo dire che aveva capito i rischi concreti che mio padre correva e, forse, sarebbe stato suo intento “salvarlo”.
Non so dire se Nino Caponnetto abbia detto a mio padre di lasciare perdere, mettersi in salvo, ma credo che ciò non sia accaduto, da un lato perché mio padre credeva troppo nel suo lavoro perché potesse “gettare la spugna”, dall’altro perché Antonio aveva la sua stessa tempra sì che sono certo che lo ha sostenuto fino all’ultimo nel suo desiderio di verità e giustizia.
Rimane il fatto che dopo la morte di mio padre Antonio si sia fatto sfuggire l’oramai famosa espressione “è tutto finito”.
Forse sarebbe stato davvero tutto finito se Lui stesso, Nino Caponnetto, non avesse tratto le forze non so ancora da chi e da che cosa per continuare a combattere come nessun altro in questi lunghissimi anni l’arroganza mafiosa.
Vorrei salutarlo come abbiamo sempre fatto conversando con lui telefonicamente: ti vogliamo bene Antonio.
Manfredi Borsellino


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