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de-maurodi Aaron Pettinari - 16 settembre 2012
"La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all'uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell'incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l'impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull'immagine stessa delle istituzioni".

E' questa la conclusione a cui sono arrivati i giudici della prima sezione della Corte d'assise di Palermo. Nelle 2.199 pagine delle motivazioni della sentenza, depositate lo scorso 7 agosto dal collegio presieduto da Giancarlo Trizzino, a latere Angelo Pellino (estensore della motivazione),  viene spiegato il motivo per cui l'unico imputato a processo, Totò Riina, è stato assolto. Viene ricostruito il torbido contesto in cui il cronista del quotidiano "L'Ora" pagò il suo scoop sulla morte del presidente dell'Eni, Mattei, simulata da incidente aereo nei pressi di Pavia il 27 ottobre 1962.
De Mauro - scrive la corte - “era cioè giunto troppo vicino a scoprire la verità non soltanto sul sabotaggio dell'aereo, ipotesi della quale era stato del resto sempre convinto e che, se provata, avrebbe avuto effetti devastanti per i precari equilibri politici generali in un Paese attanagliato da fermenti eversivi e un quadro politico asfittico, incapace di dare risposte alle esigenze di rinnovamento della società e in alcune sue parti tentato da velleità di svolte autoritarie. Ma anche sull'identità dei mandanti, o almeno di uno di loro: Graziano Verzotto (ex dirigente dell'Eni, presidente dell'Ente Minerario Siciliano morto due anni fa, ndr)”. Un personaggio centrale, Verzotto, sia nell'assassinio di Mattei che nel sequestro e nell'omicidio di De Mauro. “A De Mauro, che in realtà orientava su altri i suoi sospetti, e ancora si fidava del presidente dell'Ente Minerario, - si legge nelle motivazioni - mancavano solo alcuni tasselli, alcune conferme; e le chiedeva proprio a Verzotto o le avrebbe chieste a D'Angelo (ex presidente della Regione siciliana n.d.r.) quando finalmente avesse avuto l'opportunità, e non poteva volerci molto, di un colloquio a quattr'occhi, cui non aveva affatto rinunziato». Verzotto «non avrebbe potuto reggere ancora per molto il gioco sottile che lui stesso aveva innescato, cercando di orientare l'indagine di De Mauro nella direzione a sè più conveniente, a cominciare dall'individuazione dei probabili mandanti del complotto. E l'impossibilità di fornire al giornalista i chiarimenti o le conferme che questi gli chiedeva non avrebbe certo mancato di rendere sospetto il suo comportamento”. Il lavoro di de Mauro per Rosi era quasi terminato: “Nella sceneggiatura approntata, dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell'ipotesi dell'attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
“La natura e il livello degli interessi in gioco -scrive il giudice Pellino- rilancia l'ipotesi che gli occulti mandanti del delitto debbano ricercarsi in quegli ambienti politico-affaristico-mafiosi su cui già puntava il dito il professor Tullio De Mauro (fratello del giornalista, ndr) nel 1970. E fa
presumere che di mandanti si tratti e non di una sola mente criminale. Non per questo deve escludersi qualsiasi responsabilità di elementi appartenenti a Cosa Nostra, stante il livello di compenetrazione all'epoca esistente e i rapporti di mutuo scambio di favori e protezione tra l'organizzazione mafiosa e uomini delle istituzioni ai più disparati livelli”.

La scomparsa e i depistaggi
Erano le 21 e 10 del 16 settembre 1970. Il giornalista del quotidiano  ''L'Ora'', Mauro De Mauro, parcheggia la propria auto davanti casa, in Via delle Magnolie 58, e sul portone scorge la figlia Franca ed il fidanzato Salvatore, anche loro appena giunti. Avrebbero dovuto mangiare assieme a pochi giorno dal loro matrimonio.
Anche loro si accorgono di lui e lo aspettano davanti all’ascensore. Passa qualche attimo. Franca torna sui suoi passi perché il padre, che avrebbe dovuto averli raggiunti, non arriva.
Giusto in tempo per sentire qualcuno dire “Amuninni!” e vedere il padre “con la faccia tirata”, allontanarsi in macchina in compagnia di altre persone. “Amuninni”, una parola detta con tono fermo, quasi di comando. E’ l’ultima volta che Franca vede il padre. Undici ore dopo la famiglia denuncia la scomparsa ed iniziano le indagini.
Indagini che hanno subito una lunga serie di depistaggi nel corso degli anni e forse ancora oggi tanto che la Corte ha tramesso gli atti al Pubblico Ministero perché proceda per falsa testimonianza nei confronti dell'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, dei giornalisti Pietro Zullino e Paolo Pietroni, dell'avvocato Giuseppe Lupis e di Domenico Puleo. Tutti avrebbero avuto un ruolo depistante nelle indagini e questo verrà approfondito in un nuovo dibattimento. Il pm Ingroia durante la requisitoria aveva ribadito che "questo è un processo di mafia, ma non solo". E poi ancora: “Non fu solo Cosa nostra a volere la morte del cronista de L'Ora c'erano anche altri ambienti e personaggi interessati, altre organizzazioni non mafiose alleate con Cosa nostra: dalla massoneria deviata alla destra eversiva golpista, dai servizi segreti infedeli a un certo mondo della finanza e della politica”.
Le dichiarazioni di vari collaboratori, tra cui Rosario Naimo, forse non sono state sufficienti a collegare la  scomparsa di De Mauro a Totò Riina, anche se la procura presenterà appello. Per quanto la sentenza possa generare “sorpresa”, questa segue comunque un percorso logico che solo leggendo le motivazioni si potrà svelare. E come ha detto lo stesso Ingroia, ora “la ricerca della verita' sul caso De Mauro proseguirà su due fronti”. E con il processo bis ai “depistatori” si cercherà di capire chi e perché ha ostacolato appunto “la ricerca della verità”. E forse si scoprirà che il “delitto De Mauro” è in realtà un “delitto di Stato”.

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