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agguato foggia c ansadi Antonio Nicola Pezzuto
Una strage, in Puglia, ha acceso i riflettori sull’esistenza di una mafia spietata  che coniuga metodi arcaici con una forte propensione ai moderni affari criminali. Quattro morti: il boss Mario Luciano Romito, il cognato Matteo De Palma e due innocenti, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani, semplici lavoratori che sono stati uccisi perché diventati testimoni scomodi. Adesso la Mafia Garganica o Mafia dei Montanari o Clan dei Montanari occupa le prime pagine di tutti i maggiori quotidiani nazionali. Ma non è nata ieri, anzi, è da un bel po’ che semina morte e terrore con quel suo particolare modo di firmare gli omicidi: sparare in faccia ai nemici per sfigurarli, per distruggerne l’identità, come se non fossero mai esistiti.
Una mafia autonoma che spesso viene impropriamente confusa con la Società Foggiana o, peggio ancora, con la Sacra Corona Unita.
Per capirne un po’ di più, occorre fare un salto indietro nel tempo, esattamente al 30 dicembre 1978, giorno in cui viene ucciso Lorenzo Ricucci e ferito suo figlio Salvatore. I Ricucci, molto vicini alla famiglia Primosa, erano stati colpiti nell’agguato da Francesco e Pasquale Li Bergolis. Questo episodio è di cruciale importanza nella storia della Mafia Garganica. Ne scaturì un violento scontro tra due fazioni: da una parte la famiglia Li Bergolis, spalleggiata da parenti appartenenti ai nuclei familiari dei Lombardi e dei Miucci, dall’altra i Primosa, fiancheggiati dagli Alfieri e dai Basta, tra loro legati da vincoli di parentela. Una faida che ha insanguinato il Gargano con decine e decine di morti. Una mattanza di una crudeltà inaudità che, in realtà, affonda le sue radici ancora più indietro nel tempo, più precisamente nei primi anni Settanta, quando le famiglie Primosa e Li Bergolis non erano in conflitto tra loro e spesso agivano di comune accordo per compiere atti criminali. La guerra nasce dalla volontà di manifestare la propria potenza, di dettare legge seminando orrore e morte. Così la criminalità garganica diventa mafia. Così nasce la mafia di Monte Sant’Angelo. Così una piccola cittadina della provincia di Foggia, famosa per il Santuario di San Michele Arcangelo (Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO), meta di pellegrinaggi di fedeli Cristiani sin dal VI secolo, sede dell’Ente Parco Nazionale del Gargano, diventa l’epicentro di una mafia.
L’11 luglio 2001, la Corte d’Assise di Appello di Bari, al termine del processo Gargano, non riconobbe la mafiosità dei gruppi che si erano selvaggiamente scontrati e li assolse. Per i giudici non esisteva la mafia sul Gargano, per loro si trattava solo di una faida.
Bisognerà aspettare la sentenza della Corte d’Assise di Foggia, pronunciata il 7 marzo 2009 nell’ambito del processo Iscaro-Saburo, per vedere sancita la mafiosità della Mafia Garganica.
Il processo appena menzionato è il risultato di due complesse indagini entrambe condotte dalla DDA di Bari: l’indagine Iscaro del 2001 e l’indagine Saburo del 2003.
C’era un luogo simbolo della Mafia Garganica: la masseria Orti Frenti. Ubicata nella campagna di San Giovanni Rotondo ospitava le riunioni dei capi che si incontravano per prendere decisioni. Questa masseria era di proprietà della famiglia Romito che la gestiva insieme a Francesco Giovanditto. Qui, il 2 dicembre 2003, si svolse un importante summit di mafia per chiarire la dinamica dell’omicidio di Michele Santoro, braccio destro di Franco Li Bergolis, ucciso a Siponto il 25 settembre 2003.
Organizzatori di quel summit erano i fratelli Franco e Mario Luciano Romito, proprio quel Mario Luciano Romito vittima del recente agguato.
L’incontro fu ripreso dagli investigatori che grazie a videogrammi svelavano una verità per tanto tempo non riconosciuta. Quella mafia esisteva, era vera. Non era frutto di invenzioni, né tantomeno una leggenda metropolitana. Il summit costituiva un rito con il quale si consacrava il suo potere.
Ne scaturirono dei processi: l’8 giugno 2006 il GUP di Bari sentenziò che i Romito erano confidenti e in quanto tali non potevano essere mafiosi, l’8 maggio 2008 il  giudizio fu confermato dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari.
Queste sentenze suscitarono dei dubbi nei Giudici della Corte d’Assise di Foggia che il 7 marzo 2009 scrivevano: “Quell’incontro ha rappresentato nell’ottica dei Romito una vera e propria trappola con cui si è inteso colpire i Lombardi ed i Li Bergolis in modo da ottenere il controllo sui traffici illeciti e, in genere, sul territorio di Manfredonia… L’obiettivo dei Romito di danneggiare gli altri è stato perseguito… L’incontro di Orti Frenti, invece, certamente ha rappresentato il modo con cui gli stessi hanno inteso restare i capi indiscussi della criminalità locale”. Gli stessi dubbi ebbero i Giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari il 15 luglio 2010.
L’essere ritenuto confidente delle Forze dell’Ordine, per un mafioso, equivale a una sentenza di morte e il primo a cadere fu Franco Romito.
Il 21 aprile 2009, a Siponto, nel suo regno, veniva raggiunto da quaranta colpi di mitra e lupara. Nell’agguato moriva anche Giuseppe Trotta che gli faceva da autista.
Esplose così una nuova guerra di mafia generata dall’odio dei Li Bergolis nei confronti dei Romito, dai quali si sentivano traditi e incastrati.
Il 18 settembre 2009 è preso di mira Mario Luciano Romito che con il fratello Ivan subisce un attentato. Viene fatto esplodere un ordigno rudimentale nascosto all’interno della ruota anteriore e della carrozzeria dell’Audi A4 dei due fratelli. L’ordigno era stato costruito utilizzando polvere pirica e un congegno meccanico per causare un’esplosione ad ogni leggera vibrazione. Il Romito si stava recando nella locale caserma dei Carabinieri per l’obbligo di firma. Si salvò insieme al fratello.
Mario Luciano Romito sfuggì anche ad un altro agguato, nel quale rimane ucciso suo nipote Michele Romito, il 27 giugno 2010. I killer lo rincorrono e lo feriscono al volto ma riesce a cavarsela anche questa volta. Questo accade a Manfredonia, all’altezza di Viale Padre Pio, lungo la strada che conduce verso la SS.89 per Foggia e a nord verso San Giovanni Rotondo.  
L’uomo era tornato in libertà da pochi giorni dopo aver scontato vecchie condanne per un assalto a un blindato nel nord Italia e un furto in banca a Cerignola. L’ultima volta era stato arrestato il 31 ottobre 2016, nel corso dell’operazione di polizia denominata Ariete, con l’accusa di aver progettato una rapina a un furgone blindato da compiere nell’autunno precedente sul Gargano insieme ad altri otto sodali.
Mario Luciano Romito, questa volta, non è riuscito a sfuggire alla furia omicida dei killer. Si trovava a bordo di un Maggiolino Volkswagen guidato dal cognato Matteo De Palma. Forse avevano un appuntamento proprio con i loro assassini nei pressi della vecchia stazione ferroviaria abbandonata di San Marco in Lamis, lì dove è avvenuto l’agguato. L’esecuzione è stata firmata con un kalashnikov Ak 47 e un fucile calibro 12. Nell’agguato sono rimasti coinvolti due agricoltori estranei alle dinamiche criminali che, probabilmente, erano diventati  testimoni scomodi. Aurelio e Luigi Luciani viaggiavano a bordo del loro Fiorino Fiat Pick-Up. Hanno cercato di allontanarsi visto che il mezzo è stato trovato a 500-600 metri di distanza, ma è stato inutile. Il commando, composto da uomini armati, li ha raggiunti: Luigi è stato ucciso all’interno dell’autoveicolo mentre Aurelio ha fatto in tempo a scendere ma la sua fuga è durata solo pochi metri.
Per capire i fatti raccontati e il contesto in cui sono avvenuti è sicuramente utile riportare quanto scritto dalla Direzione Nazionale Antimafia nell’ultima relazione annuale riguardo al territorio della provincia di Foggia: "Un elemento di supporto alla solidità di tali organizzazioni e alla loro impenetrabilità deriva dal contesto civile della zona, caratterizzata da arretratezza culturale, omertà e illegalità diffusa: sembra quasi impossibile che da tale contesto si sia sviluppata una criminalità mafiosa moderna e flessibile, vuoi riguardo gli obiettivi che si prefigge – essenzialmente finalizzati ad infiltrarsi nel tessuto economico-politico-sociale – vuoi riguardo i modelli relazionali; una mafia proiettata verso il più moderno modello di “Mafia degli Affari”, ma che trae la sua forza dalla capacità di coniugare la sua proiezione più avanzata con i tradizionali modelli culturali del territorio, primo tra tutti l’omertà; nonché con una metodologia di imposizione delle proprie regole all’interno e all’esterno dei gruppi basata sulla forza che si trasforma in ferocia; con regole di vendetta e di punizione mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali. Il risultato di questo connubio micidiale tra modernità e lungimiranza negli obiettivi con valori e metodi arcaici è un capillare controllo del territorio, ottenuto e consolidato con una lunga scia di sangue ed anche con un numero impressionante di “lupare bianche”, su cui gli inquirenti del Distretto stentano a far luce: nessun apporto collaborativo da parte della popolazione; assenza di collaboratori di giustizia; morfologia ostile del territorio che spesso non consente neanche normali servizi di pedinamento, di osservazione e, talvolta, neanche di attività tecniche, non essendo il territorio integralmente coperto dai servizi di telefonia".
Anche la relazione della Direzione Investigativa Antimafia sottolinea l’esistenza di “un contesto ambientale omertoso e violento (determinato anche dalla matrice di familiarità che contraddistingue gran parte dei clan, in particolar modo quelli dell’area del Gargano), con una sempre maggiore commistione tra criminalità comune e organizzata”.
Una mafia, quella Garganica, che fa leva, quindi, su omertà e assenza di collaboratori di giustizia. Una mafia che coniuga spietatezza e riti arcaici con l’abilità di infiltrarsi nell’economia criminale e legale approfittando dello scarso livello di attenzione finora riservatole.

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