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rogoli-pinodi Antonio Nicola Pezzuto - 20 dicembre 2014
Tanto tempo è passato dal maggio del 1983 quando, nel carcere di Bari, Pino Rogoli (in foto) fondò la Sacra Corona Unita. Un’organizzazione mafiosa nata al fine di contrastare l’avanzata delle altre mafie sul territorio salentino. Da sempre considerata la quarta mafia, ha saputo rigenerarsi e reagire alle operazioni della Magistratura e delle Forze di Polizia.
E, soprattutto, è stata in grado di elaborare nuove strategie per riuscire a penetrare nel tessuto economico e sociale per farsi impresa. Così, negli anni, i vari clan hanno deciso di sotterrare l’ascia di guerra, che tante vittime aveva mietuto e tanto sangue aveva fatto scorrere, per siglare una pax mafiosa allo scopo di fare affari senza attirare l’attenzione degli investigatori e ottenere consenso sociale.

Tutto questo è stato portato alla luce dalle più recenti e importanti operazioni delle Forze di Polizia. Ultima, in ordine di tempo, quella dei Carabinieri del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Brindisi, guidati dal Tenente Colonnello Alessandro Colella. I militari hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale di Lecce, Antonia Martalò, su richiesta dei Pm Alberto Santacatterina, della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce e Marco D’Agostino della Procura di Brindisi.
Dodici gli arresti eseguiti. Gli indagati sono accusati di associazione per delinquere di tipo mafioso, cessione di stupefacenti e contrabbando di tabacchi lavorati esteri, aggravati dal metodo mafioso.
L’operazione è stata denominata “Pax” proprio perché dalle indagini emerge il clima di pace instauratosi tra i clan. Nello specifico, i clan operanti nella Provincia di Brindisi.
Il sodalizio “Rogoli - Buccarella – Campana”, i cosiddetti “Tuturanesi”, da un lato, e il sodalizio “Vitale – Pasimeni – Vicientino, i cosiddetti “Mesagnesi”, dall’altro.
L’inchiesta prende il via tra l’ottobre e il dicembre del 2012 per cercare di fare luce sull’omicidio di Antonio Santoro, scomparso il 13 marzo 2008. I resti dell’uomo furono trovati il 26 novembre 2011 nelle campagne tra Brindisi e San Vito dei Normanni.
Le indagini hanno appurato che i detenuti riuscivano a impartire ordini agli associati liberi, che dovevano reperire le risorse economiche per fornire assistenza, anche legale, e occuparsi del mantenimento delle famiglie dei carcerati, attraverso il traffico di stupefacenti e la vendita di tabacchi lavorati esteri di contrabbando. A far da tramite, tra chi è rinchiuso negli istituti penitenziari e chi invece può usufruire della libertà, sono le donne dei boss.
Altro dato interessante emerso dal lavoro degli inquirenti è il ritorno ai riti di affiliazione che erano stati un po’ accantonati per evitare di cadere nella rete degli investigatori. “Dietro ogni affiliazione, c’è un mandato di cattura”, diceva il defunto boss Salvatore Padovano a un imprenditore che chiedeva di affiliarsi. Evidentemente gli uomini della Scu non hanno resistito al richiamo delle origini quando, negli anni Ottanta, pronunciavano la famosa formula contenuta nel vangelo del sacrista: “Giuro sulla punta di questo pugnale, bagnato di sangue, di essere fedele a questo corpo di società formata, di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione; giuro di dividere centesimo per centesimo e millesimo per millesimo fino all’ultima stilla di sangue, con un piede nella fossa e uno alla catena per dare un forte abbraccio alla galera”.
Nel corso delle indagini gli inquirenti hanno intercettato in carcere una conversazione che comprovava un rito di affiliazione, accompagnato dal passaggio di una sigaretta fra l’affiliato e il suo “padrino”: “Adesso sono vestito di un vestito più importante di quello che indossavo prima”, questa la formula captata dagli investigatori. Le affiliazioni vengono fatte quasi sempre di sabato, spesso all’interno degli istituti penitenziari, nei cortili, nei bagni o nelle docce. Una Sacra Corona Unita in piena evoluzione che è riuscita a tagliare il traguardo della terza generazione tramandandosi dai nonni ai padri per arrivare ai figli.
Esiste quindi un pericolo di radicamento della Scu sul territorio, come evidenziato dal Procuratore Capo Cataldo Motta che lancia il suo grido d’allarme: “Se la gente si avvicina alla cultura mafiosa, siamo finiti. Non si può abbassare la guardia. La sensazione è che si sia passati dalla solidarietà nei confronti delle Forze dell’Ordine e della Magistratura ad una specie di disinteresse generale al fenomeno mafioso. E quando questo accade si crea una contiguità con la società”.

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