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logo-giudicidi Antonio Nicola Pezzuto - 12 gennaio 2013
Oltre settant’ anni di carcere sono stati invocati dal sostituto procuratore Alessio Coccioli per gli imputati del processo scaturito dall’ operazione “Shylock”. Il blitz del 6 luglio 2010 prese il nome dal celebre usuraio dell’ opera di Shakespeare “Il mercante di Venezia”.

I carabinieri del comando provinciale di Lecce smantellarono un’ associazione per delinquere finalizzata all’ usura, all’ estorsione, all’ esercizio abusivo di attività finanziaria e al riciclaggio. In base ad un’ ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Maurizio Saso, tra Trepuzzi, Surbo, Lecce, Lequile e Nardò, furono eseguiti diciannove arresti (18 in carcere ed uno ai domiciliari). Sei persone furono denunciate a piede libero. Tre di loro sono accusate di favoreggiamento perché hanno sempre negato di essere vittime degli usurai, nonostante i riscontri investigativi. La posizione di uno di loro, che successivamente ha deciso di collaborare con gli inquirenti fornendo elementi preziosi per le indagini, era già stata stralciata e molto probabilmente sarà archiviata.
Le indagini cominciarono nel febbraio del 2009 in seguito alla denuncia di un imprenditore di Trepuzzi operante nel settore della vendita di apparecchiature e delle consulenze in ambito informatico. L’ inchiesta, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, dal procuratore capo Cataldo Motta e dal sostituto Alessio Coccioli, permise la scoperta di sei canali usurari con collegamenti con personaggi vicini alla Sacra Corona Unita. Fondamentali, per il buon esito dell’ operazione, furono le intercettazioni telefoniche, le indagini bancarie e le consulenze di natura finanziaria. Una decina in tutto le vittime accertate, ma solo in quattro hanno denunciato: tre imprenditori in difficoltà ed un impiegato.
A capo del sodalizio criminale, secondo l’ accusa, vi sarebbero stati tre uomini: Alfredo Scardicchio, Francesco Fantastico e Luigi Durante. Quest’ ultimo, che è uno dei proprietari della Finanziaria Fin.Co. di Nardò, prestava denaro alle vittime servendosi della sua società.
Uno dei metodi maggiormente utilizzato era quello del cambio assegno post-datato, che faceva lievitare gli interessi al 120% annui e, in alcuni casi, addirittura al 300%. Gli imprenditori, soffocati dalla crisi economica, erano costretti dall’ organizzazione a sottoscrivere prestiti da società finanziarie attraverso il meccanismo della truffa con comunicazione di dati falsi (concernenti, per esempio, le buste paga). Denaro che, in realtà, serviva per pagare gli usurai.
Chi si opponeva o non era in grado di far fronte ai debiti contratti subiva minacce e intimidazioni.
I “riscossori”, a cui veniva affidato il compito di “recupero crediti”, erano Fernando Persano e Andrea Lacirignola. Personaggi già condannati per associazione mafiosa e considerati appartenenti alla Scu, in particolare al clan Cerfeda. Un ruolo fondamentale, in tal senso, l’ avrebbe avuto anche Alessio Perrone, pluripregiudicato, figlio di Antonio, noto boss della Sacra Corona Unita e autore del libro “Fine pena mai”.
“Se mi denunci o non paghi ti sparo”, “Ti trasciniamo legato alla macchina per le vie del paese”, “Daremo 500 euro ad uno di Surbo per risolvere la situazione”, “Stai attento perché tutti abbiamo moglie e figli”, “Gli auguri di Pasqua te li faremo il 18 aprile”.
Questi sono alcuni dei messaggi di minaccia indirizzati ad una delle vittime dei prestiti usurari. Ne parlò in aula Mario Luigi Faggiano, soprannominato a Trepuzzi “Formaggino”, nell’ udienza del 18 aprile dell’ anno scorso (la data citata nelle minacce) quando denunciò ulteriori minacce: “Sappiamo ca sta faci lu cantante. Ritira tutto ca poi te iutamu nui” (Sappiamo che stai parlando. Ritratta tutto che poi ti aiutiamo noi. Nda).
Faggiano, costituitosi parte civile, raccontò di essere finito nelle grinfie degli usurai perché le banche gli avevano negato nuovi prestiti. Così avrebbe ricevuto dall’ organizzazione una cifra oscillante fra 150-200mila euro. “Firmai dodici cambiali da mille euro ciascuna, a fronte di un prestito di 5.360 euro”, dichiarò ai giudici della Prima Sezione Penale.
Alle minacce verbali avrebbero fatto seguito anche le violenze fisiche consistenti in schiaffoni e percosse.
Nel corso dell’ operazione furono anche sequestrati beni mobili e immobili, nonché conti correnti bancari. Uno di questi era intestato ad una confraternita e veniva utilizzato da uno degli arrestati per i prestiti a “strozzo”.
Il pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia Alessio Coccioli ha chiesto la confisca del patrimonio sequestrato.

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