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capaci-tribunalepalermoScopri il nuovo ANTIMAFIADuemila
di Giuseppe Lo Bianco*
Di Matteo, lo Stato e la mafia. La ricerca intransigente della verità: unico antidoto per un Paese sottomesso ad una mafiosizzazione culturale, sociale e istituzionale.
Ci sono decisioni destinate a ripetersi a distanza di 27 anni, come se la storia non avesse insegnato nulla. E ci sono parole destinate a ripetersi, con millimetrica ipocrita precisione, per coprire con il manto della lode che non costa nulla l’ignavia di una bocciatura che arriva, guarda caso, oggi come allora, quando il magistrato più esposto, minacciato, scortato, divenuto, in una parola, simbolo, della lotta alla mafia (e oggi allo Stato-mafia) sempre più delegata a singoli magistrati, chiede di trasferirsi da Palermo a Roma per continuare, con mezzi e ruoli diversi, la stessa lotta.

Accadde 27 anni fa con Giovanni Falcone, accade oggi con Nino Di Matteo, e la prima considerazione che mi è saltata agli occhi, subito dopo, ovviamente, il gravissimo surplus di sovraesposizione e di rischio che la bocciatura determina, è che le parole e i concetti utilizzati per negare il legittimo, meritato e necessario (per il Paese) cambio di ufficio sono gli stessi. Leggendo le parole dello scarno comunicato del Csm secondo cui “i meriti e la notevole esperienza’’ di Nino Di Matteo “non sono stati sottovalutati o ignorati”, e anzi nei suoi confronti il Consiglio superiore ha manifestato un “sicuro apprezzamento’’, tornano in mente le parole pronunciate a palazzo dei Marescialli il 19 gennaio del 1988 da Vincenzo Geraci, il “giuda’’ indicato da Paolo Borsellino nell’incontro del ‘92 alla Biblioteca comunale di Palermo: “Falcone è stato il migliore di tutti noi - disse, utilizzando il passato prossimo con un lapsus profetico - eravamo una pattuglia di samurai contro la mafia’’. Per Geraci Falcone era il migliore e avrebbe voluto, dice, votare per lui: “le notorie doti di Falcone e i rapporti personali e professionali mi indurrebbero a sceglierlo ma...’’. C’è un ma: “mi è di ostacolo - spiegò - la personalità di Meli cui l’altissimo e silenzioso senso del dovere costò la deportazione nei campi nazisti, con sofferenza e umiltà esprimo questo voto”. Era il gennaio del 1988, dopo la bocciatura di Falcone iniziò la stagione dei veleni prima concentrati sulla Squadra Mobile, dilaniata da lotte interne (per voltare pagina venne mandato da Roma Arnaldo La Barbera) e poi nell’ufficio istruzione trasformato dal consigliere istruttore Nino Meli in un centro di smembramento delle inchieste antimafia. Campagne mediatiche furibonde di delegittimazione contro i giudici comunisti, i giudici sceriffo, malati di protagonismo, di visibilità sui giornali, colpevoli di perseguire i mafiosi senza tenere conto della terzietà del giudice.
Capitoli di storia vissuta dai cronisti giudiziari di allora che oggi non hanno più bisogno di riproporsi: a orientare il Csm verso il semaforo rosso a Nino Di Matteo basta il clima politico culturale costruito nel ventennio berlusconiano e fatto proprio dal Colle più alto di Roma (almeno fino al secondo mandato di Giorgio Napolitano). E se i risultati restano inalterati, nella sostanza, c’è qualche differenza nella forma che è bene sottolineare, per comprendere come è cambiata e verso dove va la lotta alla mafia (e allo Stato-mafia).
(segue)

* Per leggere l’articolo integrale pubblicato sul n. 72 di ANTIMAFIADuemila acquista il nuovo numero!

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