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di Aaron Pettinari
Ribaltata la decisione del Tar del Lazio

L'ex magistrato Antonio Ingroia, oggi avvocato, avrà nuovamente il servizio di tutela. Lo ha deciso il Consiglio di Stato, presieduto da Franco Frattini, dopo il ricorso presentato dallo stesso a seguito della decisione del Tar del Lazio che si era espresso negando la sospensione del provvedimento con il quale gli era stata revocata la misura di sicurezza personale e, in particolare, della misura di 4° livello, in quanto i giudici non ravvisano i presupposti per il ripristino immediato.
In particolare i giudici, valutando l'attività istruttoria svolta dal Ministero in seguito alle sollecitazioni dello stesso Ingroia, hanno ravvisato come la stessa "ha mostrato che un rischio non possa ritenersi ad oggi del tutto escluso".
Rischi per l'incolumità che possono essere connessi "alla sua pregressa attività di magistrato", tenuto conto che si tratta di un "soggetto che è stato a lungo impegnato nella lotta contro la mafia". Pertanto i giudici hanno disposto il ripristino immediato del servizio di tutela, chiedendo al contempo all'Ucis comunque di riesaminare il caso in maniera più approfondita, tenendo conto proprio delle indicazioni precedenti.
Il primo provvedimento di revoca della tutela portava la firma dell'allora ministro dell'Interno, Marco Minniti, con una decisione che fu di fatto confermata anche da Matteo Salvini, nonostante le lettere con cui lo stesso Ingroia ribadiva la necessità di un maggior approfondimento.
L'ex magistrato aveva evidenziato una serie di episodi che dimostravano come la sicurezza nei suoi confronti fosse tutt'altro che non necessaria.
Il capo dei capi Totò Riina, deceduto nel dicembre 2017, lo definiva come "Il Re dei cornuti" mentre il collaboratore di giustizia, Carmelo D'Amico, ha raccontato che tra gli obiettivi di Cosa nostra vi era quello di colpire il dottor Di Matteo ed anche Antonio Ingroia. Nel 2009 il boss mafioso Domenico Raccuglia, allora latitante, vicino a Matteo Messina Denaro, venne arrestato nei pressi della casa di campagna dell'ex pm mentre stava preparando un attentato nei suoi confronti. E nel 2011, mentre era ancora in corso l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, un collaboratore di giustizia calabrese, Marco Marino, disse che Cosa nostra e ’Ndrangheta stavano preparando un attentato con venti chili di esplosivo.
Ma l'attività di Ingroia sul fronte della criminalità organizzata non si è affatto conclusa, tenuto conto l'impegno come difensore di collaboratori di giustizia e familiari di vittime di mafia, tra cui quelli dei carabinieri Fava e Garofalo, uccisi nel 1994 a Scilla, oggi parte civili al processo 'Ndrangheta stragista.
Non si può dimenticare che nel novembre 2018 ignoti entrarono nella sua abitazione senza lasciare alcuna impronta e sottraendo alcune pen drive al cui interno vi erano atti processuali del periodo in cui era magistrato e di quelli attuali da avvocato; ma anche appunti e considerazioni personali su inchieste delicate.
"La politica mi ha tolto la scorta e la giustizia me l'ha restituita - ha dichiarato lo stesso Ingroia, da noi raggiunto telefonicamente - Posso essere sicuramente soddisfatto del provvedimento del Consiglio di Stato che riconosce di fatto quel principio che in molti avevano dimenticato, ovvero che la mafia non dimentica. Per vent'anni mi sono occupato di mafia come magistrato in prima linea e già nelle missive inviate ai due ministri dell'Interno che si sono succeduti chiedevo una seria ed approfondita disamina dei fatti. Anche perché il tema della sicurezza non può essere certamente affrontato in modo prettamente burocratico". "In questi mesi - ha proseguito l'ex pm - quel che mi ha lasciato abbastanza l'amaro in bocca non è stato il fatto in sé ma tutte quelle cose che sono state scritte in riferimento ai presunti non brillanti risultati politici elettorali o rispetto l'attività di amministratore della Sicilia E-Servizi o come avvocato. Come se tutto questo possa cancellare l'impegno di vent'anni da magistrato. Colgo anche l'occasione per ringraziare i cittadini ed i comitati che si sono mobilitati (on line era stata aperta una petizione che aveva raggiunto oltre cinquemila firme, ndr) per esprimere la loro vicinanza e chiedere il ripristino della tutela". Anche per loro la decisione del Consiglio di Stato può essere visto come una piccola vittoria.

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