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cavallini gilberto c corriere del venetodi Antonella Beccaria
Respinta qualsiasi vicinanza con servizi segreti o altre strutture dello Stato come Gladio

È stato il giorno in cui l'imputato ha iniziato a rispondere alle domande delle parti. A dare la propria versione di quello che accadde il 2 agosto 1980, il giorno in cui esplose una bomba alla stazione di Bologna, è stato Gilberto Cavallini, accusato di concorso in quella strage con gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in via definitiva. Ma prima di sottoporsi all'esame ha voluto rendere dichiarazioni spontanee avendo come obiettivo, ancora prima di professare la propria innocenza, quello di colpire l'associazione dei familiari delle vittime a cui ha promesso una denuncia per calunnia.
La denuncia riguarda il contenuto di una scheda redatta dai consulenti dell'associazione e depositata dai legali di parte civile. In essa lamenta non errori o inesattezze, ma la definisce un “raro concentrato di falsità” che riguardano il suo coinvolgimento nel delitto del presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio 1980 e per il quale è già stato assolto. Ma respinge anche trasporti di esplosivi, elaborazione di documenti a “esaltazione dello stragismo indiscriminato” o la vicinanza a strutture come Gladio.

L'attacco alle vittime
Risponderemo con i documenti”, ha ribattuto a margine dell'udienza Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione vittime. Che ha aggiunto: “Oggi muove accuse a persone decedute da oltre vent'anni”. Si riferisce a un passaggio iniziale della dichiarazione che chiama in causa Torquato Secci, che fu il primo presidente dell'associazione dalla sua fondazione, nel 1981, fino alla sua morte, nel 1996. Per Cavallini, “il signor Secci”, a cui si rivolse in un'udienza del processo di primo grado celebrato oltre trent'anni fa chiedendogli se fosse davvero convinto della responsabilità dei Nar, “rispose che la strage era sicuramente di matrice fascista, che noi eravamo fascisti e se anche noi non eravamo gli effettivi autori, comunque sapevamo chi era stato e perciò noi dovevamo comunque essere condannati”.
Questo in forza di una presunta influenza del Pci sulla magistratura arrivata almeno fino al rinvio a giudizio di Cavallini per strage, della necessità di “tutelare a ogni costo” una “ragione di Stato [...] incarnata dal cosiddetto lodo Moro” e dalla necessità del partito comunista di “smarcarsi dalla rappresaglia del gruppo palestinese denominato Flpl con il quale condivideva la stessa matrice filosovietica”. Insomma, è la riproposizione della pista mediorientale su cui sono tornati anche gli ex militanti di Terza Posizione, Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, in una conferenza stampa tenutasi il 29 gennaio 2019 a Bologna durante la quale hanno rilanciato mettendo sul piatto la “pista neo-trotskista” che emergerebbe - senza fornire riscontri al momento - da documenti desecretati in Paesi dell'Europa orientale.
Perché le accuse a Secci le tira fuori solo adesso?”, chiede Paolo Bolognesi. “Torquato non avrebbe mai fatto niente del genere, ma poteva contestarglielo quando era ancora in vita. Di tempo a disposizione ce n'era”.

bologna collage

Carriera di un terrorista
Ma chi è Gilberto Cavallini? Ristretto nel carcere di Terni e attualmente in regime di semilibertà, l'ex neofascista è stato condannato all'ergastolo e riconosciuto colpevole di reati come banda armata, calunnia, favoreggiamento, omicidio, associazione a delinquere e sequestro di persona, per limitarsi solo ad alcuni. Nato a Milano il 26 settembre 1952, dopo un'infanzia trascorsa a frequentare gli ambienti cattolici per volere della madre, da adolescente decide di seguire le idee politiche trasmessegli dal padre e aderisce al Movimento Sociale Italiano.
Fino al 1976 la sua militanza - ha sostenuto in udienza - rimane negli ambienti della destra parlamentare. Poi, nell'aprile di quell'anno, viene coinvolto nel primo omicidio, quello di un ventunenne del Comitato Antifascista milanese Gaetano Amoroso e finisce in carcere. Poco più di due anni dopo, nell'agosto 1978, riesce a evadere durante una traduzione a Brindisi e di lì inizia la sua latitanza, durata fino al 12 settembre 1983.
Nella versione fornita in aula, “corregge” alcuni particolari di cui parlò in precedenza. Dall'Abruzzo, non andò a Roma per poi riparare al nord, ma venne portato direttamente in Veneto da Piero Battiston, del gruppo milanese La Fenice, dove entrò in contatto con elementi di Ordine Nuovo, l'organizzazione neofascista il cui marchio torna in molte stragi. Tra questi Roberto Raho, Massimiliano Fachini e Carlo Digilio, il futuro pentito che consente negli anni Novanta al giudice istruttore Guido Salvini di riaprire le indagini. Nel primo periodo della latitanza, Cavallini dice di essere stato curato per un problema a un orecchio da Carlo Maria Maggi, il medico mestrino a capo di Ordine Nuovo per il Triveneto condannato per la strage di Brescia, avvenuta in piazza della Loggia il 28 maggio 1974, e scomparso a fine 2018 (Maggi, in vita, negò di aver conosciuto Cavallini).

Mai avuto a che fare con i servizi segreti
Ma soprattutto l'imputato di oggi respinge qualsiasi vicinanza con servizi segreti o altre strutture dello Stato. “Non mi sarei fatto 36 anni di prigione”, ha detto in aula. E lo nega anche per personaggi come Pierluigi Concutelli, l'assassino del pubblico ministero di Roma Vittorio Occorsio ucciso il 10 luglio 1976 con due raffiche di Ingram. Nega pure che Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo, abbia mai avuto ruoli in operazioni sporche come l'eliminazione in Spagna di indipendentisti baschi militanti nell'Eta, nonostante questi fatti siano contenuti nelle sentenze che hanno condannato in via definitiva l'ordinosta per l'omicidio del magistrato (anche Cavallini uccise un magistrato: era Mario Amato, che raccolse le indagini di Occorsio sulla galassia del terrorismo nero e che fu ammazzato il 23 giugno 1980).
A maggior ragione allontana lo spettro del Noto Servizio - un servizio segreti informale che gestì operazioni sporche almeno fino all'inizio degli anni Ottanta - dalla carrozzeria Luki di Milano, dove Gilberto Cavallini aveva ricoverato la sua auto quando ci fu lo scontro a fuoco in cui rimase ucciso il 26 novembre 1980 il brigadiere dei carabinieri Ezio Lucarelli. Per lui era solo l'officina di “Mimmo il carrozziere di Vimodrone” amico di Mauro Addis, della banda Vallanzasca, che “faceva i tarocchi” alle automobili che portavano accontentando malavitosi e anche qualche poliziotto non troppo ligio al dovere. “Era un punto d'appoggio”, ha ribadito Cavallini. “Fu anche il motivo per cui successe quello che è successo”, riferendosi all'omicidio Lucarelli, “era una carrozzeria malfamata”.
Nella sostanza, per l'imputato l'unica linea era quella spontaneista, lontana dagli intrallazzi di Ordine Nuovo con servizi segreti più o meno deviati. Eppure, nonostante i suoi legami con alcuni leader ordinovisti, nelle udienze passate c'è stato chi su questa purezza non ci avrebbe giurato. A iniziare da Valerio Fioravanti, che su Cavallini non ci avrebbe “messo la mano sul fuoco”.

Foto © Corriere del Veneto

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