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rostagno mauro 850 c ansaA trent'anni dall'omicidio diverse le commemorazioni per ricordarlo
di Aaron Pettinari - Video
Dietro l'uccisione di Mauro Rostagno c'era il suo "esemplare lavoro giornalistico" che aveva sollevato il velo sulla ragnatela di interessi di Cosa nostra a Trapani. Il sigillo sulla matrice del delitto è arrivato con le sentenze di condanna degli esecutori materiali.
Lo scorso febbraio la Corte di Assise di Appello di Palermo, condannando all'ergastolo il boss di Cosa nostra trapanese Vincenzo Virga, ha confermato che è stata la mafia ad ucciderlo il 26 settembre 1988. Tuttavia quel collegio, presieduto da Matteo Frasca e con giudice a latere Roberto Murgia, ha assolto per non aver commesso il fatto Vito Mazzara, accusato di essere stato il killer del sociologo e giornalista, riformando la sentenza di primo grado.
I giudici non hanno ritenuto sufficienti per una condanna le analisi delle impronte genetiche trovate sui resti del fucile a canne mozze rinvenuti per terra sul luogo del delitto (la canna di legno si ruppe al momento dell’esplosione dei primi colpi), effettuati dai periti della Corte d'Assise di Trapani Paola De Simone, Elena Carra e Silvano Presciuttini. Ancora non sono note le motivazioni della sentenza di appello mentre in quelle di primo grado si legge che quell'omicidio era “volto a stroncare una voce libera e indipendente che denunziava il malaffare, ed esortava i cittadini trapanesi a liberarsi dalla tirannia del potere mafioso”. Dunque Rostagno andava eliminato per “mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere”.
Solo la mafia voleva la sua morte?



I processi hanno ricostruito il lavoro compiuto da Rostagno. Un impegno che partiva dal suo centro Saman, nato a Lenzi (vicino a Trapani) come comunità di arancioni convertita ben presto in centro terapeutico per il recupero di tossicodipendenti.
Poi, nel 1986, diventò anche giornalista televisivo a Rtc, impegnandosi in un'attività giornalistica che aveva acceso i riflettori sui traffici di Cosa nostra, sui suoi intrecci con i poteri occulti e sulla sua penetrazione nella pubblica amministrazione. Con i
suoi interventi, il giornalista era diventato una "camurria", un rompiscatole. Questo era stato il giudizio indispettito di Francesco Messina Denaro, il padre del superlatitante Matteo che a quel tempo governava il vertice di Cosa nostra a Trapani. Con i suoi servizi Rostagno aveva svelato il volto nuovo della mafia in una città avvolta nelle trame di un'organizzazione diventata moderna e dinamica, collegata con la massoneria deviata e in grado di controllare le grandi scelte amministrative e il giro degli appalti.
Mafia, dunque, ma non solo mafia. Eppure per molto tempo le indagini sul delitto Rostagno sono state frenate da omissioni, sottovalutazioni e depistaggi. Al punto che, messa da parte la pista mafiosa, si è cercata un'altra improbabile verità con l'amplificazione di presunti contrasti e rivalità all'interno della comunità Saman, di cui Rostagno era stato uno dei fondatori.
Oggi, a 30 anni di distanza, si torna a fare memoria partendo proprio dal lavoro di inchiesta che Rostagno faceva. A Trapani e Valderice un cartello di associazioni - tra cui Articolo 21, Libera e Anpi - ha organizzato vari momenti: un incontro sul luogo del delitto, l'inaugurazione di murales, la proiezione del documentario 'La rivoluzione in onda', realizzato dal regista Alberto Castiglione con il materiale video recuperato negli archivi di Rtc, la tv di Rostagno. A Palermo, invece, si terrà un altro appuntamento di ricordo organizzato al teatro Biondo dall'Ordine dei giornalisti e Unci, unione nazionale cronisti.

Foto © Ansa

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