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montagna longa c scafididi Margherita Furlan
Presentato un esposto alla Procura di Palermo. Secondo il professor Rosario Ardito Maretta “non si trattò d’incidente ma fu un atto di terrorismo”
Sono trascorsi 46 anni da quando, alle 22,24 del 5 maggio 1972, un aereo, un DC-8 dell’Alitalia partito da Roma con 30 minuti di ritardo, in fase di atterraggio all’aeroporto palermitano di Punta Raisi, si schiantò su un costone di roccia tra Cinisi e Carini. Il disastro di Montagna Longa, il più grave dell’aviazione civile nell’Italia del dopoguerra fino a quello di Linate del 2001, costò la vita a 118 persone. Per gli organi giurisdizionali, che impiegarono dodici anni a pronunciarsi, si trattò di errore umano. Il comandante Roberto Bartoli, che a Palermo era atterrato 57 volte, e il primo ufficiale Bruno Dini avrebbero scambiato il radiofaro dell’aeroporto con quello posto dieci miglia più a sud, sul Monte Gradara. Non dissimile l’esito dell’inchiesta ministeriale, che, nel tempo record di dodici giorni, arrivò alla conclusione che si trattò di una fatale sciagura, in una mite serata primaverile.
Da subito però molti dubbi s’insinuarono lungo la spesso tortuosa strada della ricerca della verità. L’agenzia Reuters fin dall’8 maggio 1972, tre giorni dopo lo schianto, scrisse di un’esplosione a bordo dell’aereo, causata da una bomba. Ancora oggi i familiari delle vittime si arrovellano sull’accaduto e chiedono la riesumazione dei corpi. L’ultimo no della magistratura risale allo scorso maggio 2018 quando Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica all’Università di Palermo, depositò una perizia alla procura di Catania, che svolse le prime indagini. I punti su cui si soffermò l’ingegnere riguardano i bagagli, che apparivano esplosi; le parole di un testimone oculare secondo cui l’aereo bruciava mentre era ancora in volo; il velivolo non carbonizzato per intero; la totale assenza di segni di “vetrificazione”, processo che si manifesta sul silicio naturalmente presente nel terreno quando è esposto a temperature che superano gli 800 gradi. Ma non è ancora tutto. Un altro capitolo dei dubbi riguarda la scatola nera dell’aereo, che casualmente si guastò cinque giorni prima della tragedia senza che nessuno intervenisse o segnalasse il problema [Francesco Terracina, "L'ultimo volo per Punta Raisi”, ed. Stampa Alternativa, 2012, ndr].
Arriviamo dunque al momento attuale, quello in cui scriviamo, per rilevare un nuovo tentativo di fugare i dubbi tra le ombre. Quello posto in essere, ancora una volta, dall’ingegner Rosario Ardito Marretta. Il professore ha appena consegnato una memoria di quasi 200 pagine al procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, per conto dell'Associazione familiari delle vittime di Montagna Longa. Nello studio - lo stesso dapprima presentato alla procura di Catania - Marretta ha utilizzato, come lui stesso spiega, "moderne applicazioni del processo di calcolo delle equazioni della meccanica del volo della recentissima 'Computational fluid dynamics' e dell'uso degli algoritmi di calcolo computerizzato”, giungendo alla conclusione che il DC-8 dell’Alitalia finì contro le montagne a causa di un'esplosione e del conseguente incendio a bordo che avrebbe compromesso la funzionalità dei comandi. Marretta aggiunge anche che la scatola nera sarebbe stata manomessa in modo da impedire ai piloti di accorgersi del suo mancato funzionamento. “Un atto terroristico, preparato nei dettagli”, è dunque la tesi sostenuta del professore che ora la procura di Palermo si troverà a vagliare per disperdere le troppe ombre di una delle tante tragedie che hanno colpito il cosiddetto Belpaese.
Ombre che si trovano anche nel cosiddetto Rapporto Peri, un documento che prende il nome dal suo autore, Giuseppe Peri, capo della squadra mobile di Trapani nel 1976, uomo che per primo mise in relazione Cosa Nostra all’eversione neofascista. Un anno prima di Montagna Longa c’era stato un delitto eccellente, quello del procuratore di Palermo Pietro Scaglione, che indagava anche su episodi riconducibili alla strategia della tensione in Sicilia e probabilmente per questo oggetto di un feroce tentativo di screditarlo addossandogli la responsabilità per la mancata cattura nel 1969 del boss corleonese Luciano Liggio. “Non è convincente per lo scrivente”, appuntava nelle 33 pagine del suo rapporto Giuseppe Peri, “che sia un caso fortuito che proprio il 5 maggio del ’71 e del ’72 si verifichino rispettivamente un grave omicidio e un disastro aereo. Ci si pone il dilemma: attentato o disgrazia causata da improvviso guasto? L’ipotesi dell’attentato è corroborata dalle seguenti circostanze obiettive: quella sera era l’ultimo giorno della campagna elettorale; parecchi cittadini di Carini, mentre erano in piazza a sentire l’ultimo comizio, insolitamente videro un aereo che sorvolava la zona e, come scrisse la stampa, già in fiamme; il pilota del DC-8, sorvolando Punta Raisi, diede la precedenza all’aereo proveniente da Catania ritardando, pertanto, di dieci minuti l’atterraggio; i cadaveri, secondo i medici legali, si presentavano disintegrati, cosa che non avviene, invece, a seguito di urti violenti”.
Peri, che vide riprendere il suo rapporto nel 1979 dalla relazione di minoranza della commissione antimafia di cui faceva parte anche Pio La Torre, parlava esplicitamente di elementi che mettevano in relazione fatti siciliani alle bombe di Piazza Fontana del 1969, di Brescia e dell’Italicus del 1974. Per questo a lungo girò l’Italia a caccia di tracce. Ma poi giunse il trasferimento e la paura per la propria incolumità mentre le otto procure a cui inviò il suo rapporto lo lasciarono in un cassetto. Solo anni più tardi Maria Eleonora Fais, sorella di Angela, giornalista de l'Ora, ritrovò il rapporto Peri grazie al giudice Paolo Borsellino. E lo stesso magistrato, poco prima di essere ucciso nella strage di via D’Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992, lo stava studiando in relazione a una serie di sequestri avvenuti in Sicilia negli anni Settanta.
Strane coincidenze si intrecciano tra loro mentre le ombre dei misteri d’Italia si fanno sempre più scure.

Foto © Scafidi

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