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cattafi-rosario-webdi Fabio Repici - 9 novembre 2012
Anni Novanta

Sarà stato per la caduta del muro di Berlino del novembre 1989, sarà stato per la conferma in cassazione delle condanne del primo maxiprocesso il 30 gennaio 1992, certo è che con l’inizio degli anni Novanta le strategie di Cosa Nostra cambiano. In realtà, forse avevano iniziato a cambiare prima, se si pensa all’attentato all’Addaura del giugno 1989, che doveva colpire Giovanni Falcone e probabilmente, insieme a lui, il magistrato svizzero Carla Del Ponte.

In contemporanea, cambia anche il ruolo che negli equilibri di Cosa Nostra tocca a Barcellona Pozzo di Gotto. La cittadina della provincia di Messina inizia a diventare un luogo decisivo, non più soltanto per le latitanze più comode che si siano mai viste per i boss della mafia siciliana.
Cosa Nostra accentua in quegli anni, in misura che mai si era vista nel passato, il proprio carattere stragista; la mafia di Barcellona Pozzo di Gotto partecipa alla strategia stragista.
C’è un uomo che nella storia di Cosa Nostra è stato probabilmente il più abile tecnico in materia di ordigni. Si chiama Pietro Rampulla e cresce a Mistretta, nell’estremo occidente della provincia di Messina, sebbene a un certo punto della sua vita radica i propri interessi anche nell’area di Caltagirone. Nella storia d’Italia Rampulla sarà sempre ricordato come “l’artificiere della strage di Capaci”. Dove aveva acquisito le sue certosine competenze terroristiche? A sentire il pentito Antonino Calderone, Rampulla è un mago delle esplosioni già nella seconda metà degli anni Settanta. All’epoca Rampulla ha meno di 30 anni e proviene dalla turbolenta frequentazione dell’università di Messina, nel corso della quale il suo cammino si intreccia con quello di altri giovani neofascisti e mafiosi il cui nome assumerà un certo rilievo criminale: da Luigi Ilardo, cugino di Piddu Madonia ucciso il 10 maggio 1996 (ucciso per impedirgli di iniziare a collaborare con la giustizia), a Rosario Pio Cattafi, insieme al quale Rampulla raccolse pure una condanna definitiva per fatti avvenuti nell’ateneo peloritano. Certo è che subito dopo quei fatti Rampulla è già un bombarolo fuoriclasse.
Per Capaci è proprio Rampulla a procurare il telecomando che viene utilizzato da Giovanni Brusca sulla collinetta che sovrasta l’autostrada in quel sabato 23 maggio 1992. A consegnarlo a Brusca è il figlioccio di Cattafi, il capomafia barcellonese Giuseppe Gullotti. Questo dice Brusca, che però non spiega i dettagli del reperimento di quel telecomando. È un fatto che in quel periodo Gullotti è a stretto contatto con Cattafi. Infatti, “con particolare riferimento a tale ultime personaggio, il Commissariato di Barcellona, con nota del 28.5.1992 scriveva: ‘… numerosi sono infatti i contatti telefonici tra il Gullotti e Cattafi Rosario ed estremamente confidenziale è il tono delle conversazioni’”.
In questi primi anni Novanta, Cattafi fa ritorno in Sicilia più spesso che nel passato. La sua vita si divide pressoché equamente fra Milano e la Sicilia, senza disdegnare qualche puntata a Roma. Anche nel racconto dei pentiti la sua vita è descritta così, perennemente sull’asse fra Sicilia e Milano, e sempre con le stesse “passioni”. Così Salvatore Maimone: “Non ho conosciuto personalmente Rosario Cattafi: di lui posso dire però che me ne avevano parlato diffusamente Salvatore Cuscunà ed anche Salesi Giovanni. Mi aveva detto in particolare il Cuscunà che il Cattafi era del messinese, che aveva degli affari nel settore immobiliare e che era persona vicinissima a Nitto Santapaola. Il Cuscunà me ne aveva parlato come di un grossissimo personaggio, a cui lui stesso doveva rendere conto del suo operato in genere, quindi a prescindere dalle attività che si espletavano nell’autoparco. Ricordo che in una occasione del Cattafi il Cuscunà ne aveva parlato davanti a me con il Salesi a proposito di un colossale traffico di armi che lo stesso Cattafi gestiva per conto dell’organizzazione. Quando parlo di traffico colossale di armi intendo dire che si faceva riferimento ad armi pesanti, trattate in gran numero. Il Cattafi secondo il discorso del Cuscunà e del Salesi, doveva essere uno dei canali di approvvigionamento delle armi. Era evidente che il Cattafi era uomo d’onore, molto vicino a Santapaola; da come ne parlavano, ebbi quasi la sensazione che il Cattafi contasse quasi quanto il Santapaola”.
A Milano, sono sempre l’autoparco di via Salomone e le persone collegate a quel luogo a calamitare la vita di Cattafi. Il collaboratore di giustizia Antonio Cariolo: “L’ho sentito, ma non l’ho conosciuto perché quando frequentavo Angelo Fiaccabrino … dell’ambiente dell’Autoparco … c’era un fornitore di droga che era amico di Nitto Santapaola, tale Turi Basetta … Turi Basetta era amico di Angelo Fiaccabrino  … Fiaccabrino … mi parlava spesso anche di questo Saro Cattafi, ma non l’ho mai conosciuto personalmente … Sì, perché si parlava di alcuni personaggi messinesi praticamente che operavano anche a Milano, che erano trapiantati a Milano, cioè che frequentavano la zona di Milano e si parlò dei fratelli Saccà, Eugenio e suo fratello Saccà, che era di origine messinese e abitavano a Milano e di messinese parlavano anche di questo Cattafi Rosario, praticamente perché tra me … Fiaccabrino … ma tu non sei ami… non conosci Cattafi, gli ho detto: no, io non lo conosco; dice: eppure è un amico … Però un amico detto da Angelo Fiaccabrino”.
A parlare maggiormente di Rosario Cattafi è stato il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola, killer prediletto di Nitto Santapaola: “Tramite Cosa Nostra so chi è Saro Cattafi, ma di persona non lo conosco … So, per quello che mi fu detto da Calogero Campanella, che apparteneva ai servizi segreti, che scambiava favori con personaggi dei servizi, ci faceva dei favori, degli omicidi e loro ci facevano passare della droga, coprivano i reati, diciamo … questo io l’ho saputo nel febbraio 1994, tramite un trasferimento in aereo da Catania ad Ancona, ho viaggiato insieme a Calogero Campanella, che era il capo decina della famiglia Santapaola … eravamo tradotti tutti e due con l’aereo militare … certe volte delle discussioni [da Barcellona Pozzo di Gotto, n.d.a.] le portava il Gullotti tramite il Cattafi, invece di venire lui a Catania, li portava il Gullotti; cioè il referente era Gullotti per i catanesi …  Io so che [Cattafi, n.d.a.] ha avuto un incontro a Roma con un certo Battaglia, se si chiama Filippo non lo so … io so che si dovevano incontrare con altri personaggi a Roma per fare una certa … e comunque si doveva fare questo favore a dei socialisti [uccidere Antonio Di Pietro, n.d.a.] che si stavano organizzando per rientrare nelle fila del … io sono cresciuto vicino ad un consigliere della famiglia Santapaola e dovevo essere io uno degli autori, perché ero un killer fidato della famiglia … era il ‘92, dopo le stragi di Capaci, era settembre … a me, come mi dicevano i consiglieri, il favore si doveva fare a Craxi e il socialismo che ritornava un po’ alla normalità … [Cattafi, n.d.a.] ha fatto incontrare queste persone in albergo … il consigliere nostro con persone di Roma in un albergo romano per concordare la strage, perché la strage la dovevamo fare noialtri … [il consigliere nostro era, n.d.a.] D‘Agata … [l’albergo era, n.d.a.] l’Excelsior a Roma… che si doveva fare questa operazione diciamo noi altri e ritornare un po’ nella normalità … perché Catania è tartassata ormai da blitz, pentiti … [questo attentato si doveva fare, n.d.a.] al Nord Italia … serviva in parte ci serviva perché essendo un’altra grossa strage al Nord, ci toglieva il pensiero della Sicilia”. E ancora: “so che ha avuto degli incontri con Carletto Campanella, dove voleva …  voleva avvisare Benedetto Santapaola che lo stavano arrestando … e lui parlava con Carletto Campanella di traffichi di droga che lui faceva favori per i servizi segreti, in cambio passava un quantitativo enorme di droga …  solo che il Carletto Campanella era al 41 bis e non è riuscito a fare filtrare la notizia a Catania … non lo so se è riuscito a parlare che era carcerato o era libero … lui raccontava a Carletto Campanella che aveva fatto dei favori, in servizi segreti … Cattafi. Il Cattafi, sì … e entravano enormi quantitativi di droga dalle frontiere, cioè non facevano fare le perquisizioni … poi ho sentito anche D’Agata Marcello, sentire parlare di questa persona che aveva queste amicizie [nei servizi segreti, n.d.a.]”.
Di un progetto di attentato della mafia catanese per uccidere Antonio Di Pietro nell’autunno del 1992 ha parlato anche Giovanni Brusca: “Dopo la strage di Capaci e forse dopo quella di via D’Amelio io personalmente pensai, al fine di ridurre la tensione sulla Sicilia e la pressione della Forze dell’Ordine, di uccidere il dott. Di Pietro, che ormai era salito alla ribalta della cronaca per le inchieste su Tangentopoli. Ciò, secondo i miei piani, serviva anche per dare una lezione ai politici del Nord e per spostare in tale zona l’interesse repressivo dello Stato. Ricordo che ne parlai prima con Eugenio Galea che si prestò ad eseguire il delitto che venne però rimandato perché nel frattempo io fui impegnato negli omicidi di Marsala e il Mazzei diede una mano a Torino contro altre persone vicine agli Zichitella. Io avevo informato Riina del progetto che lo aveva approvato; poi al dott. Di Pietro diedero la scorta e il progetto non venne più ripreso … In effetti, di questo progetto discutemmo insieme ad Eugenio Galea. Devo dire che non ricordo se fu il Galea a proporre il progetto, dopo che era stato già discusso dalla famiglia di Catania, oppure se fui io ad avere questa idea. A volte, in Cosa Nostra, si fanno giochetti di parole. È cioè possibile che il Galea abbia accennato a questa idea, e che io l'abbia fatta mia senza rendermi conto che, in realtà, non era un’idea tirata fuori sul momento ma già discussa in precedenza. Aggiungo ora, in sede di verbalizzazione riassuntiva, che fu proprio il Galea a proporre Santo Mazzei come eventuale esecutore dell’omicidio, e che mi chiese se potevamo essere noi a conferirgli l’incarico, stante il nostro maggiore ascendente su di lui. Con l’omicidio del dott. Di Pietro ci si proponeva di raggiungere un duplice obbiettivo. Per un verso, si sarebbe distratta l'attenzione dalla Sicilia, e, per altro verso, si sarebbe scaricata la responsabilità dell’omicidio sui ‘politici del nord’. Infatti, la gente avrebbe pensato che – a volere morto Di Pietro – non potevano che essere stati i politici da lui perseguiti”. Quindi un presunto progetto di attentato a Di Pietro al nord organizzato dai catanesi e che prevedeva il coinvolgimento di Santo Mazzei. È bene tenere a mente il nome di Mazzei.
Per intanto è utile leggere anche cosa al riguardo di Cattafi ha riferito ai magistrati il controverso collaboratore di giustizia messinese Luigi Sparacio: “Gullotti frequentava a Milano, Gullotti frequentava a Milano con quello di Barcellona, non mi ricordo come si chiama, che era amico di Battaglia … l’ho detto centinaia di volte, questo è stato implicato nell’Autoparco di Milano … Io non mi ricordo il nome, l’ho già detto ripetute volte, lui era in contatto su Milano con questo personaggio. E poi questo personaggio qua … Sì, in ottimissimi rapporti, lui [Gullotti, n.d.a.] con l'avvocato Battaglia e con Alfano [Michelangelo, n.d.a.] , perché Alfano … voglio dire, perché Alfano aveva anche rapporti con l’avvocato Battaglia; l’avvocato Battaglia sarebbe quel famoso trafficante di armi, questo avvocato Battaglia, diciamo, che era anche in rapporti con Alfano… armi pesanti: lanciamissili, che hanno rifornito sia Casa Nostra catanese che Cosa Nostra palermitana … Questo Battaglia era un console onorario, che lui si avvaleva pure con una donna, una certa  Domenichelli, che era in contatto con questa Domenichelli qua. E lui lavorava sia con le ditte italiane, diciamo, che fabbricano armi, con Agusta, Beretta e tante altre ditte; e poi diciamo lavorava col traffico di armi con i paesi del … perché lui era console onorario del Perù, se non vado errato … Sì, legami con Gullotti, con Cosa Nostra palermitana e Cosa Nostra catanese … Mi sono ricordato il nome del barcellonese, era Cattafi, Rosario Cattafi, che prima non mi ricordavo … "Questo Rosario Cattafi era vicino a  Battaglia e a Gullotti …  Che erano vicino, che erano tutti una cosa, che a sua volta erano vicino a … [Trafficavano, n.d.a.] In armi, in armi sulla zona di … diciamo a livello nazionale. E Cattafi trafficava in droga con … sulla zona di Milano … Lui, CATTAFI è stato sempre a Milano, nella zona di Milano, lui ha sempre frequentato Milano … Cattafi era collegato con quelli dell’Autoparco, dell’Autoparco dove era stato arrestato pure e era amico di Sartori, di Currò, Sartori Natale, mi sembra, o Giovanni, e di Currò Antonino, che questi a sua volta erano trafficanti su Milano”.

Sparacio ha parlato anche di un progetto di attentato ai danni dell’allora Ministro Martelli, che vedeva coinvolto fra gli altri Rosario Cattafi: “si trattava di un attentato che doveva compiersi lungo la costa tirrenica della Provincia di Messina forse a Capo d’Orlando, e che doveva essere eseguito dal Clan barcellonese facente capo all’’Avvocaticchio’ (Gullotti), per il quale io fornii due telecomandi che erano stati preparati da un mio conoscente che lavora all’arsenale. Quest’ultimo è cognato di un giovane che io conosco, denominato “u’ bruttiscu” che lavora ai magazzini Piccolo, il cui padre era stato gambizzato, come preciso in sede di verbalizzazione. L’attentato era stato sollecitato da Leoluca Bagarella e da Mangano Nino in virtù di specifica deliberazione della Cupola di Cosa Nostra a  causa dell’attività dell’On. Martelli in materia di antimafia. L’esplosivo lo aveva procurato Cattafi Rosario tramite l’avv. Filippo Battaglia e si era utilizzata un’autovettura rubata che doveva fungere da auto-bomba. L’attentato, del quale avevo portato a conoscenza l’Alfano [Michelangelo, n.d.a.], non si verificò in quanto si decise di soprassedere dato che al momento in cui l’auto avrebbe dovuto esplodere in strada vi erano numerose persone”.
Che in quei primi anni Novanta Rosario Pio Cattafi sia in stretto contatto con Filippo Battaglia o con esponenti del clan Santapaola o col capomafia barcellonese Giuseppe Gullotti è un dato pacifico. Basti rilevare, quanto a Battaglia, quel che emerge dalle agende di Cattafi: “Rilevante fonte di prova può essere considerata l’annotazione rilevabile in un’agenda del Cattafi in corrispondenza del giorno 30.11.1992: “Battaglia X elicotteri”. In effetti in tale giorno il Cattafi compiva il suindicato viaggio da Milano a Roma. Il giorno seguente (1.12.1992) contattava più volte l’utenza del Battaglia”. Le comunicazioni fra Cattafi e Battaglia dovevano essere delicate: “Da quella nota si traggono numerose e significative comunicazioni effettuate via telefax dal Cattafi a Battaglia Filippo. Eloquente era il testo del messaggio inviato in data 21.1.1993 dal Cattafi al Battaglia: ‘avrei bisogno di avere tue notizie perché impossibilitato sentirti causa tuoi telefoni speciali. Saro Cattafi’ ed altresì quello del messaggio inviato il successivo 14.4.1993: ‘caro Filippo aspetto ancora informazioni da persone a Roma e tengo in serbo un telefono da regalarti in modo da risolvere il problema del telefono. Un abbraccio Saro’”.
Quanto ai rapporti fra Cattafi e Gullotti, “si riferisce che questa Sezione Anticrimine, nell’anno 1993, nell’ambito dell’indagine denominata ‘Longano’ ebbe ad analizzare i tabulati telefonici (riferiti al traffico in uscita) relativi all’utenza 0337/886730 intestata alla Holding Abbigliamento di Rugolo Venera ed in uso a Gullotti Giuseppe, per il periodo compreso dall’1.2.1993 al 31.5.1993. I risultati di tale analisi, con nota 18/23-2-1993 del 13.10.1993 furono riferiti al dr. Olindo Canali. Dall’esame di tale nota si evincono contatti tra l’utenza indicata ed utenze mobili e fisse intestate alla ditta Sanovit srl con sede in Milano, il cui amministratore risulta ancora oggi Cattafi Rosario. In particolare, risultano effettuate da parte dell’utenza 0337/886730, in uso al Gullotti: verso l’utenza cellulare n. 0337/292867 intestata a Sanovit srl via Mascagni n. 21, Milano, le chiamate nelle sotto indicate date: 1.2.1993; 3.3.1993; 23.3.1993; 30.3.1993. Verso l’utenza cellulare n. 02/58012800 intestata a Sanovit srl via Mecenate n. 2, Milano, le chiamate nelle sotto indicate date: 1.2.1993”.
Anche sui rapporti fra Cattafi e Santapaola ci sono prove certe. Almeno con i parenti di Santapaola, ovvero il cognato Pippo Ercolano, suo figlio Aldo (nipote prediletto di Santapaola) e suo fratello Sebastiano. Gli Ercolano controllano a Catania un’impresa che si chiama Beton Conter. Da un’informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze del 3 aprile 1996 risulta “che i contatti telefonici tra Rosario Cattafi e la società Beton Conter, gestita dai fratelli Ercolano, si erano protratti almeno dal marzo 1991 al gennaio 1992”.
Ma che fa in quegli anni il magistrato di origine barcellonese Francesco Di Maggio? Cessato il suo incarico all’Alto commissariato antimafia e fatto un rapido passaggio di ritorno alla Procura della Repubblica di Milano (dove fa in tempo ad occuparsi dell’assassinio del magistrato della Procura di Novara Luciano Lamberti, commesso il 26 aprile 1991), Di Maggio si trasferisce a Vienna, nominato quale esperto dal governo italiano (e dal Ministro degli Esteri Gianni De Michelis) all’Agenzia antidroga dell’Onu (denominata con l’acronimo Unfdac). Curiosamente, Rosario Cattafi, nelle recenti dichiarazioni rese ai magistrati di Messina e Palermo fa mostra di non serbare ricordo dell’incarico viennese di Di Maggio. E questo è davvero strano, se si pensa che quell’Agenzia dell’Onu è frequentata ufficialmente dal migliore amico di Cattafi, per l’appunto Filippo Battaglia, quello per il quale Cattafi si prodiga a reperire telefoni sicuri. Il 4 settembre 1993, infatti, Filippo Battaglia, che da qualche giorno (insieme a Cattafi) è al centro delle cronache giudiziarie per un’indagine della Procura di Messina su un presunto traffico di armi, denominata Arzente Isola (sulla quale si tornerà dopo), rilascia un’intervista al quotidiano messinese Gazzetta del Sud e, tra l’altro, dice: “Io non ho mai fatto misteri del fatto di essere rappresentante di alcune società che, tra l’altro, producono materiale bellico. Vorrei precisare che sono stato più volte insignito a livello internazionale per la mia attività. Ad esempio il ministro degli Interni del Perù mi ha nominato rappresentante all’Unfdac, la sezione dell’Onu di Vienna che si occupa della lotta al narcotraffico. Io ho combattuto per ottenere dal governo peruviano donazioni di mezzi per combattere il narcotraffico nel Sud America”. Incredibile: un trafficante internazionale di armi impegnato nella lotta al traffico internazionale di droga. Roba che nemmeno nei film di James Bond.
Si è già incontrato prima il nome del mafioso catanese Santo Mazzei, detto “u carcagnusu”. In quel 1992 Mazzei viene davvero utilizzato da Cosa Nostra per attentati al Nord Italia. È una vicenda torbida sul cui significato si interrogò a lungo Gabriele Chelazzi, il magistrato fiorentino che ha speso la vita per cercare la verità sulle stragi di mafia e non solo di mafia del biennio 1992-93 e sulla trattativa Stato-mafia. Il 5 novembre di quell’anno viene ritrovato in pieno centro di Firenze, al giardino di Boboli, dietro la statua di un magistrato dell’antica Roma, un proiettile d’artiglieria inesploso. Lo ha posizionato lì alcune settimane prima proprio Santo Mazzei, il quale, una volta collocato il proiettile, fa una cosa davvero strana: telefona a un’agenzia di stampa e segnala la presenza del proiettile rivendicandola a nome della Falange Armata. Ma l’eloquio sconnesso di “u carcagnusu” non è molto semplice da capire. E così il telefonista non comprende nulla di quella strana rivendicazione. La vicenda si scopre per questo con un certo ritardo. Però è davvero strano: mai Cosa Nostra aveva rivendicato i propri attentati; tanto meno l’aveva mai fatto a nome di organizzazioni dall’evocativo nome terrorista. Tuttavia, alcuni collaboratori di giustizia hanno riferito ai magistrati che proprio in quel periodo Cosa Nostra decide di assaltare la città d’arte di Firenze e che gli attentati devono essere rivendicati a nome della Falange Armata.
Che fa Santapaola in quel periodo? Trascorre la sua latitanza, di base, a Barcellona Pozzo di Gotto, nella città di Rosario Cattafi. Secondo Maurizio Avola il boss catanese fissa lì la sua base dalla primavera del 1992 per rimanerci fino ai primi mesi del 1993. Avola aggiunge anche che nella provincia di Messina Santapaola e qualcuno dei suoi luogotenenti partecipano a delicate riunioni con Marcello Dell’Utri, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Michelangelo Alfano e altri. La stessa cosa è sostenuta da Luigi Sparacio. Certo è che il latitante Santapaola sverna nel barcellonese, in modo molto comodo. A un certo punto, sono i primi mesi del 1993, la sua voce rimane incagliata nelle intercettazioni attivate dal sostituto procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto, Olindo Canali, nell’indagine sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, avvenuto l’8 gennaio 1993. Ma sul finire del 1992 la presenza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto era stata scoperta proprio da Beppe Alfano, che l’aveva confidato alla figlia Sonia e a qualche carabiniere. Ma soprattutto l’aveva confidato a un amico (almeno, tale ritenuto da Alfano) magistrato: Olindo Canali. Il magistrato brianzolo che nel 1984 era stato uditore giudiziario di Francesco Di Maggio a Milano, anni dopo lo scriverà in un memoriale: “Verso i primi giorni di dicembre … Alfano mi venne a trovare in Ufficio. Come sempre guardingo. Più che mai guardingo. Chiuse la porta e mi disse di avere avuto notizia che Santapaola fosse a Barcellona o nei pressi di Barcellona. Mi disse che mi avrebbe fatto avere notizie più precise … Per qualche giorno, se non ricordo male, non vidi Alfano … Poi ricomparve e mi ribadì ancora la notizia su Santapaola … Tra la prima notizia sulla presenza di Santapaola e la seconda passarono, credo, quattro o cinque giorni. Il sabato prima di Natale … io pranzai a casa Alfano. Non ricordo se quello stesso giorno accompagnandomi dopo il pranzo o il giorno successivo … Alfano mi salutò con quella battuta che ho sempre riferito in ogni sede: che al mio rientro mi avrebbe detto esattamente dove si trovasse Santapaola”. E che fa di quella notizia il magistrato Olindo Canali? Apre un’indagine, la comunica ai colleghi della Direzione distrettuale antimafia di Messina o a quelli di Catania? No. Fa una cosa stranissima. Lo racconta lo stesso Canali il 21 giugno 2009, senza sapere di essere intercettato dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, in una telefonata all’ex magistrato Bruno Tinti, il quale rimane palesemente sconcertato dalle parole di Canali, il quale gli confida di avere ricevuto dal giornalista Alfano la notizia della presenza a Barcellona Pozzo di Gotto del latitante Benedetto Santapaola e di averla girata a un magistrato che si trova fuori ruolo. Sì, a quel Francesco Di Maggio che si trova in quel momento in servizio a Vienna. Chissà perché?
Sappiamo che dal 16 giugno 1993 Francesco Di Maggio diventa vicedirettore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, su decreto ad personam dell’allora Presidente Oscar Luigi Scalfaro, che fa proprio pressioni perché venga cacciato dal Dap il precedente direttore Nicolò Amato e perché il Dap venga consegnato nelle mani di Di Maggio, attraverso la nomina di un direttore che deve fungere solo da prestanome, Adalberto Capriotti. Giusto per dovere morale occorre dire una cosa: come non rientra nelle competenze del Presidente della Repubblica il coordinamento delle indagini svolte dalle diverse Procure della Repubblica, è estranea alla funzioni del Capo dello Stato la nomina dei vertici del Dap, così come pure la gestione di quell’organismo. Fatto è che Scalfaro a giugno 1993 impone Di Maggio al Dap. Ma Di Maggio, in realtà, già da mesi è spesso in Italia, a svolgere attività informali.
Secondo quello che oggi racconta ai magistrati il capomafia barcellonese, nella primavera del 1993 Di Maggio convoca Cattafi in un bar di Messina un sabato pomeriggio e, presenti alti ufficiali del Ros dei Carabinieri, gli affida un incarico delicato. Somiglia molto alla missione svolta quasi dieci anni prima da Francesco Miano per conto del Side nelle indagini sull’omicidio di Bruno Caccia. Cattafi deve contattare, su incarico di Di Maggio, l’avvocato di Salvatore Cuscunà, sua vecchia conoscenza dai tempi dell’autoparco milanese di via Salomone, e convincerlo ad aprire un dialogo con Santapaola al fine di far cessare le stragi compiute da Cosa Nostra. In cambio i mafiosi avrebbero ottenuto benefici penitenziari: soprattutto, la cessazione dell’odiato 41 bis.
Chi ha letto il verbale di Cattafi non ha potuto sopprimere molte perplessità. Ma se lui da decenni è in rapporti con Santapaola perché rivolgersi a terzi per avere un tramite? E se Santapaola fino al 29 aprile 1993 si trova proprio a Barcellona Pozzo di Gotto è necessario per contattarlo fare il giro da persone di Milano? E poi Santapaola come avrebbe mai potuto fermare le stragi del 1993, che sono concretamente eseguite dai fratelli Graviano e da Matteo Messina Denaro? E, se proprio bisogna tentarle tutte, a leggere quanto scrive Gianni Barbacetto sui rapporti fra Natale Sartori e Antonino Currò (indicati da Sparacio come amici di Cattafi) e i fratelli Graviano, non sarebbe stato più logico tentare questa strada?
Ma c’è una cosa ancora più inspiegabile. Se Cattafi ogni mese, puntualmente, fa qualche puntata a Roma, è necessaria la discesa di Di Maggio in Sicilia per incontrarlo in un bar frequentatissimo? Non verrebbe più comodo incontrarlo in qualche ufficio romano?
Le agende, come si è già visto, alle volte riportano dati utili. Il generale Mario Mori, oggi imputato sia nel processo sulla trattativa Stato-mafia sia nel processo sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano, nel 1993 aveva il grado di colonnello ed era vicecomandante del Ros. Anche qui una precisazione sulle competenze non è superflua. Il Ros è un reparto di investigazione, non un corpo di polizia penitenziaria. Eppure sull’agenda di Mori, alla pagina del 27 luglio 1993 si legge di un incontro con di Maggio per “prob. detenuti mafiosi”. Ma alla pagina di sabato 27 febbraio 1993 sull’agenda di Mori c’è un’annotazione che davvero fa strabuzzare gli occhi. Un mese e mezzo prima è stato ucciso il giornalista Beppe Alfano a Barcellona Pozzo di Gotto; in quel territorio si trova latitante il boss catanese Benedetto Santapaola; le indagini sono condotte dal pubblico ministero Olindo Canali, che è lo stesso che ha disposto le intercettazioni telefoniche dalle quali si ricava la presenza di Santapaola e perfino la sua voce in diretta in copiose intercettazioni ambientali; Canali aveva già ricevuto le confidenze di Alfano sulla presenza di Santapaola in zona. Ecco cosa si legge in quella pagina dell’agenda di Mori, alle ore 10: “Dr. Di Maggio/Canari/S.A. Messina riunione alla S.A. di Roma per omicidio giornalista di Barcellona P.d.G.”. Non sono tanti i giornalisti uccisi a Barcellona Pozzo di Gotto: solo Beppe Alfano. Naturalmente, S.A. sta per Sezione Anticrimine, mentre Canari sta per Canali. Seppure appare già rilevante osservare come, a parte le intercettazioni riguardanti Santapaola, in tutto il fascicolo sull’omicidio Alfano non c’è una sola pagina riguardante indagini svolte dal R.o.s. quel che è davvero inspiegabile è un altro elemento. Cosa c’entra in una riunione apparentemente investigativa sull’omicidio Alfano il magistrato fuori ruolo Francesco Di Maggio in servizio come consulente all’Agenzia antidroga dell’Onu? Assolutamente niente. I motivi di quella riunione, dunque, sono tutto fuorché istituzionali. Ma che quella riunione ci sia stata è certo, perché ne troviamo traccia, seppure in mezzo ad alcune bugie (che fanno parte del personaggio: è stato condannato per falsa testimonianza, allo stato in primo grado) pure nel memoriale del dr. Olindo Canali: “Credo verso la fine di febbraio approfittando anche della presenza di Francesco Di Maggio a Roma, chiesi l’autorizzazione per recarmi proprio a Roma. L’idea era quella di fare il punto sia della situazione, parlando direttamente con i vertici dei Carabinieri, dei ROS, della Polizia e anche scambiare idee con Francesco Di Maggio. In effetti rimasi a Roma tre o forse quattro giorni e, in rapida successione, passai giornate sia al ROS (ovviamente, ma anche per quello che dirò dopo, non incontrai Mori), credo di essere stato ricevuto anche dall’allora Capo della Polizia Parisi, e forse anche dal Comandante Generale dei Carabinieri … Incontrai Francesco Di Maggio non ricordo dove. Forse al Ministero. Credo che stesse già preparando il rientro in Italia … Parlai con Di Maggio dell’omicidio Alfano … Come ho detto in quei giorni a Roma mi recai al Comando dei ROS. Credo ci fossero, ma della circostanza non sono sicuro, anche Valenti e forse Scibilia o comunque qualcuno di Messina. Il punto verteva sempre sul mio interesse all’indagine sull’omicidio Alfano e sul loro interesse a Santapaola”. Dagli atti del fascicolo sull’omicidio Alfano risulta che Canali permane a Roma fra il 24 e la sera del 27 febbraio 1993.
Chissà dov’è in quella mattina del 27 febbraio 1993 Rosario Cattafi? Nulla dice al riguardo l’agenda di Mori e nemmeno il memoriale di Canali ci è d’aiuto. Ma chi si sente di escludere che in quei giorni non abbia fatto una delle sue ricorrenti puntate a Roma?
Quel che è sicuro è che in quel momento Santapaola si trova comodo nel territorio barcellonese. Scrive la D.i.a. di Catania: “Nel primo semestre del 1993 i C.C. ROS di Messina, e comunque prima dell’arresto del noto boss Santapaola avvenuto in territorio calatino, iniziano un’attività investigativa sulla base di intercettazioni telefoniche e tra presenti nel barcellonese (informativa n. 18/23-1 trasmessa alla Procura della Repubblica di Barcellona in data 25.7.1993). In tale contesto si è avuta la prova che il Santapaola era stato ospite del gruppo Gullotti”.
Il 6 aprile 1993 quasi scappa il morto. Santapaola è quotidianamente ascoltato nelle intercettazioni del R.o.s. di Messina, in quel momento comandato dal maresciallo Giuseppe Scibilia. Addirittura il 5 aprile uno dei custodi, approfittando del momentaneo allontanamento di Santapaola, confida al figlio (e alle cimici del R.o.s.) il nome dell’illustre ospite. Nel pomeriggio del 6 aprile i militari del R.o.s. circondano una villa a Terme Vigliatore, paese confinante con Barcellona Pozzo di Gotto. Non è l’immobile in cui viene registrata la voce di Santapaola ma una villa poco distante, di proprietà di un imprenditore del luogo, Mario Imbesi. Il figlio esce dal cancello a bordo della propria auto e si accorge di essere seguito da auto prive di distintivi. Teme si tratti di malviventi e cerca di scappare. Uno degli occupanti una delle auto inseguitrici, debitamente in borghese, è il “mitico” capitano “ultimo”, all’anagrafe Sergio De Caprio, che inizia a esplodere colpi di pistola mirando alla testa del giovane Imbesi. Per fortuna non lo colpisce. La macchina del fuggitivo finisce sui binari della ferrovia perché il ragazzo cerca di rifugiarsi presso la locale stazione dei Carabinieri. Qualche settimana dopo tutti i quotidiani locali scrivono, con tanto di nomi dei protagonisti della vicenda, che De Caprio era intervenuto per la cattura di Santapaola e lo aveva per errore confuso con il figlio di Imbesi. Dall’accusa di tentato omicidio De Caprio viene scagionato (pur con feroci critiche sul suo operato) da un decreto di archiviazione del Gip, su richiesta del P.m. Canali. Qualche anno dopo il locale commissario di Polizia dichiarerà che scopo dell’operazione di De Caprio e del R.o.s. era indurre Santapaola a spostarsi in zona diversa dal barcellonese per procedere alla sua cattura. Alla stessa logica e allo stesso obiettivo quel poliziotto riconduce le perquisizioni a tappeto che il 14 aprile 1993 a Terme Vigliatore vengono eseguite dallo S.c.o. della Polizia di Stato. Quest’ultima iniziativa dello S.c.o. è inspiegabilmente annotata nella solita agenda del colonnello Mori, proprio alla pagina del 14 aprile, come intervento in un territorio “di nostro interesse”. In tutta l’agenda una dicitura del genere non si trova nemmeno per l’area palermitana nella quale si svolse la cattura di Riina. Quale l’interesse del R.o.s. al territorio barcellonese e alla presenza di Santapaola, visto che nulla viene fatto (e, anzi, tutto viene omesso) per la cattura del latitante catanese?
L’imprenditore Imbesi compare incidentalmente nelle indagini sull’omicidio Alfano, per una stravagante iniziativa del pubblico ministero Olindo Canali. Il magistrato, infatti, poche settimane dopo il delitto, si fa consegnare da Imbesi un revolver calibro 22, dello stesso tipo di quello con cui il giornalista barcellonese è stato assassinato. La consegna avviene al santuario di Tindari, non proprio un ufficio di polizia. Una settimana dopo l’arma viene restituita a Imbesi dal magistrato. Anche in questo caso, anziché in una caserma, in un ristorante di Portorosa. Il fatto è che – va detto subito – quella pistola con l’omicidio Alfano non c’entra nulla, come dimostrato da un accertamento della polizia scientifica eseguito nel 2011. La cosa strana è che Imbesi però tanti anni prima un altro revolver calibro 22 identico a quello (e identico quindi anche a quello utilizzato per l’omicidio Alfano) lo cedette regolarmente (con tanto di denuncia ritualmente formulata alla caserma dei Carabinieri). La cosa ancora più strana è l’identità del soggetto che acquistò quell’arma da Imbesi. Sì, perché si tratta di una persona legatissima a Rosario Cattafi: per l’esattezza quel Franco Carlo Mariani che abbiamo già visto in affari con Cattafi in giro per il mondo. Il guaio è che dell’esistenza di questo secondo revolver calibro 22 il pubblico ministero Canali ha contezza poco prima sia di quella stranissima riunione del 27 febbraio 1993 con Mori, Di Maggio e gli appartenenti al Ros di Messina sia del tentato omicidio compiuto (come ritenuto dallo stesso giudice che ha disposto l’archiviazione) da Sergio De Caprio ai danni del figlio dell’imprenditore Imbesi. E il guaio ancor più grande è che su quel revolver, identico a quello utilizzato per l’omicidio Alfano, il pubblico ministero Canali non dispone alcun accertamento. Quel che è certo è che Canali, come di ogni altro elemento che apprende durante l’indagine sull’omicidio Alfano, anche di questo revolver calibro 22 finito pericolosamente dalle parti di Cattafi ha informato Francesco Di Maggio. Per l’omicidio Alfano sono stati condannati due mafiosi appartenenti al clan barcellonese diretto da Rosario Cattafi: uno è il boss Giuseppe Gullotti, l’altro è il killer Antonino Merlino; l’arma utilizzata per il delitto non è mai stata trovata.
A giugno 1993 Di Maggio si insedia formalmente al D.a.p.. Secondo il recente racconto di Cattafi, in un periodo variabile ricompreso fra aprile e giugno 1993, egli va in missione nella trattativa Stato-mafia su incarico di Di Maggio. Ma oltre a Di Maggio in quei mesi Cattafi ha un altro amico, in questo caso molto stretto, al D.a.p.. Si tratta di un altro magistrato barcellonese, in quel momento capo dell’Ufficio detenuti del D.a.p., il dr. Filippo Bucalo. L’Ufficio detenuti del D.a.p. è proprio quello che si occupa del 41 bis. Con Bucalo la frequenza di rapporti di Cattafi è davvero elevatissima. Lo stesso Cattafi ha riferito ai magistrati che nell’estate del 1993 i suoi incontri con Filippo Bucalo a Taormina sono ricorrenti. Per di più Cattafi ha contatti telefonici pressoché quotidiani con il fratello, l’avv. Sergio Bucalo, barcellonese anche lui trapiantato a Roma, cognato del ragioniere che gestisce l’impresa di calcestruzzo del boss barcellonese, legato a Cattafi, Giovanni Rao. Come accertato dal Gico di Firenze, dal 25 agosto al 3 settembre 1993 Filippo Bucalo, insieme alla moglie, alloggia a Taormina in un albergo di discreto lusso, il Mazzarò Sea Palace. Di quello stesso albergo sono spessissimo ospiti Rosario Cattafi e la sua strana congrega di faccendieri. Il 19 settembre 1993, in concomitanza con un socio di Cattafi, compare in quell’albergo anche il boss calabrese Vincenzo Iamonte con la famiglia. Se si consulta oggi il registro del Mazzarrò Sea Palace alla data del 25 agosto è naturale fare un salto sulla sedia. Sì, perché subito dopo i nominativi di Bucalo e consorte si leggono (evidentemente arrivati insieme ai coniugi Bucalo o immediatamente dopo di essi) i nomi di Ignazio Moncada e della sua compagna. Fino all’estate scorsa la figura di Moncada, siciliano di Modica trapiantato a Torino sarebbe passata (ingiustamente, però) quasi inosservata. Dopo la divulgazione delle intercettazioni della Procura di Napoli su Finmeccanica, però, Moncada è diventato quasi un personaggio mitologico, “il grande burattinaio di Finmeccanica” secondo Ettore Gotti Tedeschi, l’uomo cui addirittura l’ex ministro Giulio Tremonti sembra offrire in anteprima, prima del loro deposito, le intercettazioni dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Secondo notizie di stampa mai smentite, Moncada all’inizio degli anni Settanta viene cooptato come informatore del Sisde da Gianadelio Maletti e poi si impianta a Torino, dove in breve tempo diventa affermato manager di una società, la Fata, che a un certo punto viene acquisita da Finmeccanica. E da quel momento Moncada diventa uno degli uomini forti, pur senza ruoli formali, di Finmeccanica. Non occorre dimenticare che Finmeccanica detiene le azioni di molte industrie militari e di armamenti, come Oto Melara e Agusta. Sarà stata casuale la presenza nello stesso albergo taorminese del capo dell’Ufficio detenuti del Dap e del big boss di Finmeccanica? Certo, senza altri elementi è impossibile rispondere affermativamente. Però intanto può dirsi che Moncada in quel tempo era legatissimo a un funzionario del Sisde che di lì a poco, dalla latitanza, avrebbe avuto un ruolo decisivo nella strategia di fango e ricatti sul Presidente Scalfaro al riguardo dei fondi neri del Sisde: Michele Finocchi. Finmeccanica e Sisde, niente male.
Quel che è certo è che Filippo Bucalo e Cattafi in quei giorni si frequentano. La presenza di Cattafi a Taormina è dimostrata dalle telefonate che in più notti successive fa a un’utenza intestata a un agente di taxi, la stessa che in altre notti è contattata dall’avv. Sergio Bucalo, fratello di Filippo (e, sia detto per inciso, oggi uno degli avvocati del Procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata). Proprio in quella settimana, esattamente all’alba dell’1 settembre 1993 Rosario Cattafi, insieme a Filippo Battaglia, Rosario Spadaro (uomo legato a Santapaola e operante a Saint Marteen, Antille Olandesi) e al siriano Abdullatif Kwedeer, subisce una perquisizione disposta dalla Procura di Messina in un’indagine per traffici di armi denominata Arzente Isola. In realtà l’indagine non porta a nulla ma, come un colpo di fortuna per gli indagati, si sovrappone a un’analoga indagine che a quel tempo era già stata avviata dalla Procura di Catania. Rosario Cattafi e gli altri indagati sembrano aver appreso prima del tempo l’esecuzione delle perquisizioni. Non si spiega altrimenti l’arrivo in Sicilia il 31 agosto 1993, accudito da Cattafi, del manager della Breda di Brescia Domenico Ripa, che l’1 settembre 1993 si presenta spontaneamente per rendere dichiarazioni ai magistrati della Procura di Messina.
Nel racconto fatto da ultimo da Cattafi ai magistrati di Palermo, in quei giorni già ha avviato i suoi contatti con Di Maggio per l’incarico di trattare con Santapaola sul 41 bis. Possibile che non ne parli con il suo amico Filippo Bucalo, che è capo dell’Ufficio detenuti del Dap? Difficile crederlo. E tanto più è difficile credere che, entrato in carcere l’8 ottobre 1993 per l’indagine fiorentina sull’autoparco milanese di via Salomone, Cattafi abbia incontri con Di Maggio e nessuno con Bucalo, che pure si preoccupa di suggerirgli il difensore.
E però a Taormina in quella fine d’estate c’è un altro personaggio che di lì a poco troviamo sulle cronache giudiziarie. Ricordate le minacce telefoniche fatte per tutto il 1993 a nome della Falange Armata? Il principale destinatario delle minacce è Oscar Luigi Scalfaro. Il 25 ottobre 1993 viene arrestato il presunto telefonista: è un educatore penitenziario residente a Taormina, Carmelo Scalone. Entra in carcere proprio la settimana prima del famoso “io non ci sto” di Scalfaro urlato a reti unificate contro i ricatti, le minacce e i veleni targati Sisde e Falange Armata. A leggere la sentenza della Corte di assise di Roma che anni dopo condanna Scalone in primo grado ritenendolo uno dei telefonisti della Falange Armata si ricava che alcune telefonate sono state effettuate dalla sua utenza fissa di Taormina, che le ultime telefonate sono state pure intercettate e che è addirittura stato fatto il riconoscimento della sua voce. Per questo sorprende – ma non si può che prenderne atto – la successiva assoluzione che Scalone ottiene in appello ma che non trova grande divulgazione sugli organi di informazione.
Rosario Cattafi rimane in carcere dall’8 ottobre 1993 all’ottobre 1997. Nel frattempo il processo per l’autoparco di Milano viene trasferito da Firenze al capoluogo lombardo. Qui per Cattafi il processo ha uno sviluppo particolarmente complicato. Dopo un alternarsi di assoluzioni e condanne, nel giugno 2010 la Corte di cassazione annulla senza rinvio la condanna per droga che a carico di Cattafi era stata pronunciata dalla Corte di appello di Milano. L’annullamento senza rinvio nei giudizi di cognizione è roba davvero rara: si ricordano quello per Giulio Andreotti nel processo per l’omicidio Pecorelli e quello per Corrado Carnevale. Fatto è che nel 2010 il processo per l’autoparco per Cattafi si definisce felicemente.
Nel frattempo a luglio 2000 il Tribunale di Messina gli applica per cinque anni la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno.
Poi, più di recente, il 24 luglio 2012 Rosario Cattafi viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere quale capo dell’associazione mafiosa barcellonese. Il tribunale del riesame l’ha confermata e si è in attesa del vaglio della cassazione.

Da qualche settimana Cattafi ha iniziato a rendere dichiarazioni ai magistrati sulla trattativa Stato-mafia. In qualche occasione è stato assistito nei verbali dalla sua compagna, poco tempo prima condannata definitivamente per le note vicende dell’università di Messina. Finora il suo racconto è ben poca cosa rispetto alla verità e rispetto alle conoscenze di Cattafi. Ma è auspicio di tutti che Cattafi possa decidersi a raccontare lealmente tutto ciò che sa. Si colmerebbero molti buchi neri. L’auspicio è che ciò possa avvenire a partire dal suo esame al processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu, previsto per domani mattina. Dopo la ricostruzione che abbiamo provato a fare (ma ci sarebbe ancora tanto altro da dire) delle vicende che hanno riguardato Cattafi, almeno nessuno potrà più dire di non sapere nulla. Perché è vera una cosa: fino a oggi Barcellona Pozzo di Gotto e il suo ruolo nel biennio stragista e trattativista di Cosa Nostra sono stati occultati da un incredibile cono d’ombra. Vi hanno concorso soprattutto gli organi d’informazione, quella sedicente democratica e quella asservita agli apparati. Alle loro omissioni abbiamo rimediato con questa storia a puntate. Se ne potranno servire perfino coloro che domani hanno gli strumenti per porre domande a Cattafi. All’esito vedremo quali domande saranno state fatte e quali risposte saranno state date, oppure quali domande non saranno state fatte o quali risposte non saranno state date. Ma almeno è sperabile che ne venga un beneficio per l’accertamento della verità, che consenta di dire che è valsa la pena di disporre per Cattafi la deroga alla legge che prevede per i detenuti ristretti al 41 bis la partecipazione alle udienze in videoconferenza.

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