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stragi-servizi-bigdi Nicola Biondo - 26 marzo 2012
Oggi in Antimafia i Pm nisseni: le indagini ad un bivio

L’ultima volta era il luglio del 2010. “Lo Stato deve farsi carico di tutta la verità sulle stragi”. Così dissero i magistrati nisseni, titolari delle inchieste sugli eccidi del ’92 di fronte alla Commissione Antimafia. A quasi due anni di distanza, il Procuratore Sergio Lari, l’aggiunto Nico Gozzo e i sostituti Marino, Bertone e Luciani oggi si ritroveranno di fronte all’organismo presieduto da Beppe Pisanu: con molte più certezze – l’esistenza accertata di una trattativa Stato-Mafia e la genuinità del racconto di Gaspare Spatuzza sull’epopea delle stragi ’92-’93 – ma anche con un bivio davanti. Come proseguire le indagini, come incastrarle in quei percorsi paralleli che i colleghi palermitani e fiorentini portano avanti, come parare i colpi di quella parte della politica e di settori dello Stato, magistratura compresa, che non vuole anzi teme le nuove indagini.

“Molteplici figure anche istituzionali hanno giocato partite complesse e spregiudicate” – sostengono i magistrati – che hanno raggiunto una certezza: sui luoghi delle stragi di Capaci e Via D’Amelio ma anche su quella fallita contro Giovanni Falcone all’Addaura nell’estate del 1989 si è giocata una partita senza esclusione di colpi: l’obiettivo non era solo uccidere i magistrati ma incolpare qualcuno di averci messo lo zampino. Una costante, un gioco di specchi zeppo di 007 e sbirri chiacchierati. “Lo schema” – come lo definisce un investigatore – appare per la prima volta all’Addaura, presso la villa al mare di Falcone dove il 21 giugno 1989 viene lasciata una borsa piena di esplosivo. Che però non esplode. A distruggere l’innesco vanificando le indagini è un artificiere dei Carabinieri, che aggiunge di aver visto all’Addaura il questore Ignazio D’Antone. Un falso clamoroso, un depistaggio inspiegabile che costa a Tumino una condanna per calunnia. D’Antone nel 2004 viene però condannato per concorso esterno: ha favorito la latitanza di due boss.   
La strage mancata – dietro cui Falcone vide “menti raffinatissime” e su cui si allunga per la prima volta il nome di Bruno Contrada, numero tre del Sisde legato a D’Antone – è la scatola nera che secondo i magistrati decritta “quelle partite complesse giocate da figure istituzionali”. La prima è quella giocata dal Corvo, l’anonimo estensore di report che accusavano Gianni De Gennaro –oggi numero uno dei Servizi – e Giovanni Falcone di utilizzare il pentito Totuccio Contorno nella “caccia” ai boss corleonesi. Scritti “istituzionali” veicolati alla stampa tramite l’Alto Commissariato antimafia, un ufficio sciolto nel 1992, zeppo di 007 e ufficiali dei Carabinieri molto chiacchierati. E all’Addaura secondo alcuni sono presenti due agenti: Nino Agostino e Emanuele Piazza, un poliziotto e un agente del Sisde, uccisi tra l’89 e il ’90. Una verità in bilico: le indagini recenti e i test del DNA lo escludono. Di certo c’è che a quelle due morti si interessa Arnaldo La Barbera, il dominus delle indagini su Via d’Amelio, oggi polverizzate dalla versione di Spatuzza e sulle quali c’è il sospetto di un clamoroso depistaggio, tant’è che la sua squadra è finita sul registrato degli indagati a Caltanissetta. Forse non l’unico compiuto da La Barbera: è lui infatti che per Agostino e Piazza “tara” le indagini su un’inesistente pista passionale, utilizzando due poliziotti border-line. Uno oggi indagato nell’inchiesta sul delitto Agostino legato a Contrada e l’altro, Vincenzo Di Blasi, condannato nel 2006 per aver favorito il clan Graviano. Fu Di Blasi a introdurre Piazza al Sisde, attraverso l’allora prefetto Luigi De Sena che alla Procura di Caltanissetta ha raccontato del suo stretto rapporto con La Barbera, entrato nei servizi grazie a lui, e dei contatti con Piazza. Si arriva così a Capaci dove il 23 maggio 1992 da una mano scivola – dolosamente o meno – un biglietto con sopra il nome di Lorenzo Narracci, capocentro Sisde a Palermo uomo di Contrada. Un caso forse: eppure 57 giorni dopo a via D’Amelio è di nuovo Contrada a far capolino. Secondo due carabinieri del Ros, che in quel periodo trattava con Vito Ciancimino, Contrada era lì. Le prove però lo escludono. E, pur condannato definitivamente per collusione con la mafia, lo 007 esce dall’inchiesta. Mentre Narracci, sulla base della testimonianza di Massimo Ciancimino, è tutt’ora indagato per concorso in strage. Di sicuro, come ha rivelato l’Unità il 15 marzo scorso, non era Contrada l’uomo che ad un poliziotto appena arrivato in Via D’Amelio si qualificò come “Servizi”.
Una guerra tra apparati – Polizia, Sisde, Carabinieri, quelli visibili - si sarebbe svolta sui luoghi delle stragi, sul sangue di Falcone e Borsellino, alla ricerca di nuovi equilibri, nella mafia come nello Stato. Ma l’interrogativo è se e come questa guerra abbia agito sulla trattativa Stato-mafia su cui indagano anche le procure di Palermo e Firenze.  Di certo c’è una coincidenza che fa riflettere: dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, dopo le stragi di Firenze, Roma e Milano nel 1993, Cosa nostra prova a uccidere ancora, nonostante la trattativa sia stata chiusa, secondo Gaspare Spatuzza, con Marcello Dell’Utri. Il primo obiettivo è un bus dei Carabinieri allo Stadio Olimpico nel gennaio 1994, poche settimane dopo tocca al pentito Contorno. Due attentati falliti per due target simbolici: i carabinieri che avevano trattato con Ciancimino e arrestato Riina e il pentito che secondo il Corvo di Palermo venne utilizzato da Falcone e De Gennaro in una guerra privata contro i boss corleonesi. Una scia di sangue e segreti che come un faro lascia in penombra i covi dei boss siciliani e si avventura in ben altre dimore. Per questo, alla vigilia dell’audizione di oggi alla Commissione Antimafia, riecheggia ancora quell’auspicio fatto dai magistrati nisseni quasi due anni fa ai parlamentari: “Lo Stato deve farsi carico di tutta la verità”.

Tratto da: l'Unità

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