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strage-via-dei-georgofili-bigdi AMDuemila - 13 marzo 2012
Lo Stato avviò una trattativa con Cosa nostra, una trattativa che “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” per interrompere la strategia stragista di Cosa nostra. E' questo quanto scritto dai giudici della Corte d'assise di Firenze che hanno depositato le motivazioni della sentenza di condanna all'ergastolo di Francesco Tagliavia per le stragi del '93 a Firenze, Roma e Milano. E “l'iniziativa - scrivono - fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.

Nella sentenza si legge infatti che “l'obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d'intesa con "Cosa Nostra" per far cessare la sequenza delle stragi”. Secondo i giudici fiorentini, “è verosimile che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci (del 23 maggio 1992 in cui perse la vita il giudice Giovanni Falcone, ndr), nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli... si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell'intelligence”.
La trattativa, iniziata dopo Capaci, si sarebbe ben presto interrotta con l'attentato di via D'Amelio in cui il 19 luglio 1992 venne ucciso il giudice Paolo Borsellino, “forse per una sorta di ritirata di chi la conduceva (certamente il colonnello Mori, forse i livelli superiori degli apparati istituzionali) di fronte al persistere del programma stragista, laddove la trattativa avrebbe richiesto quantomeno un armistizio. Proprio per queste ragioni, l'uccisione di Borsellino resta nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala”.
Le oltre mille pagine della sentenza depositata ieri dalla corte presieduta da Nicola Pisano, rappresentano anche un atto di accusa in merito alla gestione della giustizia, di chi doveva sapere, “soggetti di così spiccato profilo istituzionale”, scrivono riferendosi agli ex ministri Nicola Mancino e Giovanni Conso, entrambi chiamati come testimoni al processo. “Esce una quadro disarmante che proietta ampie zona d'ombra sull'azione dello Stato nella vicenda delle stragi”, scrivono i giudici sottolineando come queste “ombre” il processo di Firenze “non hanno potuto dipanare”. I giudici fiorentini definiscono anche “incomprensibile come apparati di governo si muovessero in un modo cosi' incerto e scoordinato rispetto alla drammatica situazione in cui versava il Paese”. La corte fa riferimento alla revoca o al mancato rinnovo del 41 bis nei confronti di alcuni mafiosi, con decisioni che “prestano il fianco a molte considerazioni critiche per la loro singolarità e diacronia rispetto a quanto sarebbe stato da attendersi in un momento cosi' allarmante per la vita del Paese”. Per i giudici, “quello che sconcerta nella vicenda è la tempistica e il parallelismo dei percorsi tra lo sviluppo della trattativa, per come emergente dalle dichiarazioni e quei provvedimenti ablatori del regime del carcere duro, che oggettivamente, e al di la' di qualsiasi interpretazione o proposito, in quel contesto potevano apparire come sintomo di un cedimento alla mafia”. Nonostante la precisazione della Corte che dice di non disporre di “fatti inoppugnabili, pero' un corretto utilizzo dell'argomento logico-deduttivo non può far sottacere il possibile collegamento tra quelle non provvide decisioni e la modulazione dell'accordo con la mafia che si andava profilando”.

L'attendibilità di Spatuzza e il ruolo di Forza Italia
Quello di Firenze è il processo che si è fondato sull'attentibilità del pentito Gaspare Spatuzza, per i giudici confermata dai riscontri alle sue dichiarazioni anche quando parla della ricerca di nuovi referenti politici avviata da Cosa nostra dopo l'uccisione di Salvo Lima. Spatuzza parla anche di Marcello Dell'Utri e i giudici, si dicono “sorpresi” della scelta di Giuseppe Graviano di non rispondere alla corte che lo interrogava “su Marcello Dell'Utri, e su eventuali investimenti effettuati nel gruppo Fininvest e sul movimento denominato 'Sicilia Libera'”. Una scelta che “può essere anche interpretata come una sorta di segnale obliquo lanciato all'esterno”.
Secondo la corte non vi sono riscontri sull'ipotesi che la nascente Forza Italia, sia stata “mandante o ispiratrice delle stragi”, ma al tempo stesso non si esclude che la mafia abbia visto il nuovo partito “come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino”, e anche che “un canale di interlocuzione si fosse aperto” con il nascente partito, “o anche solo con alcuni suoi esponenti di rilievo”.
Di certo “le nuove prospettive - scrivono i giudici - avevano indotto a rinunciare al progetto di creare un partito di mafia sotto l'etichetta di 'Sicilia libera'”, la cui nascita è attestata dallo statuto acquisito agli atti del processo, “capace di aggregare anche le potenti cosche della 'Ndrangheta calabrese”.
Il documento è stato depositato ieri anche a Roma presso la Commissione Antimafia, dal procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi, ascoltato nel pomeriggio dall'organismo parlamentare presieduto da Giuseppe Pisanu che sta svolgendo una serie di audizioni per cercare di fare luce sulla contrattazione sotterranea Stato-cosche.