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borsellino-paolo-web0''Decise di proteggere la famiglia''
di AMDuemila - 3 febbraio 2012

Un mese prima della strage di via D'Amelio Paolo Borsellino fu informato dai carabinieri di un attentato in preparazione contro di lui da parte di Cosa Nostra. E' questo quanto confermato dal colonnello dei carabinieri Umberto Sinico che questa mattina ha deposto al processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano.

 È lo stesso ufficiale a raccontare di un incontro con un informatore, il mafioso Girolamo D'Anna di Terrasini, avvenuto in carcere nel giugno 1992 in cui il 'picciotto' di Cosa nostra parlò dei preparativi di un attentato contro Borsellino. “Andammo subito dal magistrato a riferire quanto appreso da D'Anna - ha detto oggi Sinico - e lui replicò: ‘Lo so, lo so: devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia’. Il Procuratore non voleva coinvolgere in alcun modo la sua famiglia”. “Girolamo D'Anna - spiega Sinico - era in confidenza con il maresciallo che comandava la stazione del paese, Antonino Lombardo”, poi morto suicida nel marzo del '95. “A sentire D'Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io - ha detto ancora l'ufficiale dei Carabinieri - Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con D'Anna, che disse dell'esplosivo e dell'idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio. 'Procuratore, risposi io, allora cambiamo mestiere'”. Secondo Sinico D'Anna era un uomo d'onore “posato”, cioè estromesso, perché vicino a Gaetano Badalamenti: “Era persona di grande carisma, veniva interpellato dai vertici della sua parte criminale”. Sempre Sinico ha spiegato, durante la sua deposizione in aula, che i rapporti tra Paolo Borsellino e la sezione anticrimine di Palermo dell'epoca fossero buoni escludendo che ci fossero contrasti tra Borsellino e la sezione Anticrimine dei carabinieri di Palermo”. Alla domanda, durante il contro esame, del pm Antonino Di Matteo come mai non era stata fatta una “nota formale al procuratore su quanto detto dall'informatore”, Sinico ha replicato: “Intanto abbiamo riferito quanto detto al diretto interessato. E poi il Ros produsse una nota in cui dava conto del progetto omicidiario sulle indicazioni che avevamo dato noi dopo l'incontro con D'Anna”. Borsellino, ha concluso l’ufficiale, ”era conscio del destino che lo aspettava e sembrava che non volesse opporsi”. “Destino” che si presenterà il 19 luglio di quello stesso anno, con la strage di via D’Amelio. Nella sua deposizione Sinico ha anche menzionato la richiesta di atti relativi ad indagini su mafia e appalti che gli avrebbe fatto l’allora capitano Obinu nel periodo antecedente la strage di via d’Amelio. Nel suo ricordo questa richiesta era legata all’incontro di Obinu con Paolo Borsellino al quale secondo lui sarebbero stati utili quegli atti. Di Matteo ha successivamente fatto notare che il colonnello Sinico nelle sue precedenti deposizioni nei vari procedimenti per l’eccidio del 19 luglio ’92 non aveva mai menzionato questa richiesta di Obinu. Nella sua deposizione il maggiore Giovanni Sozzo ha ripercorso di seguito i passaggi salienti di alcune operazioni antimafia. Alla domanda specifica con riferimento alla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso il magg. Sozzo ha giustificato l’ordine di non intervenire in quelle particolari circostanze (riferendosi a Luigi Ilardo e alla paventata “difficoltà” di un suo pedinamento nelle campagne) ricordando la regola del “meglio soprassedere che bruciare un obiettivo” specificando che in quel modo si era voluto “tutelare la ricerca del latitante” e che questo rientrava nella logica degli insegnamenti che aveva ricevuto. Unico assente della giornata Monsignor Fabbri, ex vice-ispettore generale dei cappellani delle carceri, la cui audizione è stata posticipata alle prossime settimane. Al momento è stato depositato il suo verbale d'interrogatorio. Secondo mons. Fabbri sarebbe stato direttamente l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a decidere, a giugno del 1993, la rimozione dall'incarico del capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. “Caro monsignore - avrebbe detto Scalfaro a Cesare Curioni, suo amico di vecchia data e capo dei cappellani delle carceri, secondo il racconto di Fabbri - ho parlato ieri con il ministro della Giustizia Conso. La prego di dargli una mano per individuare il nuovo direttore generale (del Dap, ndr) perchè con questa gestione basta”. 
Tra i nomi che i due sacerdoti e Conso vagliarono per la successione, ci sarebbe stato anche quello di Giuseppe Falcone, ex presidente del tribunale dei minorenni. Ma, racconta Fabbri, per il ministro era “uno troppo duro”. Poi c’erano i veti posti da Scalfaro che avrebbe indicato una lista di persone che non voleva al Dap. “Finchè sono capo dello Stato questi qui non li voglio”, avrebbe detto. Alla fine la scelta ricadde su Adalberto Capriotti, all'epoca magistrato a Trento. Si sondò la sua disponibilità e lui accettò. Solo che Capriotti non aveva i titoli e ci volle un decreto di Scalfaro che lo nominava direttore generale del ministero per consentirgli di diventare capo del Dipartimento. La vicenda raccontata da monsignor Fabbri va letta alla luce della pista seguita dai pm di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia e che ruota anche sulle singolari sostituzioni di Amato ai vertici del Dap e, qualche mese prima, dell'allora ministro dell'Interno Scotti. Sostituzioni che, secondo la Procura, potevano essere finalizzate a mettere in due posti chiave personaggi che avrebbero potuto accettare un atteggiamento meno rigido dello Stato in tema di carcere duro. Il 41 bis secondo questa ricostruzione era la merce di scambio offerta a Cosa nostra per la cessazione delle stragi di mafia. In quel periodo Scalfaro ricevette anche una pesante lettera di familiari di boss al 41 bis che chiedevano condizioni più umane per i loro congiunti. La strage di Capaci con l'uccisione di Falcone e l'attentato a Borsellino avevano destabilizzato il Paese e Scotti aveva già lanciato l'allarme sull'inizio di una stagione di omicidi eccellenti. Serviva dare a Cosa nostra un segnale, che secondo i pm sarebbe arrivato a novembre del '93 con la revoca di oltre 300 41-bis sollecitata da Capriotti e dal suo vice, Francesco Di Maggio, vero dominus del Dap secondo i magistrati, e formalmente adottata da Conso.

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