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falcone-borsellino-bigdi Anna Petrozzi - 11 gennaio 2012
Vent’anni e un grosso rischio: che a pagare per le stragi del 1992 siano solo gli esperti della violenza, i mafiosi in senso stretto. Le difficoltose indagini condotte con grande abnegazione e impegno dai magistrati e dagli investigatori in forza a Caltanissetta hanno infatti portato a nuovi imputati sia per Capaci che per via D’Amelio, ma provengono tutti dall’ala militare di Cosa Nostra. La via dei cosiddetti mandanti esterni sembra invece ancora impervia e senza luoghi d’approdo.

Per l’eccidio che costò la vita a Giovanni Falcone, a sua moglie e agli agenti della scorta, è stato iscritto nel registro degli indagati Salvino Madonia, figlio di Francesco, indiscusso boss di Resuttana. Le accuse partono da lontano, dalle dichiarazioni di Antonino Giuffré e Giovanni Brusca rilasciate a Catania durante il processo unificato per le due stragi. Entrambi infatti hanno ricordato la presenza di Madonia alle riunioni deliberatorie del progetto di attacco allo stato avvenute del dicembre 1991 e in particolare proprio in quella in cui Totò Riina proclamò “la resa dei conti” a danno di nemici e traditori.
Per via D’Amelio invece sono indagati per concorso in strage, oltre a Gaspare Spatuzza reo confesso e fautore della riapertura del processo, anche Nino Mangano e Vittorio Tutino, uomini della cosca di Brancaccio che nascosero nel proprio garage l’auto usata per l’attentato e il meccanico Maurizio Costa che, su indicazione di Spatuzza, riparò le ganasce dei freni della 126 prima che fosse imbottita di tritolo.
Molto più complicato per gli inquirenti è invece portare a conclusione il delicatissimo filone di indagine che riguarda il depistaggio scaturito sempre dalle confessioni di Spatuzza che, sbugiardando le versioni dei falsi pentiti Scarantino, Andriotta e Candura, hanno innescato l’inevitabile e ovviamente lecita sequela di domande cui ora si dovrebbe trovare una risposta.
I tre, considerati poco più che balordi di borgata, hanno messo a verbale di essere stati indotti a mentire dai poliziotti che li interrogavano dietro pressioni fisiche. I dirigenti Vincenzo Ricciardi, Salvatore La Barbera e Mario Bo, tutti agli ordini del super poliziotto Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), sono infatti accusati di calunnia aggravata. Tuttavia seppur vi siano più che ombre sul loro operato la Procura nissena al momento non ha ancora trovato sufficienti riscontri per procedere alla richiesta di giudizio e i soli tre testimoni chiave, per manifesta inattendibilità, non sono certamente una garanzia di prova.
Ciò che resta nelle mani dei magistrati sono tessere forse finalmente autentiche di un puzzle scombinato ma ancora troppo poche e che tra loro non combaciano.
Chi ha convinto un disgraziato come Scarantino a farsi 18 anni di carcere? E perché? Chi ha spinto gli altri due ad accollarsi una condanna così pesante per concorso in strage? Se depistaggio c’è stato da parte del gruppo di La Barbera, qual era il fine? E’ stata solo un’occasione di carrierismo o c’era una regia?
Scarantino non ha detto solo falsità, ha mischiato elementi veri e falsi chi l’ha imbeccato, come poteva conoscerli?
E’ curioso infatti leggere in un appunto riservato del 13 agosto 1992 indirizzato alla direzione del Sisde di Roma che “in via ufficiosa la locale polizia di stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’ “autobomba” parcheggiata in via D’Amelio ….” E fosse in possesso “di valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.
Giustamente i magistrati rilevano come fosse possibile che già a quella data gli investigatori potessero essere in possesso di tali elementi ma per chiare il punto a nulla sono valsi gli interrogatori all’autore della nota, il generale Andrea Ruggeri, né al prefetto De Sena.
Tanto meno può essere sottovalutato il fatto che il questore La Barbera, vero regista delle prime investigazioni sulle stragi, sia stato per due anni (dall’87 all’89) fonte dei servizi di sicurezza con il nome in codice Rutilius. Ma in quel periodo non avrebbe mai fornito alcuna informazione al suo superiore, il prefetto de Sena appunto.
C’è poi la misteriosa fuoriuscita di scena di Gioacchino Genchi che pochi mesi dopo essere entrato nel pool di La Barbera decide di rassegnare le dimissioni. Secondo Genchi la ragione fu la profonda divergenza con il questore per l’arresto di Gaetano Scotto che avrebbe fatto saltare la pista del coinvolgimento dei servizi segreti, ma i magistrati titolari delle indagini di allora Ilda Bocassini e Fausto Cardella, in una nota del maggio 1993, misero per iscritto che le motivazioni addotte da La Barbera sull’allontanamento del tecnico erano state “generiche e non del tutto convincenti”.
Insomma la sensazione che si prova è quella di vedere magistrati, poliziotti, familiari delle vittime e cittadini onesti alla ricerca della verità, tutti rinchiusi in un labirinto, guardati dall’alto dai molti che, anche all’interno delle Istituzioni, sanno e nel terrore che venga trovata la via d’uscita, tacciono.

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