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di Davide de Bari
“La criminalità, la corruzione non si combattono soltanto con i carabinieri. Le persone per scegliere devono sapere, devono conoscere i fatti. È allora quello che un giornalista 'giornalista' dovrebbe fare è questo: informare”. In questa frase, riportata nel film “Fortapàsc”, è racchiuso il testamento morale del giornalista Giancarlo Siani, ucciso a soli 26 anni dalla Camorra il 23 settembre 1985. Il cronista stava parcheggiando sotto casa, dopo una lunga giornata di lavoro nel quotidiano dove lavorava, “Il Mattino”, due uomini lo freddarono con diversi colpi d’arma da fuoco calibro 7.65. Per Siani informare era un “dovere” imprescindibile, che andava oltre al semplice guadagno (a lungo era stato “precario” per il quotidiano), solo all’accertamento di verità su fatti che, secondo la Camorra, dovevano rimanere nell’ombra, come il traffico di sigarette e gli appalti truccati. “Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere Giornalista è qualcosa di altro. - scriveva Siani - E’ sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato. Essere Giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno. Le parole, mi è sempre stato detto, feriscono più di mille lame, pungolano le coscienze, sono inviti alla riflessione e alla lotta, teoria che diviene prassi quotidiana di esercizio della libertà. - continuava - Ma le parole possono, anche, se usate in maniera 'criminale', passare dei messaggi sbagliati, costruire luoghi comuni difficili da abbattere, discriminare, incitare all’odio, creare dei 'diversi' da sbattere in prima pagina come il male assoluto, rendendo le nostre società sempre meno inclusive, transennate dal filo spinato dell’ignoranza e del razzismo”.

Il dovere del giornalista
Siani era un giornalista coraggioso che nel suo lavoro andava fino in fondo: in quegli anni nel napoletano nessun altro giornalista aveva avuto il coraggio di denunciare la criminalità organizzata. Il cronista scriveva di fatti scomodi, raccontando le realtà del napoletano e, soprattutto di Torre Annunziata. “Una città con circa 60.000 abitanti, un apparato produttivo in crisi, oltre 500 cassintegrati e la più alta percentuale di iscritti al collocamento - scrive lui stesso in un articolo per la rivista “Osservatorio sulla camorra” - Un ottimo terreno per reclutare disoccupati e trasformali in killer”. Siani era riuscito a comprendere quell’intreccio affaristico che esisteva tra la Camorra, istituzioni pubbliche e imprenditoria. In un articolo sul business del mercato ittico, il giovane cronista, descriveva così le infiltrazioni criminali: “Tra i soci delle due cooperative che lavorano al mercato del pesce, spicca un nome inquietante: Gemma Donnarumma, moglie di Valentino Gionta. È questo il modo pulito per intascare il ricavato delle attività del mercato - scriveva - con il sistema delle cooperative, Gionta aveva dato via a altre imprese di camorra. Inevitabile l’infiltrazione nel sistema degli appalti”.

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Il giornalista, essendo a conoscenza dei fatti di Camorra, riguardanti soprattutto la Nuova Famiglia dei Nuvoletta, riuscì a capire quello che si nascondeva dietro l’arresto del boss di Torre Annunziata, Valentino Gionta. Infatti, “Il Mattino” pubblicò un articolo raccontando l’arresto ed esprimendo alcune valutazioni che, secondo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Ferdinando Cataldo, avrebbe decretato la morte del giornalista. In quelle righe Siani ipotizzò che il boss fosse stato “venduto” agli investigatori dal clan alleato dei Nuvoletta. Quindi, per i fratelli Nuvoletta quel giornalista doveva essere ucciso perché con quell’articolo aveva “offeso” l’onore della famiglia.
Addirittura, un collaboratore di giustizia Gabriele Donnarumma ha rivelato che dietro la morte di Siani ci sarebbe stato l’ordine del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina. “Lo ‘zio’- ha rivelato il pentito - dalla Sicilia non accettava che, nei confronti di mafiosi - tali eravamo noi ed i Nuvoletta - si dicessero cose del genere e perciò dovevamo uccidere il giornalista”. Ma a tale dichiarazione non è stato trovato alcun riscontro giudiziario.

Verità marginali
Otto processi ci sono voluti per arrivare ad avere qualche stralcio di verità. Per l’assassinio del giornalista sono stati condannati i mandanti (Lorenzo Nuvoletta e Luigi Braccante) e gli esecutori (Ciro Cappucci e Armando Del Core) tuttavia, quella verità processuale, non ha smentito che dietro l’omicidio si nascondesse altro. Infatti, lo stesso pm Armando D’Alterio, il sostituto alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli che nel 1994 riaprì le indagini sul caso, ha dichiarato in passato che “quell’articolo fu solo la causa scatenante dell’omicidio”. Ma probabilmente dietro si nascondono altre motivazioni. A provare a rispondere a questi interrogativi è stato il giornalista Roberto Paolo con il libro-inchiesta “Il caso non è chiuso” (ed. Castelvecchi). Secondo l’autore, che ha raccolto prove e testimonianze inedite, a sparare al giornalista non sarebbero stati Armando Del Core e Ciro Cappuccio, ma altri due ragazzi, entrambi deceduti, che lavoravano per i Giuliano. Inoltre a pianificare l’attentato non sarebbe stato solo il clan dei Nuvoletta ma anche quello Gionta e Giuliano, ognuno per un proprio interesse. Proprio su questo si orientano i pm della Dda di Napoli che qualche anno fa hanno aperto un nuovo fascicolo sull’omicidio.
La storia di Giancarlo Siani è un esempio per tutti quei giovani che hanno intenzione di intraprendere la carriera del giornalista, vista l’abnegazione e l’etica da lui professata.
Oggi a Napoli, per tenere viva la memoria di Giancarlo, sono state organizzate diverse iniziative e, soprattutto, sarà presentata la fondazione in suo onore. Inoltre sarà inaugurata al Palazzo delle Arti di Napoli la sala della memoria dedicata al giornalista. "Già nel 1986, 33 anni fa, nacque l'associazione Giancarlo Siani perché capimmo che subito dovevamo dare una risposta organizzata a questo evento drammatico che ci aveva colpito - ha detto il fratello Paolo Siani, anche parlamentare del PD - dopo tanti anni abbiamo ormai le gambe forti per poter fare una Fondazione. La presiederà mio figlio Gianmario e mia figlia Ludovica, sono loro che in qualche modo porteranno avanti da oggi in poi questa battaglia in ricordo di uno zio mai conosciuto".

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