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di Emiliano Federico Caruso

Nella mattina di martedì 10 novembre sono stati eseguiti 19 arresti dai carabinieri dei Ros di Napoli nei confronti di altrettanti esponenti, capi e sodali di clan camorristici attivi nelle province di Caserta, ma con ramificazioni anche in altre zone d’Italia. Gli arresti, e il relativo sequestro preventivo di 34 mln di euro tra beni mobili, immobili e società, rappresentano il culmine di un’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Napoli e dalla Dia, e si inserisce nell’operazione “Azimut” condotta da giugno del 2012 a maggio 2013.

Grazie a riprese video, intercettazioni, collaboratori di giustizia e attività sul campo, gli investigatori hanno potuto documentare un sodalizio tra i clan Venosa, Iovine, Zagaria, Bidognetti e un quinto gruppo abbastanza misto. L’attività congiunta dei clan, alcuni dei quali considerati finora minori nella scena criminale campana, permetteva di riempire un vuoto di potere nella gestione del territorio e di evitare conflitti interni, al punto che per la prima volta i casalesi avevano deciso di allearsi anche con alcuni clan di Mondragone e di Sessa Aurunca finora tenuti ai margini delle attività camorristiche.

Una gestione talmente ben collaudata che i cinque clan facevano confluire i proventi delle attività illecite in una sorta di cassa comune, un po’ come faceva la famosa Banda della Magliana a Roma (che, per la cronaca, con i casalesi fece molti affari criminali). Tra i 19, accusati ora dell’intero catalogo del perfetto camorrista tra estorsione, traffico illegale di armi, intestazione fittizia di beni e sequestro di persona, si trovano molti dei più famosi nomi della criminalità casalese, da Vincenzo “Enzuccio ‘o casalese” Borrata a Carmine “Carminotto ’o Staffone” Schiavone, già arrestati a settembre del 2013 per estorsione e associazione mafiosa. Carmine, in particolare, è figlio del più famoso Francesco “Sandokan” Schiavone, tra i fondatori e capi assoluti dei casalesi tra gli anni ’80 e ’90.



La lista dei 19 prosegue con Vincenzo Gallo, reggente del clan Muzzoni arrestato dopo una latitanza iniziata a novembre dello scorso anno. Già sodale dei casalesi, gestiva le relazioni tra questi e la mafia dei corleonesi: la figlia di Gallo, quasi a cementare l’alleanza tra i clan campani e siciliani, ricevette in regalo per il suo matrimonio una lussuosa macchina da don Vincenzo La Placa, notoriamente legato a un certo Totò Riina. Passando per Antonio Baldascini, tra le altre cose già tra gli indagati per estorsione ai danni di un imprenditore di Giugliano, fino ad Aldo Cristiano passato per gli arresti a luglio 2011, tanto per dirne una, insieme ad Aniello Caturano, Antonio Santamaria e Vincenzo Tummolo: costringevano un imprenditore edile ad acquistare cemento scadente e non a norma per le zone a rischio sismico. Poi Americo Di Leone, il noto macellaio delle Crocelle, già arrestato in passato per varie estorsioni tra cui quella ai danni del vicesindaco di Mondragone, fino ad arrivare a Carmine Schiavone, omonimo del cugino di “Sandokan” e in passato collaboratore di giustizia. Continuando con Giuseppe Iovine, fratello ed erede criminale del più famoso Antonio “‘o Ninno”, boss dei casalesi arrestato nel novembre 2010 dopo una latitanza durata 14 anni. Fu proprio dopo l’arresto di “‘o Ninno” che Giuseppe tentò di ricostruire il clan dei casalesi. Gli altri nomi del sodalizio criminale finiti agli arresti sono quelli di  Salvatore Borrata, Andrea Bortone, Tommaso Della Valle, Vincenzo Della Corte, Carlo Di Meo, Nicola Panaro, Carmine Iaiunese, Antonio Patalano, Francesco Schiavone (da non confondere con “Sandokan”), Renato Reccia, Gennaro Sorrentino e Giuseppe Vellucci.

Una sorta di holding criminale coinvolta anche nella gestione dei rifiuti tossici (la magistratura ha disposto il sequestro anche di una cava del monte Petrino, a Mondragone, dove i clan versavano l’amianto) e nel rapimento dei figli di Massimo Alfiero, affiliato da tempo ai casalesi e al momento detenuto in 41 bis. Dopo il suo arresto Alfiero pensò seriamente nel 2010 di collaborare con la giustizia, di iniziare a fare nomi e cognomi e “cantare”, come si dice nel gergo. Nel timore di pericolose rivelazioni Renato Reccia, tra i 19 arrestati e in passato ambasciatore di Francesco “Sandokan” Schiavone, chiese allora a sua figlia Giuseppina di sequestrare i due figli di Alfiero per un paio di giorni, il tempo necessario perché l’aspirante pentito cambiasse idea. Funzionò, dal momento che Alfiero ritrattò in seguito qualsiasi dichiarazione. Anche se della storia, emersa grazie a un’intercettazione ambientale, Salvatore Venosa, boss dell’omonimo clan, racconta una versione diversa, spiegando come la moglie di Massimo Alfiero percepisse da Renato Reccia uno “stipendio” di 1400 euro al mese per evitare le dichiarazioni del marito.

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