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scampiadi Roberto Saviano - 18 dicembre 2012
Immaginate se due bombe da guerra, di quelle utilizzate per combattere nell’ex Jugoslavia fossero state lanciate a Milano. O a Roma, Torino, Venezia. O fossero state lanciate in un quartiere di Parigi. I telegiornali avrebbero aperto in allarme, le prime pagine avrebbero dato la notizia pretendendo responsabilità e analisi da parte delle istituzioni e della società civile.

Invece vengono lanciate a Scampia ed è solo una notizia di cronaca locale: la solita, l’ennesima. Lotto G e case Celesti territorio del clan dei “Girati”, è lì che hanno lanciato le bombe. Una è esplosa, l’altra no. Bombe di fabbricazione est europea, di quelle usate dalle truppe della tigre Arkan. Esplosivo al plastico con microsfere metalliche che rendono l’ordigno ancora più pericoloso. Per generare allarme e attenzione nazionale avrebbero dovuto esserci morti, tanti morti. E invece, fortunatamente, solo feriti. Anche se questi feriti sono bambini – ancora bambini! – di 9 e 13 anni. Questa notizia anche se agghiacciante non è servita a cambiare l’agenda politica né a catalizzare l’attenzione del paese. Non c’è stata alcuna indignazione. Ha avuto più luce la nuova fidanzata di Berlusconi che quest’ennesimo atto di guerra nel sud Italia. Ancora una volta la priorità nella battaglia antimafia è sembrata non esserci. Antimafia, parola abusata, che ha perso quasi del tutto senso. Il governo Monti ha avuto un comportamento disciplinato nella lotta alle mafie ma non sufficiente: lo scioglimento da parte del ministero dell’ Interno del Comune di Reggio Calabria è stato coraggioso. Si è cercato di essere presenti a Scampia. Tutto questo è stato importante ma, forse perché le priorità sembravano altre, non c’è stato un attacco frontale ai capitali mafiosi e alle organizzazioni criminali. La prima questione, la più urgente da affrontare, doveva essere la questione economica. Le casse dei clan e il loro rapporto con le banche italiane. Gli americani hanno individuato il pericolo enorme che le mafie rappresentano per l’economia nazionale e hanno deciso di dichiarare loro guerra anche attraverso un monitoraggio più attento delle banche. Hsbc, il colosso finanziario inglese, ha pagato una multa di 1,9 miliardi di dollari per aver tra l’altro riciclato i soldi dei narcotrafficanti. La banca Wachowia ha pagato 50 milioni di dollari in multa e subìto confische per 110 milioni per lo stesso motivo. Anche Citibank, una delle banche più grandi d’America, è stata accusata di riciclaggio. È pensabile che in Italia nessuna banca sia stata chiamata a rispondere di riciclaggio? Possibile che l’ingresso dei capitali dei clan nell’economia legale venga avvertito come priorità negli Stati Uniti e non da noi che abbiamo sul territorio tre delle mafie più potenti del mondo? Secondo la Dea tra i 500 e i 1.000 miliardi di dollari di denaro sporco ogni anno vengono lavati negli istituti di credito americani. Miliardi! E in Italia invece non accade nulla? Possibile? Il sistema finanziario italiano non è stato chiamato a rispondere e la lotta alle mafie è stata delegata nei fatti soltanto all’impegno del singolo per le denunce, alle polizie per le indagini e ai tribunali per le condanne. È pensabile che nel paese dove il fatturato delle mafie è in assoluto la prima voce economica le banche siano estranee a questi flussi? Potevano essere fatte velocemente leggi a cui la maggioranza berlusconiana non si sarebbe opposta – o almeno non avrebbe potuto farlo pubblicamente e impunemente – per poter mettere mano ai rapporti tra finanza e organizzazioni criminali. Si poteva velocizzare il riutilizzo e l’assegnazione alla società civile di beni e capitali confiscati alle organizzazioni criminali. E poi c’è la questione carceri che in Italia è una priorità da affrontare e risolvere. Mi si dirà: “Ma questo cosa ha a che fare con la battaglia antimafia?”. Moltissimo. Non tutti gli affiliati sono al 41 bis. Il 41 bis, il carcere duro, è per i capi. La maggior parte degli affiliati, quelli che non scontano la loro pena al 41 bis, in carcere vivono una condizione di privilegio. Non vengono picchiati, hanno una struttura di solidarietà esterna, ricevono stipendio dai clan, nessun altro detenuto osa maltrattarli. E addirittura, per scelta di tutte le mafie, le faide esterne al carcere si sospendono una volta dentro, evitando quindi spargimenti di sangue in galera, come accadeva negli Anni 80. Gli altri carcerati, i non affiliati, vivono l’inferno e ambiscono a entrare nelle organizzazioni per poter essere rispettati, per scontare la loro pena in condizioni migliori. Lasciare le carceri italiane così come sono, equivale a mantenere in piedi la più grande palestra di affiliazione esistente nel nostro paese. Non è un caso che appena Silvio Berlusconi ha annunciato di volersi ricandidare, i primi ad aver dato il loro personalissimo “signor sì signore!” siano stati proprio quei rappresentanti del Pdl campano che tanta dimestichezza hanno con le aule di giustizia. Da Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’Economia, scampato all’arresto due volte grazie al voto contrario della Camera a Luigi Cesaro, ex presidente della Provincia di Napoli, indagato per concorso in associazione mafiosa. Da Marco Milanese, ex ufficiale della Finanza, poi deputato e braccio destro di Giulio Tremonti, salvato dal carcere dal no dell’Aula alla richiesta d’arresto. Fino ad Amedeo Laboccetta, indagato per favoreggiamento. L’elenco potrebbe continuare, ma preferisco fermarmi qui. Tutti hanno avuto parole di stima nei riguardi di Berlusconi, l’unico a detta loro, in grado di tirarci fuori dalla crisi, di abbassare le tasse e incrementare l’occupazione. Insomma: dopo Berlusconi solo Berlusconi. Dietro questo ritorno vedo stagliarsi non solo la vecchia politica, sempre orrida e uguale a se stessa, ma vedo anche crescere il pericolo del solito voto di scambio. Delegittimare la politica, vuol dire anche svalutare il voto. E per una parte del Paese la scheda elettorale diventa un bene da far fruttare, da poter vendere. Più disgusta la politica, più vendere un voto per 50 o per 25 euro non appare una pratica amorale, non sembra affatto una deroga al senso civico, ma una minima ricompensa per i soprusi che si è costretti a subire. Il voto di scambio diventa fondamentale in un momento in cui non c’è lavoro. In un momento in cui anche un concorso per l’insegnamento viene subìto come l’ennesima presa in giro da chi neo-laureato aspira all’abilitazione, da chi già abilitato deve sottoporsi all’ennesima trafila per sperare di entrare in ruolo e da chi mai abilitato ma eterno supplente a cinquant’anni spera che questa sia la volta buona. E allora basta un piccolissimo, talvolta invisibile intervento per assegnare migliaia di voti. Il timore maggiore è che ripiombare nel meccanismo Berlusconi sì, Berlusconi no sia il modo migliore non solo per aiutare Berlusconi a farcela di nuovo, ma anche il modo più veloce per seppellire sotto quintali di macerie la lotta alle organizzazioni criminali. Del resto non dimenticherò mai cosa mi disse, una volta, un magistrato che stimo molto: “Bisognerebbe eliminare dal nostro vocabolario il termine antimafia, perché legittima tutti”. Chiunque affermi di essere antimafia, si posiziona da sé automaticamente dalla parte del bene. Eppure ci sono modi di fare antimafia superficiali, qualunquisti, di facciata. Con inchieste che gettano fumo negli occhi. La battaglia antimafia si valuta nei risultati dei processi, nella capacità di diffondere nel paese una reale coscienza e conoscenza dei fatti, nella modifica delle leggi, nella costruzione di possibilità altre per le imprese. Non nei proclami sui dati degli arresti e nello sbandierare la battaglia come grimaldello politico. Due righe dell’inchiesta sull’infiltrazione della ndrangheta nella azienda di call center «Blue Call» mi hanno dato un colpo allo stomaco. Una mamma vicina alla ‘ndrina dei Bellocco suggerisce alla figlia, cui a scuola avevano assegnato un tema sulla mafia, di scrivere: “La mafia è lo Stato”. Quando si arriva a questo bisogna iniziare a comprendere a che punto è la notte italiana. 


Tratto da: repubblica.it

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