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di AMDuemila
Il pentito: "Non ho giustificazioni, mi chiedo come ho potuto oltraggiare un corpo"

Dopo dieci anni, il killer della testimone di giustizia Lea Garofalo, Vito Cosco ha deciso di raccontare la verità sull’omicidio consumato il 24 novembre 2009. "Non ho giustificazioni per quello che ho fatto: - ha spiegato - se esiste un aldilà ho bisogno che la vittima continui a disprezzarmi per non aver fatto nulla per fermare quella follia". Nel carcere di Opera, Cosco, dove sta scontando la condanna all’ergastolo per l’omicidio e la distruzione del cadavere della donna di 36 anni, in concorso con il fratello Carlo, compagno di Lea Garofalo, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ha realizzato uno scritto, grazie all’aiuto di un altro ergastolano, Alfredo Sole, dove ha raccontato il suo ruolo nell’omicidio. "La verità - ha scritto - è che io sono morto poco meno di dieci anni fa, insieme alla vittima, ma ancora non lo sapevo. Adesso lo so e sono pronto ad accettare qualunque cosa il destino mi riservi". Però all’interno dello scritto, il pentito continua a negare di aver attirato in trappola e ucciso assieme al fratello Lea Garofalo, in un appartamento in piazza Prealpi a Milano, ammettendo solo di aver aiutato Carlo Cosco a occultare il cadavere, trovato nel 2012 in un capannone a Monza. "Ho un fratello più piccolo di me che commise un grave delitto - ha continuato - e, a cose già fatte, coinvolse anche me. Mi chiedo come ho potuto oltraggiare un corpo ormai senza vita. Forse è ancora presto per chiedere perdono". Secondo i giudici, la verità è differente: la corte di Cassazione motivando la conferma della condanna all’ergastolo, ha scritto: "lungi dall’avere avuto un ruolo marginale, rappresenta l’alter ego del fratello Carlo col quale ha condiviso le scelte, partecipando alle riunioni organizzative". I due fratelli furono gli "esecutori materiali" di un omicidio premeditato, per punire la donna che aveva scelto di prendere le distanze dalla ’Ndrangheta e dal compagno, portando con sè in Lombardia la figlia Denise, che ora ha 27 anni ed è divenuta un simbolo del coraggio di ribellarsi ai clan. Inoltre, il collaboratore di giustizia Carmine Venturino, l’ex di Denise, che aveva una copia delle chiavi dell’appartamento in piazza Prealpi, aveva accompagnato là Vito Cosco dopo aver aperto, risalì sulla sua auto e vide arrivare Carlo Cosco e Lea. “Cosco parcheggia di fronte al cancello ed entra con Lea. - ha raccontato - Dopo 10, 15 minuti scendono Carlo e Vito Cosco senza dirmi una parola. Vito sale in auto e mi dice ‘l’abbiamo fatto’. Mi dà un telefono cellulare che mi dice essere quello di Lea e mi dice di farlo sparire subito”. Poi dopo avvenne lo spostamento del corpo di Lea con uno scatolone in un box, dove poi il cadavere fu bruciato e le ossa furono spezzate con una pala.
Durante la sua detenzione, Cosco ha preso parte al gruppo della trasgressione, un’iniziativa creata 21 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità. "Si può vivere una vita intera e giungere alla fine senza quasi avere rimpianti - ha scritto Cosco - oppure, come nel mio caso, la fine del nostro ciclo vitale arriva a tutta velocità come una locomotiva impazzita che travolge tutto (...). I miei valori sono cambiati, vorrei che ci fosse un grosso pulsante rosso da poter pigiare e, all’improvviso, il mondo che va all’indietro fino a quel maledetto momento - conclude - quando avrei potuto capire, rifiutarmi e, forse, comprendere quello che stava accadendo e fermarlo". Il commento della sorella di Lea, Marisa, costituitasi parte civile nel processo, è stato molto duro e si è chiesta di “quali valori” parli Cosco. “Non ci sarà mai perdono per quello che avete fatto - ha scritto in un post - avete commesso un crimine con tanta ferocia nei confronti di una povera donna indifesa, dovete rimanere dietro le sbarre fino all’ultimo respiro”.

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