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musaro de bernardodi Antonio Nicola Pezzuto
Per capire come si è giunti alla sentenza del processo “Crimine” e all’importanza che questa assume nel contrasto alle mafie, occorre spiegare da dove si è partiti.
Il 23 febbraio 2010 l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione afferma: “La giurisprudenza ha riconosciuto la qualifica di associazione di tipo mafioso alle singole cosche piuttosto che alla ‘ndrangheta intesa come organizzazione unitaria…Peraltro, in nessuna sentenza divenuta irrevocabile viene riconosciuta l’esistenza della ‘ndrangheta come fenomeno criminale unitario gerarchico e piramidale. È questa una fondamentale differenza rispetto ai parametri di valutazione adottati in sede giudiziaria sin dal c.d. “maxiprocesso”a proposito di Cosa Nostra siciliana. Negli anni passati diverse importanti sentenze hanno affermato il collegamento tra le articolazioni locali di una stessa “provincia” intesa in senso geografico e non amministrativo (la provincia jonica in particolare) ovvero delle diverse ‘ndrine che operano su un territorio omogeneo, descrivendo tale collegamento in termini di federazione, ma la questione fondamentale dell’unitarietà dell’organizzazione nel suo complesso e dell’esistenza di eventuali organi di vertice dotati di una certa stabilità è ancora tutta da approfondire in sede giudiziaria”.
Negli ultimi quarant’anni c’erano state altre sentenze passate in giudicato. È sicuramente utile richiamarle per spiegare meglio il percorso giurisprudenziale che ha portato al processo “Crimine”.
L’operazione “Montalto” portò a giudizio settantadue soggetti. Davanti ai giudici del Tribunale di Locri apparvero boss come Giuseppe Zappia, Antonio Macrì, Antonio Nirta, Giovanni Tegano e Domenico Tripodo, tutti appartenenti a diverse locali dislocate nell’intero territorio della Provincia: fascia tirrenica, fascia jonica e città di Reggio Calabria.
“Si trattava, quindi, di un’unica associazione a delinquere, contestata a sessantasette soggetti, appartenenti a diverse zone della Provincia di Reggio Calabria”.
Il processo, conclusosi il 2 ottobre 1970 con la sentenza del Tribunale di Locri, consente di affermare come, già nel lontano 1969, vi erano elementi per sostenere che la ‘ndrangheta aveva un’organizzazione unitaria, con articolazioni territoriali nei tre mandamenti. C’era stato un summit storico nel corso del quale era stata posta all’ordine del giorno l’opportunità di dotare le varie locali di ‘ndrangheta di una struttura di vertice che ne coordinasse l’azione.
Il summit, a cui presero parte circa centocinquanta rappresentanti delle cosche della provincia di Reggio Calabria, fu interrotto dall’intervento degli agenti di Polizia coordinati dal Commissario Alberto Sabatino che, nel rapporto del 31 ottobre 1969 inviato all’Amministrazione Giudiziaria, affermava: “Per antica tradizione la malavita della Provincia di Reggio Calabria – denominata anche “onorata società” o “’ndrangheta” – teneva ogni anno in Aspromonte un’assemblea di esponenti e delegati di tutti i nuclei, in occasione dei festeggiamenti che si svolgono a Settembre in onore della Madonna nel santuario di Polsi, sito nel territorio di San Luca”.
In queste assemblee si programmavano i delitti da compiere, si cercava di trovare una soluzione ai conflitti interni e si giudicavano gli affiliati “responsabili di indegnità verso la società e verso i suoi capi”.
Fu l’imputato Antonino Furfari a spiegare quale fosse l’oggetto principale del summit. “Giuseppe Zappia parlava agli altri sostenendo essenzialmente: 1) l’opportunità di unificare in una sola organizzazione, che sarebbe stata più efficiente, i gruppi di malavita facenti capo rispettivamente a Domenico Tripodo, ad Antonio Macrì e a Giuseppe Nirta; 2) l’inderogabile esigenza del rispetto della tradizione in ordine al luogo dell’assemblea annuale, luogo che doveva continuare ad essere scelto nella zona del Santuario di Polsi, anche se era opportuno spostare la data; 3) la necessità di inasprire la lotta contro la polizia, ricorrendo persino ad attentati dinamitardi”.
Le dichiarazioni del Furfari furono parzialmente confermate da Giovanbattista Battaglia che però attribuiva l’iniziativa ad Antonio Nirta.
Alla proposta di costituire un’organizzazione unitaria fecero riferimento anche Francesco Scopelliti e Angelo Oliveri. Quest’ultimo “precisò che la discussione aveva avuto inizio verso le 9:30 con un intervento dello Zappia il quale aveva esortato alla concordia i soci di Condofuri, invitandoli ad unirsi alle altre forze di malavita della Provincia in maniera che l’onorata società risultasse un’organizzazione unitaria tale da essere capace di fronteggiare l’azione della polizia”.
Nel corso del processo il Pubblico Ministero sostenne che “la riunione tenutasi la mattina di domenica 26 ottobre 1969 in loc. Serro Juncari di Montalto, nel cuore dell’Aspromonte, fu certamente l’assemblea della malavita della Provincia di Reggio Calabria, manifestazione tutt’altro che solitaria dell’attività illecita multiforme, tipica di quell’associazione articolata ed efficiente che è la malavita stessa”.
La tesi della Procura fu accolta dal Tribunale con la sentenza del 2 ottobre 1970: “Le emergenze processuali, cioè, fanno ritenere che già all’epoca unica fosse l’organizzazione  (denominata ‘ndrangheta, Malavita o Onorata Società), anche se strutturata in tre diversi gruppi in relazione all’area territoriale di competenza, e che all’ordine del giorno era posta la necessità di renderne più incisiva l’azione, obiettivo che poteva essere realizzato solo rendendone unica la “testa”, quindi creando una struttura di vertice”.
A partire dalla fine degli anni Settanta cominciò a risultare evidente una tendenza “federalistica” delle varie locali.
A tal proposito è molto importante la sentenza pronunciata dal Tribunale di Reggio Calabria in data 4 gennaio 1979 in occasione del famoso processo “De Stefano Paolo + 59”. Nella motivazione si analizzava il passaggio dalla vecchia alla nuova mafia rappresentata da Paolo De Stefano, Giorgio De Stefano (non imputato perché deceduto), dai fratelli Domenico e Pasquale Libri e dai fratelli Girolamo e Giuseppe Piromalli. La partecipazione alla medesima associazione per delinquere veniva contestata agli esponenti di vertice delle cosche operanti nella città di Reggio (Paolo De Stefano, Domenico Libri, Pasquale Libri) e nella fascia tirrenica della provincia reggina (Girolamo Piromalli, Giuseppe Piromalli, Gioacchino Piromalli, Vincenzo Mammoliti, Giuseppe Rugolo, Rosario Rugolo, Giuseppe Pesce, Teodoro Crea, Domenico Crea, Giuseppe Avignone, Francesco Sigilli) “per essersi associati tra loro allo scopo di commettere più delitti di estorsione, favoreggiamento, omicidio ed altro, commettendo il fatto in più di dieci persone e con l’aggravante di cui all’art. 7 L. 575/65 per il De Stefano, Girolamo Piromalli, Giuseppe Piromalli, Vincenzo Mammoliti, Giuseppe Rugolo, Rosario Rugolo, Giuseppe Pesce, Teodoro Crea, Francesco Sigilli, Giuseppe Avignone, Domenico Libri, Pasquale Libri ed altri, perché indiziati di appartenere ad un’associazione mafiosa”.
Quindi, con questa sentenza, già alla fine degli anni Settanta, il Tribunale di Reggio Calabria affermava “l’esistenza di una stabile “super-associazione per delinquere”, di una “entità istituzionale nuova”, di un “consorzio delle cosche”; si trattava di una federazione tra alcune famiglie mafiose, che stabiliva patti e scambio reciproco di favori per affari comuni particolarmente lucrosi, ma che, tuttavia, non si traduceva in una struttura organizzativa dotata di un centro di comando permanente e da tutti riconosciuto.
Seguirono gli anni della guerra di mafia che, tra il 1985 e il 1991, hanno macchiato di sangue la città di Reggio Calabria. Alla fine di questo conflitto tra famiglie mafiose, davanti alla Corte d’Assise e alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria fu celebrato un importantissimo processo, denominato Olimpia 1.
Agli elementi di vertice delle cosche operanti nella provincia reggina fu contestato “l’art. 416 bis c.p., per aver promosso, costituito e composto, tra loro associandosi, un organismo decisionale verticistico all’interno dell’associazione mafiosa denominata “COSA NUOVA”, avente il compito di assumere le decisioni più importanti nell’ambito dell’attività criminale di “COSA NUOVA”, di risolvere le più gravi controversie insorte tra le varie cosche facenti parte della predetta, di tenere i rapporti con le altre organizzazioni criminali nazionali ed internazionali, con la massoneria e con le istituzioni, di gestire i più rilevanti affari di interesse per l’associazione e, comunque, di conseguire profitti e vantaggi ingiusti, a tale scopo avvalendosi della forza intimidatrice che essi imputati mutuavano dalle cosche di appartenenza al cui vertice essi si trovavano, e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano. Nel territorio della Provincia di Reggio Calabria, a decorrere dall’estate dell’anno 1991 e sino a tutt’oggi”.
Secondo l’accusa, l’organismo denominato “Cosa Nuova” era una specie di “cupola”, mutuata dal modello siciliano, un organismo di livello superiore rispetto alle singole cosche della ‘ndrangheta attive nella Provincia di Reggio Calabria, “composto per le finalità indicate nel capo di imputazione e tra le quali vi era quella di risolvere le eventuali controversie che potevano insorgere tra le varie consorterie, cioè di porre fine alle guerre di mafia e, anzi, di prevenirne l’insorgere”.
Questa tesi accusatoria contemplava che questo organismo gerarchicamente sovraordinato costituiva, dal punto di vista giuridico, un’associazione di tipo mafioso distinta e diversa rispetto a quella di ogni singola cosca. Un’impostazione rivelatasi sbagliata.
La tesi dell’esistenza della “cupola” si fondava sulle dichiarazioni di molti collaboratori di giustizia e su una conversazione tra presenti captata in data 16 maggio 1993 all’interno dell’abitazione di Rosa Errigo, moglie del defunto boss Paolo De Stefano. Da questa intercettazione emergeva che il vecchio boss di San Luca, Antonio Nirta, stava cercando di organizzare un summit al quale avrebbero dovuto partecipare esponenti di spicco della criminalità reggina per porre fine alla sanguinosa faida tra i Nirta e i Vottari. Nella circostanza, in particolare, il Nirta chiese a Carmine e Giuseppe De Stefano, figli di Paolo, di “mandare la ‘mbasciata” a Domenico Libri, ai fratelli Tegano e a Orazio De Stefano.
L’impianto accusatorio non resse davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria che dichiarò la non sussistenza del fatto: “Ritiene la Corte che dall’esame del materiale probatorio raccolto non possa desumersi l’esistenza di un superorganismo mafioso di vertice avente le finalità ipotizzate dall’accusa”.
La tesi dell’esistenza di una “Cupola” fu smontata anche dalla Corte D’Assise d’Appello, con la sentenza del 3 aprile 2001.
Quindi, prima della sentenza del processo Crimine, la situazione, alla luce delle risultanze giudiziarie fino a quel momento concretizzatesi, si può sintetizzare così, come testualmente riportato nella memoria depositata dai Magistrati della Procura in Corte d’Appello:
“ - la ‘ndrangheta è un “complesso di locali” (sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, c.d. processo “Primavera”); per locale si intende quel territorio dove ci sono circa 50 affiliati;
la ‘ndrina, invece, si forma all’interno della locale: quando vi sia una famiglia che possa contare su qualche decina di affiliati il capofamiglia chiede al capo locale, durante la riunione di Polsi, il distacco di una ‘ndrina;
la ‘ndrangheta ha una struttura “orizzontale”, a differenza della mafia siciliana, organizzata invece verticalmente: ogni locale opera in posizione paritaria rispetto a tutti gli altri esistenti sul territorio, ma ciò non esclude che i rappresentanti delle singole locali possano incontrarsi periodicamente o in occasione di eventi particolarmente rilevanti per pianificare comuni strategie; ciò avviene, ad esempio, in occasione della annuale riunione di Polsi, quando i vari capi-locale si incontrano “per stabilire influenze, ristabilire controlli territoriali, concordare nuove strategie, consolidare vecchie alleanze fra locali o famiglie, ma anche per appianare contrasti. Ogni locale manda a Polsi un proprio rappresentante che normalmente è il capo locale” (sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, c.d. processo “Primavera”);
nel processo noto come “Armonia”, relativo ad un’attività di indagine svolta alla fine degli anni novanta, si era registrato un “processo evolutivo di tipo piramidale” nel senso che dalle intercettazioni ambientali era emersa la possibile esistenza di un “organismo collegiale egemone” sovraordinato alle singole locali e denominato “la Provincia”. La sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, concludeva nel senso che la piattaforma probatoria a disposizione non aveva consentito di affermare con certezza l’esistenza di tale “organismo collegiale egemone”, né di individuarne i poteri, pur non potendosene escludere l’esistenza;
sempre nel processo “Armonia” dalle intercettazioni ambientali era emersa l’esistenza di tre macroaree, che i conversanti chiamavano “mandamenti”: quello jonico (che arrivava “fino a Melito”), quello tirrenico e quello di Reggio centro”.

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