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gratteri c lidia barattaIntervista
di Lidia Baratta

Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria spiega: “Non misuro la presenza delle mafie dal numero dei morti a terra o dalle macchine bruciate. La ‘ndrangheta che conosco io è quella che muove tonnellate di cocaina e poi con quei soldi condiziona l’economia”.

È meta febbraio, ma il termometro a Reggio Calabria segna già 22 gradi. Non fa solo molto caldo in riva allo stretto. In meno di dieci giorni, in città si sono consumati quattro agguati, tutti con modalità che sembrano di stampo mafioso: tre tentati omicidi; e un omicidio, in pieno giorno, il 15 febbraio, nel quartiere Gallina.

Lo studio del procuratore aggiunto Nicola Gratteri, da trent’anni in prima linea contro la ‘ndrangheta, si trova in linea d’aria a circa sei chilometri da lì. Sono i suoi ultimi mesi nel palazzone della procura di Reggio: presto andrà a combattere i mafiosi come procuratore alla Dda di Catanzaro. Da quest’ufficio si vede l’ultimo tratto della Salerno-Reggio Calabria: è da qui che, tra i viaggi, le lezioni di Economia della criminalità all’Università Mediterranea e le domeniche nell’orto di Gerace, studia l’escalation di agguati e intimidazioni a negozi, sindaci e sindacalisti che dall’inizio dell’anno ha colpito la Calabria da Nord a Sud. Dal cosentino allo stretto.

L’11 febbraio a Reggio Calabria è “sceso” pure il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che ha dato la sua spiegazione dei fatti. «È la reazione della ‘ndrangheta alla pressione dello Stato», ha detto, «segno della debolezza delle cosche». Una spiegazione che però non convince Gratteri. «Non bisogna fare un’insalata di tutto quello che sta succedendo», dice. «È improbabile che i boss di ‘ndrangheta, visto che negli ultimi anni abbiamo arrestato 2mila di loro, si siano riuniti e abbiano deciso di bruciare un po’ di pullman lì, mettere bombe carta qui, gambizzare e uccidere da un’altra parte». Anche perché, dice Gratteri, che è uno che le parole le misura, «non tutto è ‘ndrangheta e i fatti vanno analizzati uno a uno, con le cause e le concause. Molte volte sono fatti singoli, in altri casi cinque o sei eventi hanno un unico disegno».

Come gli agguati e l’omicidio a Reggio Calabria?
Sì, questi sono eventi collegati tra loro, che ricordano le guerre di ‘ndrangheta. Una ‘ndrangheta che uccide solo quando è necessario.

Cosa significa?
Al di là dei singoli episodi, sui quali ci sono indagini in corso, la ‘ndrangheta che conosco io non ha alcun interesse a fare rumore e ad avere uno scontro con le istituzioni.

Quindi non siamo di fronte a un’emergenza?
L’emergenza c’è, ma c’era anche un anno fa quando c’erano meno episodi criminosi. Per me l’emergenza c’è sempre. Non misuro la presenza o la pervasività delle mafie dal numero delle macchine bruciate o dai morti a terra. Non è quella l’emergenza. La ‘ndrangheta che conosco io discute, parla, dà consigli, formalmente non minaccia ma intimidisce. La ‘ndrangheta che conosco io è quella che muove tonnellate di cocaina e poi con i soldi guadagnati condiziona l’economia e quindi la libertà della gente. È quella che controlla il voto, gli appalti, che dice non solo chi vince l’appalto, ma anche dove deve essere costruita un’opera pubblica e se deve essere costruita. Per me l’emergenza dura da trent’anni, da quando faccio il magistrato.

Gli amministratori locali, però, negli ultimi mesi sembrano nel mirino della criminalità.
In questo caso la situazione è più delicata.

Cioè?
Bisogna fare una premessa: la ‘ndrangheta vota e fa votare. Tutti i candidati dicono sempre che i voti della mafia non li vogliono, lo dicono pubblicamente, anzi lo urlano. Ma spesso nelle ultime 48 ore al candidato viene il panico di non essere eletto e quindi è nelle ultime 48 ore che fa i patti col diavolo. Ovviamente nel momento in cui una famiglia di ‘ndrangheta ti consegna un pacchetto di voti che è il 20% dell’elettorato attivo, determina chi sarà il sindaco. Il capomafia quindi vorrà quantomeno cogestire il comune. Come minimo indicando chi sarà il tecnico comunale o intervenendo sul piano regolatore. Può darsi anche però che la ‘ndrangheta sbagli il cavallo vincente, ma il capomafia non starà alla finestra a guardare, farà di tutto per entrare nella spartizione della torta.

E questo cosa significa?
Significa che non tutti gli attentati ai pubblici amministratori sono fatti dalla mafia perché l’amministrazione si è opposta alla mafia. Molti attentati vengono fatti perché l’amministratore non è stato al gioco e al giogo della ‘ndrangheta. Alcuni attentati vengono fatti perché l’amministratore o il politico non è stato ai patti precedenti con ‘la ndrangheta. Altri attentati ancora possono non riguardare la ‘ndrangheta, ma essere problemi anche interni ai rapporti tra pubblici amministratori.

Non misuro la presenza o la pervasività delle mafie dal numero delle macchine bruciate o dai morti a terra. Non è quella l’emergenza. La ‘ndrangheta che conosco io è quella che muove tonnellate di cocaina e poi con i soldi guadagnati condiziona l’economia e quindi la libertà della gente. È quella che controlla il voto e gli appalti
Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Reggio Calabria


Angelino Alfano a Reggio ha detto che la nuova serie di attentati è segno della debolezza delle cosche. Chi sta vincendo, voi o loro?

Penso che stiamo pareggiando la partita. Per vincere davvero bisogna cambiare le regole del gioco. Come dicono nei teatri di guerra, bisogna cambiare le regole di ingaggio: il codice penale, il codice di procedura penale, l’ordinamento penitenziario, sempre nel rispetto della Costituzione. È necessario fare tante di quelle modifiche finché delinquere non sarà più conveniente. Sono tutte proposte che abbiamo messo nero su bianco nella Commissione voluta dal governo, che ho presieduto a titolo gratuito chiamando i migliori esperti sul campo (Commissione Gratteri, ndr).

Mi fa un esempio di quello che avete proposto?
In Italia ci sono 44mila uomini della polizia penitenziaria. Ogni giorno diecimila di questi vengono impegnati per trasferire i detenuti. Se a Reggio Calabria si tiene un processo con 40 imputati detenuti che devono rispondere di concorso in associazione di stampo mafioso, bisogna impiegare gli uomini che scortino fino a Reggio i detenuti di massima sicurezza, che in genere stanno da Roma in su. Nel tribunale di Reggio questi detenuti stanno insieme sette-otto ore. Qui hanno il tempo di incontrarsi, parlare, fare affari, trasmettere attraverso gli avvocati messaggi di morte o richieste di mazzette, minacciare i testimoni. Per otto-nove mesi vengono tenuti nelle carceri tra Reggio, Palmi e Vibo Valentia. Poi torneranno a Reggio magari dopo sette-otto mesi per l’appello. Questo giochino in tutta Italia costa 70 milioni di euro. Quello che abbiamo proposto noi è che tutti i detenuti di alta sicurezza sentiti a qualsiasi titolo, come indagati, testimoni, o anche se si devono separare, non vengano trasferiti, ma restino dove sono sfruttando le videoconferenze. Con una sola modifica si eviterebbe che i detenuti possano continuare a nuocere e minacciare e si risparmierebbero 70 milioni di euro l’anno. Immaginiamo quanti uomini della polizia penitenziaria potremmo assumere con questi soldi.

La Commissione ha concluso i lavori nel dicembre 2014. Che fine hanno fatto queste proposte?
Io immaginavo, fantasticavo, sognavo che un blocco di queste cose ovvie passassero velocemente con un decreto legge, il resto con dei disegni di legge. Purtroppo forse non c’è una maggioranza forte tale da portare avanti queste piccole rivoluzioni. Alcune di queste proposte si stanno discutendo ora in Parlamento.

Ma le procure calabresi hanno i mezzi per combattere le cosche?
Esclusa Reggio, nelle altre quattro province calabresi la presenza della ‘ndrangheta è stata ed è sottovalutata da magistrati, istituzioni e studiosi. Tranne alcuni. Come Giovanni Bombardieri (procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, ndr), che urla e grida dicendo che con questi organici non ce la fanno più e non sono in grado di tenere testa alle ondate di mafiosi. Ma non lo sta ascoltando nessuno. Tutti a dargli pacche sulle spalle, a dirgli che ha ragione, ma nessuno concretamente gli ha dato una mano nel corso degli anni.


Con la ‘ndrangheta stiamo pareggiando la partita. Per vincere davvero bisogna cambiare le regole del gioco: il codice penale, il codice di procedura penale, l’ordinamento penitenziario. È necessario fare tante di quelle modifiche finché delinquere diventerà non conveniente
Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Reggio Calabria


Ma bastano modifiche normative e più mezzi per sconfiggere la ‘ndrangheta?

No, bisogna anche investire in istruzione e in cultura. Basta risparmiare i soldi spesi in convegni antimafia e assumere gli insegnanti calabresi che stanno andando in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana. Avremmo bisogno di in una scuola a tempo pieno. I giovani in Calabria sono sempre più ignoranti, così vengono affascinati dall’onnipotenza che può dar loro l’affiliazione alla ‘ndrangheta: è su di loro che bisogna lavorare. Certo, con le modifiche normative vedi i risultati già dopo quattro o cinque anni. Se investi in istruzione e cultura hai bisogno di molto più tempo per vedere i risultati. E il politico purtroppo non fa progettazione di lungo periodo: il politico fa progetti i cui risultati devono vedersi al massimo tra un anno e mezzo. Sarà molto dura.

La principale fonte di finanziamento per la ‘ndrangheta resta il traffico cocaina, come lei ha raccontato in Oro Bianco (scritto con Antonio Nicaso). Ha in mente una soluzione anche per fermare il narcotraffico?
Noi sequestriamo solo il 10% della cocaina che passa. Vuol dire che le regole di ingaggio non vanno bene, vuol dire che bisogna modificarle. Io ho un’utopia: se avessimo un'Onu diversa da quella che c’è oggi, potremmo risolvere il problema della cocaina. Purtroppo l’Onu è un organismo debole. Io lo vedo come il posto degli sfigati. Ma se fosse un organismo di peso, si dovrebbe andare in Colombia, Bolivia e Perù – i tre Paesi produttori di cocaina al mondo – e dire che siccome i governi locali non sono stati in grado di risolvere il problema della coca, lo faranno le Nazioni Unite.

Come?
I caschi blu scendono sulla terra rossa della foresta amazzonica e parlano con i cocaleros. Se coltivando la coca guadagnano 100 e coltivando granturco guadagnano 40, l’Onu si impegna a dare il 60% del mancato guadagno. Con i caschi blu che restano là e controllano se effettivamente si sta coltivando granturco. In questo mondo risolveremmo il problema del traffico di cocaina con un terzo della spesa che il mondo occidentale spende per contrastare le narcomafie. Ma risolveremmo anche il problema del riciclaggio e di un’economia drogata dove alcuni giocano con regole del libero mercato mentre altri con le carte truccate perché per comprare un albergo non devono farsi prestare soldi in banca visto che ce li hanno già. Il problema delle elite della ‘ndrangheta oggi non è quello di arricchirsi, ma di giustificare le ricchezze. La fatica per loro ora è far uscire alla luce del sole i milioni accumulati.

Se avessimo un'Onu diverso da quello che c’è oggi, potremmo risolvere il problema della cocaina. Purtroppo l’Onu è un organismo debole. Io lo vedo come il posto degli sfigati
Nicola Gratteri, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Reggio Calabria


Tratto da: linkiesta.it