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cassazione-corteLe motivazioni della sentenza di condanna
di AMDuemila - 18 aprile 2015
La 'Ndrangheta a Torino era autonoma rispetto alla "fonte", l'organizzazione criminale di Reggio Calabria. Nonostante fossero in contatto costante, infatti, secondo le motivazioni della sentenza di Cassazione (che ha condannato 47 imputati su 50 al processo Minotauro, per chi aveva scelto il rito abbreviato) gli 'ndranghetisti "emigrati" al nord avevano facoltà di “individuare propri obiettivi e agire di conseguenza nei modi ritenuti più opportuni ed efficaci”. Non si tratta, dunque, di una mafia silente, ma di un'associazione criminale che "ripropone tutti gli indici rilevatori del fenomeno mafioso calabrese". Il tutto provato da un sistema estorsivo che ha "generato un clima di assoggettamento e omertà" per raccogliere denaro destinato ai detenuti ed ai loro familiari. Queste alcune delle ragioni della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, mentre per gli imputati che hanno scelto il rito ordinario il verdetto della Corte d'appello di Torino è atteso per il prossimo 28 maggio.

Il clima di omertà, anche secondo la sentenza della Corte d’appello di Torino, era provato dal fatto che “in molte occasioni gli imprenditori della zona non hanno mai denunciato i delitti di cui sono rimasti vittima”. La forza intimidatoria, poi, era garantita dallo stretto collegamento con la 'Ndrangheta di Reggio Calabria. E il carattere mafioso dell'associazione trovava conferma nella "vastità del campo d’interesse dell’associazione, tutt’altro che limitato al mero controllo di attività commerciali, ma esteso a quello dell’edilizia”. “Per commettere delitti e assumere il controllo di attività economiche - si legge ancora - gli affiliati si sono concretamente avvalsi della forza di intimidazione dell’associazione mafiosa, con conseguente assoggettamento delle vittime e rifiuto omertoso delle stesse di collaborare con gli inquirenti”.
Una 'Ndrangheta, insomma, tutt'altro che invisibile ma fortemente presente sul territorio, e questo sarebbe provato da fatti "emblematici dell’estrinsecazione del metodo mafioso e della percezione della pericolosità del fenomeno da parte della popolazione" come l'episodio legato a Vincenzo Argirò, ritenuto membro del Crimine e condannato in primo grado a 21 anni di reclusione, che un giorno si presento ai titolari di un cantiere in corso per sistemare gli argini del torrente Stura: "Avevano in mano una copia di una vecchia ordinanza di arresto a loro carico. Dissero al titolare: 'questi siamo noi'".
All'interno delle motivazioni, poi, un capitolo degno di nota è quello che riguarda i due collaboratori di giustizia Rocco Marando e Rocco Varacalli. Di quest'ultimo, in particolare, si parla di dichiarazioni dal contenuto "coerente e costante, privo di contraddizioni e munito di plurimi riscontri esterni".