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oppedisano-domenicodi Miriam Cuccu - 28 febbraio 2014
96 condanne e 28 assoluzioni. È un risultato storico quello che chiude il processo “Crimine” nell’aula bunker di Reggio Calabria, che vedeva accusati 124 imputati arrestati nella maxioperazione scattata a luglio 2010 e legata all’operazione “Infinto”, grazie alla quale sono stati svelati gli assetti della ‘Ndrangheta in Lombardia. Soddisfatto il procuratore Federico Cafiero De Raho: “Questo è il procedimento che ha affermato l’unitarietà della ‘Ndrangheta e ha tenuto sia in primo che in secondo grado. Si tratta di un’impostazione che in passato non è stata unanimemente condivisa, ma a partire da oggi si può dire che esiste una base giurisdizionale da cui partire, per cui non possiamo che definirla un successo”. “In Appello – ha poi proseguito – mantenere pene della stessa consistenza e in qualche caso riuscire anche ad aumentarle vuol dire che esistevano reali motivi di doglianza nei confronti della sentenza di primo grado”.

Anche il procuratore aggiunto Nicola Gratteri ha commentato la sentenza: “E' importante che non solo è stata riconosciuta anche in appello l’unitarietà della 'Ndrangheta, ma sostanzialmente c'è stata una reformatio in peius della sentenza di primo grado, poichè a molti imputati sono state tolte le attenuanti generiche riconosciute in primo grado, quindi la giudico una sentenza molto positiva”. Una unitarietà, ha proseguito “che si cerca di dimostrare sin dalla sentenza di Montalto, a Locri nel 1970. Già allora nella sentenza del presidente Marino si parlava di unitarietà della 'Ndrangheta, poi anche nella sentenza Armonia, si parla di mandamenti e del Crimine, ossia una struttura sovraordinata ai locali, e oggi finalmente abbiamo una sentenza d’appello che ci conferma che c'è una 'ndrangheta unitaria”.
Il tribunale reggino, presieduto dal giudice Rosalia Gaeta, ha condannato a dieci anni Domenico Oppedisano (in foto), boss 84enne di Rosarno nominato “Capo crimine”, al quale spettava il compito di appianare eventuali controversie che potevano nascere tra le ‘ndrine. La decisione risale al 19 agosto 2009 nel corso di un matrimonio tra due figli di boss: Elisa Pelle e Giuseppe Barbaro. Proprio in un’occasione nuziale, secondo quanto accertato dagli investigatori, vennero decise tutte le cariche di vertice della mafia calabrese. Ruoli che vennero poi confermati a Polsi il 2 settembre, proprio durante le celebrazioni per la festa della Madonna.
L’inchiesta Crimine, coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Gratteri e dai sostituti Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò, ha permesso di accertare una volta per tutte la natura unitaria della ‘Ndrangheta, non più rigidamente divisa in cosche scollegate tra loro ma facenti parte di un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”. E del vertice facevano parte le famiglie dei tre mandamenti tirrenica, jonica e Reggio Calabria città, dove al suo interno si muovono i “locali”, attivi al Nord Italia ma sempre subordinati al potere centrale, che in Calabria ha costruito la propria roccaforte.

L’antefatto
“La forza è là, la mamma è là” dice l’ex boss di Giussano Antonino Belnome, riferendosi alla Calabria. Ed è in nome di questo sacro principio che i capibastone uccidono il boss Carmelo Novella. Colpirne uno per educarne cento, perché Novella si era messo in testa di recidere quel legame che tiene unite le cosche calabresi con gli avamposti nel Nord Italia. Così dalla punta dello stivale venne emessa la sentenza di morte, poi messa in atto il 14 luglio 2008 in un bar di San Vittore Olona. L’inchiesta che nel 2010 ha portato ad oltre trecento arresti in tutta Italia nel corso dell’operazione “Il Crimine” parte proprio da qui. E svela una struttura della mafia calabrese che non si discosta poi molto da quella siciliana, verticistica, nella quale viene stabilito il ruolo principale della Calabria sotto il cui controllo sono tenuti a sottostare tutti gli altri territori, dal Canada alla Lombardia.
Nel summit del 31 ottobre 2009 a Paterno Dugnano, nella periferia milanese, una trentina di capibastone si incontrano presso un circolo intitolato a Falcone e Borsellino. Qui, dopo aver brindato alla morte del boss Novella, e con lui al suo progetto sovversivo, nominano nuovo “mastrogenerale” della ‘Ndrangheta in Lombardia Pasquale Zappia, incaricato di tenere saldi i rapporti e i collegamenti con i parenti calabresi. “Per quanto mi riguarda io darei il voto a Pasquale Zappia. Un uomo responsabile, e siamo tutti, uniti e responsabili nei confronti della Madre” sentenzia l’avvocato Pino Neri, capomafia di notevole caratura criminale in Lombardia nonchè “commissario” della riunione, arrestato sempre a luglio del 2010 e nel 2012 condannato in primo grado a 18 anni di reclusione nell’ambito del processo scaturito dall’operazione Infinito. Perché la ‘Ndrangheta è una e una sola, e per chi sgarra non c’è un’altra opportunità.

Foto © AFP/GETTY IMAGES

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