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musaro-giovanni-webdi Antonio Nicola Pezzuto - 6 agosto 2013
Torno ad occuparmi delle vicende di un magistrato in prima linea nella lotta alla “Ndrangheta, un magistrato schivo e riservato. Circa tre mesi fa avevo scritto dell’agguato al Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Giovanni Musarò (foto). Attentato che doveva rivelarsi mortale e che, da quasi tutti i media, è stato sottovalutato.
Torno a scrivere per raccontare del successo ottenuto dal Pm, e quindi dallo Stato, sulla ‘Ndrangheta. Infatti è di pochi giorni fa la sentenza della Corte d’Assise di Palmi nel processo “Cosa Mia”.
Un’inchiesta certosina portata avanti per anni da Giovanni Musarò e dal suo collega Roberto Di Palma. Un duro lavoro che stava per costare la vita al Sostituto Procuratore ma che ha portato alla condanna del suo attentatore e di altri membri del suo clan.
Il Processo “Cosa Mia” ha fatto luce su tutta una serie di reati compiuti da Domenico Gallico, che aveva cercato di strangolare Musarò, e dal suo clan.
Al centro delle indagini i lavori per l’ammodernamento dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria. I clan avevano allungato i loro tentacoli sull’opera imponendo la cosiddetta “tassa ambientale”, una tangente del 3% sugli appalti quale corrispettivo per la “sicurezza”. Il potente clan dei Gallico, fiancheggiato da altre famiglie alleate, era entrato in conflitto con i Bruzzise per riuscire ad accaparrarsi il business delle estorsioni. Una guerra di mafia sanguinosissima, condotta da affiliati spietati. Basta pensare che tra il 1980 e il 1988 ha causato 52 vittime.

La Corte d’Assise ha premiato il lavoro dei due pm condannando 42 imputati, cinque dei quali all’ergastolo. Da sottolineare che le condanne hanno riguardato anche alcuni imprenditori che sarebbero stati complici dei boss per aiutarli a mettere le mani anche sui subappalti. Tra i cinque condannati all’ergastolo spicca il nome di Domenico Gallico, l’attentatore di Giovanni Musarò.
Il processo, badate bene, era stato sospeso per oltre un mese (dal 6 giugno 2013 al 18 luglio 2013) perché Domenico Gallico ne aveva chiesto lo spostamento ad altra sede per legittimo sospetto. Le ragioni del legittimo sospetto, secondo il boss, consistevano nel fatto che, dopo quanto accaduto, cioè dopo che aveva rotto il naso e tentato di strangolare Giovanni Musarò, questi aveva avuto il coraggio di non astenersi e di continuare a sostenere la pubblica accusa in quel processo. Circostanza che, secondo il Gallico, da un lato dimostrerebbe l’accanimento del Pm nei confronti suoi e della sua famiglia e dall’ altro avrebbe minato la serenità dei giudici e degli avvocati. Questo è incredibilmente scritto nell’istanza inviata alla Corte di Cassazione che, ovviamente, l’ha dichiarata inammissibile.
I reati contestati agli imputati sono l’associazione per delinquere di stampo mafioso e tutta una serie di omicidi che erano rimasti irrisolti e compiuti nella faida di Palmi.
Al momento della lettura del dispositivo del presidente della Corte d’Assise di Palmi, Silvia Capone, Giovanni Musarò era in aula insieme al Procuratore Capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, al Procuratore aggiunto Michele Prestipino e al collega Roberto di Palma.
Chissà quali pensieri e quante emozioni avranno affollato la sua mente. Sicuramente sarà stata immensa la soddisfazione per essere riuscito a portare a compimento il suo lavoro condotto scrupolosamente come la sentenza ha dimostrato.
Fa riflettere l’assurda richiesta del Gallico che aveva chiesto lo spostamento del processo ad altra sede per legittimo impedimento perché Giovanni Musarò “aveva avuto il coraggio di non astenersi e di continuare a sostenere la pubblica accusa in quel processo”.
Questa storia penso che debba essere esemplare per ogni cittadino in quanto fa capire come le mafie cercano attraverso l’intimidazione e la prevaricazione di raggiungere i loro obiettivi. Colpisce lo stupore del boss che non riesce a bloccare con il suo attentato un fedele servitore dello Stato.
Il coraggio dimostrato da Giovanni Musarò è stato premiato, anche a caro prezzo, perché ormai è costretto a vivere sotto scorta. Compito di tutti non lasciare isolati uomini che non si piegano alle minacce per compiere il proprio dovere. Ad ognuno la scelta di decidere se stare dalla parte dello Stato, della legge e della giustizia. Senza indugi, senza se, senza ma e, soprattutto, senza alcun compromesso.