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tribunale-toga-webLa vita e gli affari dei boss in Lombardia
di Monica Centofante – 20 novembre 2011
C’è una “cupola” della ‘Ndrangheta, che vive e opera sul territorio lombardo e che si è infiltrata nel suo tessuto imprenditoriale e istituzionale.
E’ finalmente scritto nero su bianco, in una sentenza, quello che magistrati e investigatori denunciano da anni tra silenzi e pericolose sottovalutazioni: la mafia calabrese è una grande e ramificata organizzazione.

E non solo è presente ed operante in Lombardia, ma ha in quel territorio una struttura verticistica, composta da 15 “locali” dislocati tra Milano e i comuni limitrofi. Nel profondo nord come nel paese d’origine, anche se la testa dell’organizzazione rimane in Calabria, lì dove partono gli ordini.
Ha retto fino alla fine l’impianto accusatorio della Dda milanese - pm Alessandra Dolci e Paolo Storari coordinati dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini - che in tempi record, meno di un anno e mezzo dal maxi-blitz Infinito del luglio 2010, ha portato alla condanna di 110 imputati su 119. E con pene severissime.
Quella più alta, sedici anni di carcere, è stata inflitta ad Alessandro Manno, capo della “locale” di Pioltello, alla quale seguono i quattordici anni per Vincenzo Mandalari, Pasquale Varca e Cosimo Barranca, capo locale di Milano. Dodici anni invece sono stati comminati a Pasquale Zappia, l’uomo che fu investito del titolo di “capo dei capi” nel corso del famoso summit svolto nel centro per anziani di Paderno Dugnano intitolato a Falcone e Borsellino. Alla lettura del dispositivo della sentenza, giunto dopo 32 ore di camera di consiglio, il boss non ha retto il colpo: ha accusato un malore ed è stato trasportato d’urgenza su una lettiga fuori dall’aula bunker di via Uccelli di Nemi.
La sentenza, hanno ammesso ieri gli stessi avvocati, rappresenta “una vittoria della procura”, che è riuscita ad ottenere, per quasi tutti gli imputati, il riconoscimento dell’associazione mafiosa. Risultato di straordinaria importanza ottenuto grazie “alla piena collaborazione tra i magistrati di Milano e Reggio Calabria”. A sottolinearlo Ilda Boccassini che ha espresso grande soddisfazione ricordando anche le critiche subìte da chi “preferisce parlare di faide tra famiglie” e “sminuire la ‘Ndrangheta, che è mondiale, sino a farla diventare una questione di paese, di piccoli paesi”.
Ma da ieri non è più così. Dopo “un procedimento gigantesco”, come lo ha definito il pm Dolci, tanto “che anche io ho perso il numero dei faldoni”, si è giunti finalmente a mettere dei punti fermi.  Non solo la presenza della mafia calabrese in Lombardia, ma le sue infiltrazioni nel mondo imprenditoriale, in primis nel settore edile e del movimento terra, in quello della Sanità pubblica  insieme ad “una serie di iniziative di carattere elettorale” attraverso le quali i boss puntavano ad entrare nel mondo della politica “sia a livello locale che a livello regionale”.
Due i politici imputati nel maxi processo: Pasquale Valdes, l'ex sindaco di Borgarello (Pavia),  condannato a un anno e quattro mesi per turbativa d'asta (insieme ad un imprenditore e a un commercialista avrebbe permesso all’ex direttore dell’Asl di Pavia Carlo Chiriaco, sotto processo con rito ordinario, di acquistare terreni per speculazione edilizia) e Antonio Oliverio, ex assessore provinciale milanese, assolto come chiesto dalla Procura. A 12 anni è stato invece condannato Salvatore Strangio, che secondo l’accusa aveva in mano la Perego Strade.
Tra i grandi protagonisti dell’indagine  che ha portato alle storiche condanne Vincenzo Mandalari, nella sua duplice veste di boss e imprenditore. Capo della “locale” di Bollate e particolarmente presente nelle carte dell’inchiesta, è lui,  ignaro di essere intercettato, che nelle sue chiacchierate con gli altri sodali fornisce un quadro  dell’organizzazione mafiosa in terra lombarda: con tanto di nomi, numeri di locali e di affiliati (almeno cinquecento) e regole ferree decise da mamma Reggio. E chi sgarra viene punito con la morte, come quel Carmelo Novella assassinato perché voleva rendersi indipendente dalla mafia calabrese.
Con la sentenza di ieri sono state confiscati beni per un valore di oltre quindici milioni di euro ed è stato deciso che a Comune e Regione, che si erano costituiti parte civile, spetterà il risarcimento. Le motivazioni della sentenza saranno depositate tra 60 giorni.

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